TERAPEUTI IN FORMAZIONE
Gli allievi della Scuola di specializzazione de Il Ruolo Terapeutico sono tenuti a presentare, al termine di ogni anno accademico, un elaborato riferito alla propria esperienza formativa. All’interno di questo spazio ne ospiteremo alcuni.
Alla ricerca dell’acqua calda
Stefano Ciervo
Ero ancora studente quando, appena iscritto al corso di laurea magistrale, cominciai a lavorare come educatore per il servizio di assistenza domiciliare per minori di una cooperativa sociale. Era il mio primo incarico ed ero totalmente sprovvisto di un metodo di lavoro, di un modello teorico, di supervisione e soprattutto di una posizione da adottare rispetto a Stefano, il bambino di dieci anni con il quale avrei lavorato per i successivi due.
Iniziai così, catapultato in quella casa così maleodorante e così piena di bisogni non visti e di dolori non riconosciuti. Non avevo ricevuto né obiettivi né linee guida ma solo l’indicazione di stare con Stefano, così bisognoso a quel tempo di una figura maschile al suo fianco. L’unica bussola alla quale far riferimento per costruire una relazione d’aiuto era il mio buon senso e la mia sincera disponibilità d’animo nei suoi confronti.
Ci vollero solo poche settimane per trasformare un iniziale momento di gioco in qualcosa di più denso affettivamente, in cui temi come protezione, riconoscimento e fiducia divennero veri e propri oggetti di scambio e lavoro tra di noi.
Mi trovai così, inizialmente inconsapevole poi piuttosto spaventato, a occupare un posto e un ruolo per Stefano. Un legame il nostro che nel tempo cominciava a dare la possibilità ad entrambi di vivere una reciprocità relazionale nutriente. Cominciai a sentire un crescente investimento nei miei confronti accompagnato dalla rabbia per l’inadeguatezza genitoriale che ormai era l’evidente motivo della mia presenza.
Ricordo la mia grande fatica nel percepire in toto la bontà della nostra relazione e del nostro lavoro, così irrimediabilmente fuso all’angoscia del sentirmi il “sostituto” di un genitore inadeguato, un retrogusto amaro di adozione più che di presa in carico.
Vedevo Stefano cinque giorni a settimana. Nel camminare da scuola verso casa mi raccontava la giornata e mi confidava difficoltà e successi e, arrivati a casa, ci occupavamo dei compiti e ci concedevamo uno spazio di gioco. Un semplice intervento educativo domiciliare che nell’arco di un anno divenne per me tanto coinvolgente quanto opprimente. Mi resi conto che con il tempo Stefano aveva drasticamente ridotto le aspettative di cura da parte dei propri genitori che, totalmente dediti al lavoro e al figlio più piccolo, avevano quasi interamente delegato a me la sua cura.
Dopo quasi due anni di lavoro, ricevo una telefonata dalla mia responsabile che mi avvisa che il mio incarico terminerà nell’arco di un mese.
Nessuna motivazione clinica, solo motivi legati alla scadenza dell’appalto della cooperativa. Fu estremamente difficile chiudere con Stefano senza la possibilità di un morbido atterraggio, senza che il motivo della conclusione fosse legato al nostro percorso. Non c’era spazio per gestire in autonomia la chiusura, da un giorno all’altro mi sarebbe stato impossibile rivederlo.
Ripensando a questo mio primo incarico sono principalmente due le suggestioni che sorgono: il ricordo di una relazione naturale, spontanea, nuova e nutriente e al contempo il sapore amaro di un lavoro interrotto, il disagio legato alla mia incapacità, o perlomeno alla mancata consapevolezza del bisogno di ottenere una circolarità con i genitori.
Ero solo con Stefano, totalmente guidato dal cuore ma, pur sentendone il bisogno, non riuscivo a lavorare con un pensiero che mi guidasse.
Soffrivo nel vivere la sua deprivazione affettiva, ma la mia proposta di cura nasceva da una posizione immersa nella sua vita, senza confini, senza ruolo definito, senza un setting.
Nel tempo trascorso finii gli studi e iniziai il tirocinio. Pur avendo vissuto un’esperienza così intensa cominciai a considerarla un primo “lavoretto”. Alla fine mi apprestavo a fare lo psicologo non l’educatore. Pensavo al mio futuro in studio, comodamente seduto dietro ad un tavolo a parlare di emozioni, non certo per strada a “fare”.
In attesa di imparare le regole del mestiere, quello vero, avrei dovuto comunque lavorare.
Cominciai così a prendere in carico altri casi di assistenza domiciliare spostandomi all’ambito delle tossicodipendenze e della riabilitazione psichiatrica. La consideravo la mia gavetta in attesa di fare davvero il mio lavoro.
Attraversai un periodo di circa due anni, durante il quale cominciai anche la Scuola.
Passavo le mie giornate con ragazzi estremamente sofferenti che mi costrinsero ben presto ad attingere alla mia esperienza con Stefano per non riprodurre gli stessi errori. Ero alla ricerca del mio setting interno.
Ci fu un momento di svolta quando compresi che stavo di fatto ricoprendo un ruolo di terapeuta anche lavorando nella stanza di un ragazzo ritirato o su una panchina con un paziente psicotico. La mia percezione mutò, non era più solo la gavetta dell’educatore che attende di diventare psicologo, cominciavo a riconoscere nel mio lavoro la sua specificità e il bisogno di lavorare e formarmi per essere sempre più pulito nell’occupare quella posizione.
Fu così che i principi del Ruolo Terapeutico mi vennero in sostegno. Al fianco della disponibilità e della creatività nel prestare la mia persona al servizio delle storie che incontravo, si affiancò la ricerca di una posizione definita nei principi guida, come scrive Erba, una posizione “definibile, generalizzabile, stabile e prevedibile”.
Questa ricerca era però accompagnata da una profonda confusione teorica ed intellettuale, in cui mi sembrava di aver acquisito chiari i principi teorici ma che poi nella pratica risultavano così artificiali e il mio intervento così sporco e distante.
Il mio lavoro veniva attraversato di continuo di domande come: è possibile essere terapeuta e al contempo essere fisicamente al fianco del paziente e con lui affrontare dolori e difficoltà? È possibile mantenere la giusta posizione pur muovendosi verso una persona bisognosa?
Io provo desiderio, preoccupazione e affetto per questi ragazzi, cosa sto realmente facendo?
Ci volle tempo prima che assimilassi la scoperta dell’acqua calda. Ci volle tempo prima che riuscissi a vivere relazioni di piena reciprocità umana e al contempo di asimmetria di ruolo.
Imparai pian piano a stare, assistere e intervenire davanti agli agiti dei pazienti, spesso drammatici, muovendomi senza intaccare il principio di parità e reciprocità, di libertà e responsabilità di sé. Imparavo così ad alleggerirmi dell’angoscia davanti a un braccio tagliato o a un’overdose. Imparavo così a stare davanti a una porta chiusa da anni rispettando questa scelta ma offrendo la mia disponibilità e il mio sostegno perché si aprisse.
Ciò che oggi è per me una conquista è aver accettato che si tratta di “tendere verso” una direzione. Il lavoro pulito negli interventi domiciliari è pressoché impossibile. Non posso considerare i miei vissuti come contro-transferali, io sono lì con loro in quel momento, si tratta realmente di me e di lui.
Se, come accaduto con Stefano, oggi principalmente il mio lavoro consiste nell’accogliere una domanda che spesso si traduce in un bisogno da soddisfare insieme, oggi riesco a considerare questo processo all’interno di un’ottica evolutiva e terapeutica.
Il cambiamento ed il valore del mio lavoro non è legato a quanto io riesca a soddisfare il bisogno esplicitato nella domanda iniziale, a colmare quel vuoto che la persona che incontro porta con sé. Si tratta di guardare a quel vuoto insieme, senza sprofondare in due.
Così, pur faticando, oggi riesco ad ascoltare Vincenzo che mi parla incessantemente di come intende togliersi la vita, accettando che possa succedere, accogliendo l’idea che non ci sia nulla che io possa fare davvero se questa è la sua decisione.
Cerco di accogliere questa sua condizione, questo dolore che erode senso alla vita, sforzandomi di contenere la mia angoscia che spinge per convincerlo che un’esistenza felice è possibile. Sto con lui, osservo il baratro al suo fianco, e insieme lo conosciamo. Ed è nell’osservare e nell’accettare questo abisso che stiamo riconoscendone la forma e la profondità, riscoprendo insieme un barlume di speranza e di possibilità di determinare un cambiamento.
Ringrazio di cuore il dottor Erba per i suoi insegnamenti e per la sua immensa eredità distribuita con commovente generosità. Lo ringrazio in modo particolare per aver avviato l’équipe di terapia domiciliare del Ruolo Terapeutico con la quale proseguono il mio lavoro, la mia formazione e la mia ricerca.
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