A proposito di tecniche…
Un’esperienza nella scuola con bambini autistici
Vallj Vecchiato
Negli Anni ’70, quando ero una giovane supplente, arrivò il mio primo incarico come insegnante di sostegno in una scuola elementare speciale per sordi. Mi affidarono due bambini autistici. I due bambini erano seguiti da un Centro che praticava il “metodo Lovaas” quello che oggi si chiama ABA. Tale modello prevede un tipo di intervento educativo intensivo (quaranta ore alla settimana) portato avanti da un insieme di educatori formati e supervisionati da psicologi comportamentali. L’intervento è 1 a 1, di circa sei ore al giorno, e nella prima fase viene messo in atto a casa. Inizialmente il programma si focalizza sullo sviluppo di abilità di comunicazione, imitazione e gioco. Successivamente il bambino viene integrato a scuola con il supporto di insegnanti che seguono scrupolosamente tale metodo. Per iniziare, quindi, dovetti andare in quel Centro per essere “addestrata” al loro metodo.
A scuola fui affiancata da un’educatrice comunale perché il metodo prevedeva un rapporto 1 a 1. Io e la collega dovevamo occuparci solo della didattica, cioè dovevamo applicare il programma minuzioso di apprendimento di lettura/scrittura e matematica che ci dava il Centro. Il programma di insegnamento lo trovavo interessante perché ogni materia era divisa in tanti item che ne facilitavano notevolmente l’apprendimento, però il “rinforzo” era lontano dalla mia logica di relazione, per cui lasciavo che i bambini fossero liberi di prendersi biscotti, caramelle o altro che lasciavo sul tavolo. I contatti con i genitori li avrebbe tenuti il direttore didattico, mentre io con i due bambini, ogni due mesi, sarei dovuta andare al Centro per il controllo degli apprendimenti e per avere il programma successivo. Nell’edificio scolastico c’erano molte classi con bambini sordi ma anche normodotati; a noi assegnarono due aule in un corridoio dove non c’era nessuno.
Matteo e Lucia erano due bambini di nove anni; sembravano due piccoli robottini che si muovevano lentamente con lo sguardo perso nel vuoto e da subito mi suscitarono tenerezza e simpatia. Ogni mattina i due bambini arrivavano puntuali in aula col loro zainetto sulle spalle con dentro i “rinforzi” che noi avremmo dovuto dare ad ogni esercizio eseguito giusto e nei tempi previsti. A me veniva spontaneo rivolgermi a loro come a due bambini normali anche se erano diagnosticati sordi, autistici, ipovedenti e avevano delle stereotipie; ad esempio Matteo sputava in continuazione come quando si ha un pelo sulla punta della lingua, mentre Lucia si batteva in continuazione con un dito l’angolo della bocca da dove faceva uscire le bolle di saliva. Io ogni tanto imitavo i loro gesti o li esageravo, giocavo con le loro mani, con i suoni, ecc. Insomma facevo quello che si fa di solito con i bambini. Con la mia collega ci trovammo d’accordo nel seguire il programma del Centro senza però applicare la parte dei “rinforzi”; organizzammo quello spazio desolato in modo da renderlo confortevole per noi e i bambini con aree di gioco e di lavoro.
Al primo controllo al Centro dopo due mesi andai con un po’ di ansia perché non sapevo cosa avrebbero controllato. Il programma i due bambini l’avevano imparato, però con loro e con il “rinforzo” chissà come sarebbe andata!? Al Centro, mentre facevano il controllo, io restai nel salone dove c’erano gli operatori che facevano la pausa lunga con i bambini. Ogni operatore seguiva un bambino e ogni bambino stava col suo operatore: c’era chi girava per la stanza col bambino sulle spalle, chi faceva giocare il bambino con la torcia, chi passava la palla sulla schiena del bambino, ecc.
Finalmente Matteo e Lucia uscirono con gli psicologi; mi dissero che i bambini aveva superato bene tutte le prove, che si erano comportati bene e che potevo applicare il programma successivo. Wow, che sudata!
Il giorno dopo, la mamma di Matteo mi avvicinò fuori dalla scuola e con un tono rigido e severo si raccomandò che fossi precisa coi “rinforzi” altrimenti i bambini sarebbero regrediti. Io non osai affrontare la questione perché la vidi molto ferma nelle sue convinzioni e la rassicurai.
I genitori di Lucia li vidi solo una volta di sfuggita, mentre la mamma di Matteo ogni tanto la incontravo o ci scriveva per dirci che aveva cambiato “rinforzo”.
Io e la mia collega lavoravamo bene insieme, i bambini apprendevano sempre più velocemente per cui restava più spazio per il gioco; col tempo le stereotipie diminuirono e alcune sparirono. I controlli al Centro andavano bene e ogni volta ci davano il programma successivo. Al terzo e quarto controllo Matteo, davanti al portone, manifestò paura e per farlo entrare dovetti tenerlo stretto e rassicurarlo che saremo restati là poco e poi saremo tornati a scuola.
Arrivò giugno e il mio incarico finì. A settembre mi ridiedero l’incarico ancora per la stessa scuola. Ero contenta, pensai ai cambiamenti che avrei potuto fare, ad esempio chiedere una ubicazione più vicina alle altre classi, trovare momenti per farli partecipare alle attività degli altri bambini, ecc. Arrivai a scuola e il direttore mi presentò Luca, un altro bambino autistico. Mi disse che Matteo e Lucia erano stati inseriti al Centro perché i genitori, avendo visto i progressi dell’anno passato, avevano pensato che là sarebbero migliorati ancora di più.
Gridare? Piangere? Troppo tardi, ormai non potevo fare più niente.
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