BISOGNO, DESIDERIO, DOMANDA
Luciano Cofano
Vorrei fare una breve premessa: nella relazione svolta al seminario di Ruolo Terapeutico, nel 1983 a Rimini, Sergio Erba aveva affrontato lo spinoso problema dell’operatore che si trova nella necessità di dare risposta alla molteplicità delle domande cui si trova di fronte nello svolgimento del suo lavoro: domande dei pazienti, dei parenti dei pazienti, ma anche dei colleghi, dei superiori, degli amministratori, ecc. Parlando delle “risposte istituzionali” a queste domande, definiva come risposta terapeutica: quella risposta che, lungi dal rispondere, si preoccupa di prendere in considerazione la domanda, e di capirla.
Penso che, con questo, Erba volesse intendere che la vera risposta terapeutica è quella che interpreta le istanze che sottendono una data domanda, correlandole con il contesto complessivo in cui tali istanze si attivano. In altri termini: la capacità di accogliere non il contenuto manifesto, esplicito, letterale della domanda, ma piuttosto la situazione esistenziale “anomala” che ne è il fondamento, il presupposto.
Inoltre Erba proponeva una significativa distinzione fra “domande possibili” e “domande impossibili”, osservando che la maggior parte delle domande istituzionali appartengono a questa seconda categoria.
Ricordo che, nel definire le caratteristiche che connotano le domande impossibili, metteva in evidenza due situazioni tipiche: la prima rappresentata dal fatto che, nel momento stesso in cui propone la domanda, l’altro scompare come interlocutore, come “soggetto” attivo, e si pone nella relazione come “oggetto” dipendente e impotente; la seconda, quella in cui l’operatore si sente letteralmente incastrato da chi gli pone la domanda, in una posizione che sembra senza alternativa.
Parlandone con Erba, in quella occasione, gli dissi che il suo discorso mi interessava particolarmente, perché era coincidente con un mio riflettere proprio sul significato che, in qualsiasi relazione, hanno le “domande”, le “richieste”, e gli accennai che a orientarmi in questo problema mi aiutava il riferirmi a significati differenti che si possono dare alle parole “domanda”, “desiderio”, “bisogno”, ma non ebbi allora modo di chiarire questa differenza.
Credo che, nel linguaggio corrente, non si faccia molta distinzione fra questi tre termini, spesso adoperati come sinonimi. Quando, per esempio, ci si riferisce al fatto che un paziente “viene e chiederci” qualcosa, si dice indifferentemente che egli ci fa una qualche domanda o ci porta un suo qualche bisogno, o che desidera qualcosa da noi.
Cercherò allora di chiarire perché, secondo me, è utile fare riferimento a concettualizzazioni differenti, e comincerò col prendere in considerazione il concetto di “bisogno”.
Mi rendo conto che dovrò dirvi cose in gran parte non nuove, cose già dette e ridette da quanti si sono occupati di questi problemi, ma ciò è anche perché, nel trattare questo tema, ci si muove di fatto nell’ambito della più banale e universale quotidianità.
Anche nel linguaggio corrente il termine “bisogno” può essere inteso nel significato di “fabbisogno”, parola che, a sua volta, rimanda intuitivamente a un concetto di “quantità necessaria” al mantenimento o al ripristino di un certo qual equilibrio dinamico: si parla infatti non solo di un fabbisogno alimentare ma anche di un fabbisogno personale, familiare, nazionale, energetico, economico, eccetera.
Si può così notare che il concetto di bisogno non è pertinente solo a un linguaggio psicologico o filosofico, ma è trattato anche in termini biologici, sociologici o politici, economici, eccetera.
È interessante rilevare il fatto che, fin dai suoi primi inizî, l’economia politica tratta la nozione di bisogno nella sua ambiguità: già gli autori del ‘700, infatti, facevano distinzione fra bisogni “naturali” e bisogni “artificiali”; un certo Bonnot de Condillac, nel 1776, spiegava la differenza più o meno in questi termini:
I bisogni naturali sono una conseguenza della nostra conformazione, in quanto siamo conformati per avere bisogno di nutrimento, cioè per non poter vivere senza alimenti; i bisogni artificiali sono invece una conseguenza delle nostre abitudini, in quanto una tal cosa, di cui potevamo fare a meno perché la nostra conformazione non predispone questo bisogno, ci diventa necessaria per l’uso, talvolta tanto necessaria come se fossimo conformati per averne bisogno.
Questa distinzione, che con leggere variazioni (bisogni necessari e superflui, bisogni biologici e culturali, ecc.) troviamo riproposta fino ai nostri giorni, fa riferimento alla esistenza di bisogni che traggono le loro origini non da un fondamento ontologico, “genetico”, ma dalla acquisizione di una esperienza di rapporto col mondo.
Ma cosa comporta l’esigenza di soddisfare un bisogno?
Jean Piaget, a proposito dello sviluppo mentale del bambino, sostiene che il bambino (come del resto l’adulto) non compie alcuna azione (esterna o interna che sia) che non sia spinta e motivata da un bisogno. Per cui, inversamente, “l’azione si concluderebbe quando l’appagamento del bisogno ristabilisce l’equilibrio alterato dalla insorgenza di una mancanza”.
In questa prospettiva (che, a mio parere, rischia di essere troppo meccanicistica) l’uomo appare quale una creazione totale del bisogno che spiegherebbe, in definitiva, tutte le azioni, le scelte, i rifiuti di ogni individuo e quindi, estensivamente, di ogni formazione sociale.
Una prospettiva più aperta mi sembra essere quella di Febvre che, intorno al 1920, centrava il problema con questo interrogativo sull’uomo: “I bisogni sono naturali, ma il modo di soddisfarli?”
Questo interrogativo richiama l’attenzione anche sul fatto che, a differenza delle altre specie animali, nell’uomo l’estrinsecazione dei bisogni e, quindi, la risposta che a essi viene data, passa attraverso una dimensione simbolica. Ma ritorneremo fra breve su questo punto.
Come tutti coloro che, prima e dopo di lui, si sono occupati dei problemi concernenti l’uomo e i suoi rapporti col mondo, anche Freud si è presto trovato a dover fare i conti con il concetto di bisogno, e lo ha fatto da par suo, cioè addentrandosi a esplorarne i più profondi recessi. Se Freud aveva dei difetti, certo non aveva quello di accontentarsi di una qualsiasi risposta superficiale a un quesito che si poneva!
Lungo tutto lo sviluppo della sua opera, infatti, riprenderà varie volte in considerazione questo specifico problema, secondo prospettive differenti e in contesti diversi. Ed è proprio nell’ambito di questo problema che egli svilupperà le sue elaborazioni teoriche sul processo primario e processo secondario, sul principio del piacere e sul principio di realtà, sulla teoria delle pulsioni e sulla formazione del sogno, sulla formazione del sintomo, ecc.
Cercherò di riferirmi brevemente solo ad alcuni dei punti che mi sembrano essenziali al nostro tema.
Una delle formulazioni più complete sul meccanismo dell’appagamento del bisogno è quella contenuta nella sua opera “Interpretazione dei sogni”. [1]
Vi sono due presupposti fondamentali nella sua concettualizzazione: il cosiddetto “principio di costanza” e lo “stato di impotenza originaria”. Il primo, già menzionato in precedenti scritti e discusso in “Al di là del principio del piacere”, [2] riguarda il fatto che, secondo Freud, l’apparato psichico tenderebbe a mantenere la quantità di eccitazione al livello più basso e costante possibile, sia attraverso la scarica di una eccitazione eccedente (abreazione), sia attraverso l’evitamento o la difesa da tale aumento. Teoria che contribuirà quindi alla colossale concettualizzazione dei meccanismi di difesa.
Il secondo presupposto riguarda lo stato di totale e protratta dipendenza del neonato nei confronti del mondo esterno, cioè quella che Freud definisce come condizione di “prematurazione” dell’essere umano, quando dice che: [3]
… la sua esistenza intrauterina pare relativamente abbreviata rispetto a quella della maggior parte degli animali: egli viene mandato nel mondo più incompleto di loro (per una sopravvivenza autonoma).
Oltre a determinare le prime situazioni di pericolo, questo fattore biologico, accrescendo enormemente l’importanza di ciò che appartenendo al mondo esterno è capace di proteggerlo, crea il bisogno di essere amati: bisogno che non abbandonerà l’uomo mai più.
Volendo indicare questa condizione di impotenza originaria, Freud usa il termine “Hilflosigkeit”, che vuol dire pressappoco “stato di estremo bisogno di aiuto”, per mettere in evidenza l’aspetto di oggettiva incapacità del neonato umano a intraprendere una azione coordinata ed efficace all’appagamento del suo bisogno, pur essendo peraltro dotato di un proprio complesso di funzioni specifiche perfettamente specializzate e sviluppate, quali per esempio: suzione, deglutizione e digestione, assimilazione, ecc.
Freud designa, inoltre, come “azione specifica” l’insieme del processo necessario alla risoluzione della tensione interna creata dal bisogno: per questo è necessaria la presenza di un oggetto specifico e di una serie di condizioni adeguate (interne ed esterne).
L’eccitamento interno causato dal bisogno cercherà uno sfogo nella motilità: il bambino affamato (senza aiuto) griderà o si agiterà ma la situazione di “mal-essere” rimarrà invariata fin tanto che lo stimolo interno non sarà sospeso dalla “esperienza di soddisfacimento”. E, come è noto, questa esperienza di soddisfacimento, già trattata nel “Progetto di una psicologia” [4] costituisce, per Freud, uno dei fattori fondamentali dello sviluppo dall’apparato psichico. Vediamo brevemente perché: componente essenziale di questa esperienza di soddisfacimento è la comparsa di una determinata percezione, la cui “immagine mnestica” rimarrà d’ora in poi associata alla traccia mnestica dell’eccitamento suscitato da quel dato bisogno. Allora, cosa succede alla ricomparsa del bisogno e del relativo eccitamento? Per la connessione stabilitasi con l’esperienza di soddisfacimento, l’apparato psichico tenderà a reinvestire l’immagine mnestica corrispondente e a riattivarne la percezione. A riprodurre cioè una “identità di percezione”. Ma anche ammettendo che il bambino possa produrre per via allucinatoria una identità di percezione, questa si risolverà comunque in una frustrazione e una amara esperienza vitale (come la definisce Freud) gli imporrà la persistenza dello stato di bisogno fino al compimento della corrispondente azione specifica, legata imprescindibilmente a un intervento esterno adeguato.
Questo è, secondo me, un buon motivo per ritenere che la strutturazione dello psichismo si fonda essenzialmente sulla relazione con “l’Altro”.
E possiamo subito renderci conto del fatto che l’esperienza di soddisfacimento, nella misura in cui si realizza in base a un apporto esterno, fissa nella traccia mnestica corrispondente non soltanto un qualche elemento specifico necessario all’appagamento del bisogno (e quindi della cessazione del malessere relativo), ma anche tutto quanto è attinente alla percezione del mondo sensibile (cioè l’Altro) implicato in quella sua esperienza relazionale.
Per chiarire la portata di questa esperienza, prendiamo in considerazione un esempio che si riferisce a uno dei più classici ed elementari bisogni fondamentali: il nutrimento. Pensiamo allora a un neonato che, nel giro di poche ore dopo il taglio del cordone ombelicale, ha consumato la sua riserva energetica, avviandosi in modo continuo e progressivo verso uno squilibrio metabolico: il consumo delle riserve di glicidi, lipidi, proteine, liquidi, ecc. , produce infatti inevitabilmente una carenza energetica che altera gli equilibri biologici essenziali alla sopravvivenza. Possiamo agevolmente immaginare che questa condizione di carenza produca una profonda modificazione in un preesistente stato di equilibrato scambio metabolico intrauterino. In quella confortevole situazione, infatti, un adeguato funzionamento dell’apparato placentare era in grado di garantire in modo continuativo l’apporto dei fattori nutritivi necessari, condizione questa che, senza l’emergenza critica di alcun bisogno, potremmo rappresentarci come corrispondente a uno stato inavvertibile di “ben-essere”.
Possiamo, allora, rappresentarci la tensione interna creata dalla sopravvenuta situazione di carenza, cioè lo stato di bisogno, come esperienza avvertibile di “mal-essere”, quella esperienza sensoriale che, nel caso specifico, saremo poi in grado di riconoscere e denominare come “fame”. Sia pure in modo molto semplificato, possiamo dire che una buona poppata al seno sarà in grado di ripristinare in breve l’equilibrio nutritivo e, conseguentemente, lo stato di benessere derivante dalla cessazione stessa del malessere, cioè dall’appagamento del bisogno.
Se ci soffermiamo un momento a riflettere su alcuni aspetti di questa elementare esperienza, ci accorgiamo subito che essa è tutt’altro che “semplice”, in quanto mette in moto processi di una complessità non facilmente delimitabile.
Gli sviluppi della scienza nel campo della fisiologia umana ci hanno fatto conoscere quali sono gli elementi specifici, organici e inorganici, che costituiscono il fondamento del processo di nutrizione, prima attraverso il cordone ombelicale per il feto e poi attraverso il seno per il neonato. Ma come il feto non sa cosa sia il sangue che passa attraverso il cordone ombelicale, così il neonato non sa cosa sia il latte che succhia al seno materno.
L’esperienza di “soddisfacimento-benessere”, legata alla scomparsa della “fame-malessere”, non si lega come immagine mnestica ai lipidi, alle proteine al lattosio o ai liquidi che pure sono proprio tutti “fattori specifici e indispensabili” al ripristino del fabbisogno energetico, nè al latte come veicolo specializzato e neanche a un seno erogatore, ma a tutto il complesso percettivo delle esperienze sensoriali inscindibilmente connesse alla funzione nutritiva dell’allattamento: sensazioni tattili attive e passive (essere toccato, manipolato e, nello stesso tempo toccare, manipolare questo mondo-madre), percezioni di calore, di odori, di sapori, suoni e poi ancora immagini visive (dapprima solo buio-luce, poi sempre più distinte, differenziate, riconoscibili).
In altre parole, ciò che viene appreso di quella esperienza, ciò che andrà a costituirsi nel repertorio del mondo psichico come identità percettiva equivalente del soddisfacimento non è un “oggetto”, nè semplice nè complesso, vorrei dire nè parziale nè totale, ma una “situazione relazionale globale”, attivamente esperita dal bambino nel suo “concepire” il mondo, in una prospettiva che è del tutto coincidente con il modo del suo essere al mondo, del suo essere concepito dal mondo. Se, in questa prospettiva, pensiamo al rapporto madre-neonato, ci accorgiamo subito che il fabbisogno sopravvivenziale va ben oltre una fornitura di sostanze nutritive: il neonato ha bisogno di un accudimento complesso, articolato sulla base delle sue esigenze naturali, dall’essere tenuto caldo alla giusta temperatura e nella giusta posizione, dal muoverlo e manipolarlo nel modo appropriato al provvedergli un giaciglio adatto, eccetera.
Credo che tutti voi siate convinti che il “come” il bambino viene accudito non è certo meno importante del “cosa e quanto” gli viene somministrato. Purtroppo questa convinzione è meno ubiquitaria di quanto dovrebbe essere: non mi riferisco soltanto a quei genitori che credono di avere assolto il loro compito rimpinzando i figli e “non facendo loro mancare nulla”, ma anche a certe istituzioni per l’infanzia che sembrano ignorare la differenza fra un “nido” e un “parcheggio” o, peggio, un “lager”.
Una conferma potrebbe essere ricavata da alcune semplici considerazioni: se al fabbisogno di cibo corrisponde un carente apporto nutritivo si va incontro a una condizione di malnutrizione o di denutrizione, con segni evidenti, riconoscibili e codificabili, di un deficit dello sviluppo somatico, talvolta irreversibile. E così, analogamente, se al “bisogno di accudimento” corrisponde un carente apporto di “amore” si va incontro a una condizione di alterato sviluppo psico-affettivo, con segni evidenti, riconoscibili e codificabili, spesso irreversibili, di tale deficit nel rapporto con sé stessi e col mondo.
Quante volte le più dolorose esperienze che affliggono i rapporti umani, e poi ancora la delusione e l’aggressività, l’attacco distruttivo che porta alla rottura, il malinteso e il fraintendimento che avvelenano spesso irrimediabilmente la comunicazione, non sono altro che l’espressione di un soggiacente inesprimibile o inascoltato bisogno di amore?
D’altra parte, il far coincidere il concetto di bisogno esattamente ed esclusivamente con una carenza, una mancanza di qualcosa, mi sembra corrispondere ancora a una concezione troppo riduttiva, meccanicistica del problema. Il “principio di costanza” invocato da Freud (forse un tributo che lo stesso Freud paga alle sue matrici culturali e alla sua formazione biologistica), è un principio che rimanda infatti a una concezione di equilibri energetici, regolati da leggi fisiche, quantitative, quali l’omeostasi o l’entropia del famigerato secondo principio della termodinamica. A me sembra, invece, che alcuni bisogni dell’uomo non siano spiegabili come ricerca di equilibrio o come attenuazione di tensioni ma, al contrario, sottendano un incremento di eccitazione: penso al bisogno di conoscere, esplorare, ampliare il proprio orizzonte, penso alla creatività artistica, eccetera.
Avrei da aggiungere ancora qualcosa a proposito del nostro rapporto, nella pratica clinica, con il problema del bisogno, ma prima vorrei prendere in considerazione il concetto di “desiderio”.
Fra tutte le possibili vie per tentarne una definizione, preferisco percorrere quella che parte proprio dalle premesse create da quanto detto a proposito del bisogno.
Quando abbiamo parlato dell’esperienza di soddisfacimento, abbiamo messo in relazione la percezione del soddisfacimento con il costituirsi di una immagine mnestica che, da quel momento in poi, rimarrà legata a quel determinato stato di bisogno. Quando si ripresenterà quel bisogno-malessere si riattiverà un processo che tenderà a ri-evocare la percezione del primo soddisfacimento, attraverso un investimento della “immagine dell’oggetto-benessere” appartenente ormai alla “realtà psichica” del soggetto. A proposito di questo investimento della immagine, dice testualmente Freud [5]:
È un moto di questo tipo che chiamiamo desiderio, e la ricomparsa della percezione è l’appagamento del desiderio e l’investimento pieno della percezione, a partire dall’eccitamento del bisogno, è la via più breve verso l’appagamento del desiderio. Nulla ci impedisce di ammettere uno stato primitivo dell’apparato psichico, nel quale questa via viene realmente percorsa in questo modo e l’atto del desiderio sfocia quindi in una allucinazione.
Ho voluto citare questo passo per ricordare come l’attività allucinatoria prenda origine, secondo Freud, esattamente da quel particolare processo psichico che chiamiamo desiderio.
Ma è proprio l’impossibilità di soddisfare allucinatoriamente le esigenze che sono alla base del bisogno emergente che costringe il bambino a cercare un contatto con il suo mondo, a sviluppare cioè un processo capace di stabilire una connessione fra la sua “realtà psichica” e la “realtà esterna” da cui in pratica dipende. È rilevante il fatto che proprio all’interno di questo processo si attiveranno tutte le più importanti funzioni inerenti alla vita relazionale: con lo sviluppo degli organi sensori, atti a esplorare la realtà esterna, e la conseguente coscienza delle relative percezioni si attiverà la funzione della “attenzione”, l’accumulazione della “memoria”, con una conseguente “funzione discriminante”, la progressiva trasformazione della scarica motoria in una “azione” coordinata, fino al formarsi di un processo di “pensiero” a partire dalla attività rappresentativa. Ed è immediatamente evidente che lo sviluppo di queste funzioni psichiche rappresenta quello che Freud chiama “processo secondario”, cioè la via indiretta, perfezionata dall’esperienza, per giungere alla realizzazione del desiderio, cioè alla soddisfazione del bisogno soggiacente.
Il pensiero, secondo Freud, [6]
… non è altro che il surrogato del desiderio allucinatorio, (…) dato che nulla, all’infuori di un desiderio, è in grado di mettere in moto il nostro apparato psichico.
Ma cosa succede se qualcosa interferisce o interrompe questa intima connessione fra l’insorgere di uno stato di bisogno e l’attivazione del corrispondente desiderio? Credo di poter supporre una tale situazione, se mi trovo di fronte a un “malessere” apparentemente immotivato, dal semplice stato di disagio o irrequietezza fino a una pena angosciosa, senza potervi attribuire una qualsiasi origine o spiegazione: come quando “sto male senza sapere perché”, sento che “ho bisogno” ma non posso dire che “ho bisogno della tal cosa”, chiedo aiuto ma non so dire “come” aiutarmi, rivolgendo così all’altro una domanda impossibile, in quanto è chiaro che soltanto riuscendo a interpretare e ri-conoscere la natura del mio bisogno potrei rivolgere al mondo la domanda adeguata.
Io credo che questo discorso acquisti un senso più preciso se ci poniamo una domanda: è pensabile un appagamento del bisogno che non passi necessariamente attraverso l’attivazione del desiderio, la evocazione di una immagine, l’elaborazione di un pensiero che guidi l’attività motorio-relazionale al compimento della cosiddetta “azione specifica”? (Ricorderete che avevamo chiamato azione specifica l’insieme del processo necessario alla fruizione dell’oggetto specifico di quel dato bisogno.) Ebbene, la risposta è sì, è possibile!
E vediamo come e perché. Con l’analisi del processo istintuale negli animali, la moderna etologia ha dimostrato la possibilità di una trasmissione genetica di risposte comportamentali codificate, che vanno da semplici riflessi motori ai cosiddetti “moduli motori”, fino alle più complesse coordinazioni motorie e ai “movimenti istintivi ritualizzati” che regolano le relazioni e i comportamenti intra- e interspecifici. È la dimostrazione della possibilità che i bisogni naturali trovino il loro appagamento mediante la semplice esecuzione di azioni specifiche già predisposte filogeneticamente. È come se ogni domanda contenesse già in sé stessa anche una univoca risposta.
Potremmo dire che, in tal senso, l’animale non ha nulla da scoprire, da apprendere, perché “sa già tutto”, e poiché sa già tutto non ha bisogno di immaginare o desiderare alcunché. Devo confessare che è stato piuttosto sconcertante, per me che amo gli animali, il dover considerare come rigidi meccanismi automatici (anche se mirabilmente programmati) molti di quelli che mi apparivano come comportamenti “intelligenti”. Ma sareste mai capaci di insegnare a un ragno a tessere la sua tela, o a un uccello a costruire il nido e covarvi le uova, o a un feroce mammifero ad allevare i suoi cuccioli nel modo dovuto, sareste capaci di fare apprendere a un’ape il linguaggio della sua “danza”, se non lo possedessero già come un “sapere innato”?
Possiamo peraltro riconoscere che anche una parte rilevantissima della nostra sopravvivenza è assicurata da processi totalmente automatici, geneticamente codificati e che non implicano alcuna partecipazione delle nostre funzioni psichiche: gli equilibri biologici del nostro organismo ne sono una chiarissima dimostrazione. Tutto il nostro complessissimo sistema vegetativo è la testimonianza di come un numero sconfinato di variabili possano essere codificate e univocamente correlate secondo parametri fisiologici prestabiliti. Molti dei nostri bisogni fondamentali, infatti, possono essere soddisfatti “in via breve”, senza dovere cioè seguire il percorso della via indiretta indicata da Freud, perché la risposta è ottenibile direttamente, “senza doverne cercare la soluzione”, senza dover inventare, scoprire la strategia e i mezzi idonei, perché tutto il percorso è già lì, è già dato. L’azione specifica può essere compiuta con le sole risorse di cui la natura ci ha fornito: se in seguito a un certo sforzo fisico si crea in me un maggior fabbisogno di ossigeno, l’aumento delle mie pulsazioni cardiache e dei miei atti respiratori potranno provvedervi direttamente, senza passare attraverso l’elaborazione psichica di un desiderio; un aumento o una diminuzione della temperatura ottimale si costituiranno di per sé stessi come informazione sufficiente per gli appositi recettori, che attiveranno automaticamente il meccanismo della vasodilatazione o vasocostrizione, della sudorazione o del brivido, eccetera; d’altra parte, non saprei assolutamente quali procedure seguire per realizzare la trasformazione degli alimenti ingeriti in quelle complicatissime sostanze chimiche che, uniche, sono indispensabili alla sopravvivenza del mio organismo.
E così, per tutte quelle funzioni essenziali, che la neurofisiologia studia come sistemi preposti al mantenimento del nostro equilibrio metastabile, non è richiesto alcun intervento dell’apparato psichico, semplicemente perché non occorre alcuna “mediazione relazionale” per far fronte ai relativi bisogni specifici. La nostra “attenzione” sarà infatti richiamata solo allorquando un bisogno sarà reso attuale, come malessere o malattia, per una inadeguata o insufficiente risposta dovuta a una dis-funzione emergente.
È per questo che il campo della psicologia inizia dove termina quello della biologia, distinguendo così la nostra “vita di relazione” dalla nostra “vita vegetativa”.
Ma se la psicologia è la scienza che studia il modo di comportarsi dell’uomo nella sua relazione col mondo, in che cosa differisce dalla etologia o dallo studio della psicologia animale? Già, perché è ormai acquisita, al di là di ogni ragionevole dubbio, la cognizione di un comportamento animale non rigidamente predeterminato da codificazioni genetiche ma fondato su processi di apprendimento, accumulazione della memoria, funzione discriminante, discrezionalità decisionale. È stato dimostrato che gli animali presentano, oltre a veri e propri fenomeni di tipo allucinatorio, l’attivazione di un processo che può essere interpretato come formazione di un pensiero, anche se relativamente elementare e contingente.
Voglio portarvene un esempio divertente. Un filmato ormai famoso mostra un giovane scimpanzé impegnato nella soluzione di un problema: in una stanza c’è una banana appesa al soffitto a una altezza tale che la scimmia può raggiungerla solo se sale su una cassetta di legno posta in un angolo. L’animale entra, vede la banana, cerca di prenderla ma si rende conto che non riesce a raggiungerla; si guarda in giro esplorando attentamente la stanza, anche perché in precedenti esperienze aveva imparato a servirsi di volta in volta di arnesi differenti, messi lì a sua disposizione. Vede la cassetta, la guarda attentamente, guarda la banana, poi la cassetta, poi ancora la banana: è chiaramente deluso, contrariato, si agita e si gratta rabbiosamente, poi, improvvisamente, si immobilizza, guarda la banana, poi la cassetta, poi di nuovo la banana e da questa abbassa lo sguardo fino al pavimento esattamente sotto la banana, poi ancora la cassetta e, a questo punto, con un balzo e una capriola raggiunge la cassetta, la spinge senza la minima esitazione sotto la banana, vi monta su e si prende il frutto.
Vi ho descritto questo esperimento perché in esso vi appare con chiarezza il fatto che, spinta dal suo desiderio, la scimmia deve “pensare” una soluzione e, servendosi delle sue capacità di apprendimento e di memorizzazione, delle sue reazioni di orientamento spaziale, essa costruisce mentalmente una rappresentazione dello spazio, un “modello” dei dati spaziali da dominare e agisce con il pensiero in questo spazio “immaginario”.
A questo punto credo possiamo fare una considerazione: mentre il bisogno appartiene alla natura, cioè alla dimensione del reale, il desiderio appartiene alla “realtà psichica” del soggetto, cioè alla dimensione dell’immaginario. Ma è poi così importante specificare una sostanziale differenza fra bisogno e desiderio, fra realtà oggettiva e realtà psichica? Non è forse un cavillo filosofico o un prurito antropologico? Io credo di no, soprattutto se ci troviamo nella posizione di dover interpretare le richieste che ci vengono fatte per darvi una risposta adeguata, proprio nel senso richiamato da Erba quando definiva “risposta terapeutica” la capacità di valutare e di comprendere una domanda, specialmente se si tratta di quelle che lui indicava come “domande impossibili”.
E qui ci troviamo a considerare uno dei più fondamentali, affascinanti e dibattuti problemi riguardanti l’evoluzione della specie umana. Non intendo addentrarmici ma, per costruire la mia tesi, occorre che mi soffermi su un punto cruciale, fondamento di un vero e proprio salto evolutivo: intendo riferirmi alla rottura di quella continuità esistente fra ogni animale e il suo mondo naturale, di quella connessione garantita filogeneticamente dalla rigida determinatezza che lega ogni stimolo a una risposta adeguata, nella corrispondenza biunivoca di un repertorio codificato. È una frattura che spalanca il catastrofico baratro dell’indeterminatezza e, introducendo la necessità di compiere delle scelte e imparare dei comportamenti, segna nell’uomo la nascita della “coscienza”: è lo spazio dove l’accumularsi dell’esperienza, attivamente concepita, rappresenta lo strutturarsi di un “codice culturale” atto a colmare, indefinitamente, la distanza creatasi nel progressivo allontanamento dell’uomo dall’ordine naturale di un codice genetico.
Per molto tempo il concetto di “cultura” ha rappresentato una discriminante decisiva per distinguere l’uomo dagli altri animali; oggi si sa che questo temine non discrimina più: la scoperta della possibilità, per alcuni animali, di accumulare e tramandare (non geneticamente) nuove abitudini e norme di comportamento, cioè l’esistenza di veri e propri “animali culturali”, rende necessario specificare, per l’uomo, delle differenze all’interno del concetto stesso di cultura. Ma questo, per fortuna, esula dal mio compito di oggi.
Intanto, se partiamo dal presupposto che la possibilità di sopravvivenza di ogni organismo vivente è innegabilmente legata al livello di adeguatezza della sua connessione con il suo ambiente vitale, dobbiamo prendere atto del fatto che il neonato dell’uomo di oggi è paradossalmente molto più “ignorante” del figlio dell’Uomo di Neandertal, e incommensurabilmente più sprovveduto e meno atto a una autonoma sopravvivenza di un qualsiasi insetto che, al momento stesso della nascita, possiede già una completa “istruzione” sui significanti e significati del suo mondo.
Arnold Gehlen, che considera l’uomo un animale tanto imperfetto, al confronto con gli altri, da apparire addirittura improbabile, descrive un processo di “esonero” mediante il quale l’uomo riuscirebbe a ridurre l’onere di questa sua inadeguatezza originaria: esposto dalla nascita a una profusione di stimoli interni ed esterni a lui sconosciuti, il bambino: [7]
… è soggetto alla piena “senza scopo” di impressioni che lo raggiungono e che egli deve in qualche modo padroneggiare. Non gli sta di fronte un ambiente in cui i significati sono articolati e istintivamente ovvi, ma un mondo dalla struttura imprevedibile, come “campo di sorprese” che va elaborato, esperito con circospezione, prendendo ogni volta misure e provvedimenti: l’uomo deve con strumenti e atti suoi propri trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi la vita.
Gehlen pone il fondamento della cultura umana proprio in questo processo di padroneggiamento e utilizzazione del mondo della natura. Ma alla fine di tale processo, lì dove per l’animale c’è un ambiente naturale controllabile grazie ai suoi codici genetici, per l’uomo c’è un mondo relazionale istituito dai suoi codici culturali. E per il singolo individuo l’acquisizione delle necessarie “variazioni motorie controllate” assieme all’alto grado di sensibilità obbiettiva e autoriferita, secondo Gehlen: [8]
… creano il presupposto del formarsi di un mondo interiore, vale a dire di fantasmi di maneggi e di movimenti, di rappresentazioni di successi, di attese di impressioni, i quali tutti possono essere sviluppati e strutturati indipendentemente dal dato di fatto della situazione reale.
Come risposta cioè all’aperto e indeterminato effetto di stimolo rappresentato da tutto l’ambiente circostante.
Ed eccoci ritornati, per altra via, a quel mondo interiore, a quella realtà psichica totalmente strutturatasi nella dimensione dell’”immaginario”, cioè la dimensione nella quale si attiva e prende forma il desiderio. Parlo qui anche e soprattutto del desiderio “cosciente”, che interpreta soggettivamente il bisogno attraverso il convincimento che ciò che immaginiamo come oggetto del nostro desiderio rappresenti esattamente ciò di cui abbiamo bisogno e che, conseguentemente, guiderà la nostra azione verso quella data meta. Quanta parte del nostro comportamento, quindi, sarà direttamente determinata dalle “conoscenze” impresse nel nostro mondo immaginario?
E fino a che punto, allora, sarà legittimo o utile parlare di “pulsioni istintuali”? Dice Allport: [9]
La teoria degli istinti, che afferma l’esistenza di inclinazioni operanti precedentemente all’esperienza e indipendentemente dall’apprendimento, appare come una concezione biologica abbastanza rozza (se applicata all’uomo), che può tutt’al più offrire un quadro attendibile delle motivazioni del bambino e, pertanto, potrebbe solo servire come punto di partenza per una “teoria generale della motivazione”. Una psicologia della personalità umana deve essere una psicologia del comportamento post-istintuale.
Ma da dove, allora, il nostro comportamento trarrà i suoi orientamenti se non proprio dai valori e dagli orientamenti del mondo che noi stessi abbiamo concepito, ossia dai valori e dagli orientamenti del mondo che ci ha concepito? E così, come l’animale vivrà strutturato e connaturato con le sue matrici genetiche, l’uomo vivrà strutturato e connaturato con le sue matrici “familiari”, cioè con le sue matrici “culturali”, comprendendo estensivamente in questo termine tutto quanto egli assume e assimila del mondo che lo circonda.
Come ricorderete, all’inizio avevamo sottolineato il fatto che nelle sue esperienze di soddisfacimento il bambino assume, come costituente della traccia mnestica e della relativa “immagine”, non un “oggetto” più o meno inanimato ma una “situazione relazionale globale”, comprendente cioè sé stesso e l’Altro in una inscindibile contestualità. Una contestualità che può essere posta alla base di quei processi di “identificazione introiettiva e proiettiva” che fanno assumere come indistinguibilmente proprie intere parti che originariamente appartenevano al “mondo esterno”. Non mi riferisco, ovviamente, a dei semplici comportamenti imitativi che mantengono distinguibile la propria identità da quella dell’Altro, ma un vero e proprio strutturarsi come identico all’Altro in certe sue parti relazionali. Il riconoscimento di queste identità identificatorie è ciò che si costituisce come scopo e come travaglio del lavoro analitico.
Nel corso dello sviluppo, infatti, mentre cambieranno via via i bisogni contingenti del bambino, non cambierà per un lungo periodo di tempo la sua dipendenza dal mondo familiare per il loro soddisfacimento; pertanto, se all’inizio le sue percezioni erano limitate essenzialmente a esperienze sensoriali elementari (sapore, calore, tatto, ecc.), in seguito diverranno legate a esperienze sempre più complesse perché comprendenti parti sempre più ampie del proprio orizzonte relazionale, che entreranno quindi a far parte integrante del “contenuto” dei desideri nel mondo della sua realtà psichica.
Ma il bambino, che dovendo alla nascita affrontare soltanto dei bisogni elementari potrà “intenzionare” il mondo circostante solo con i suoi semplici desideri sopravvivenziali, si trova immerso in un mondo che è invece colmo, nei suoi confronti, di aspettative e di intenzioni, molte delle quali preesistenti alla sua nascita o addirittura anteriori al suo stesso concepimento. E come se egli cominciasse, subito, ad assimilare con il latte anche l’esperienza di “modi di relazione” comprendenti desideri, valori, prescrizioni e divieti, che si costituiscono come le matrici della sua personalità. E questa si costituisce anche come una delle principali modalità di trasmissione del codice culturale del suo gruppo di appartenenza. Una peculiarità dell’esperienza analitica, infatti, è la possibilità di riconoscere che i valori impliciti nel cosiddetto “esame di realtà”, quello che presiede alle nostre scelte e decisioni, sono in massima parte l’espressione di un patrimonio “ereditato” e fatto proprio.
Mi sono dilungato in queste considerazioni perché volevo porre le basi di un enunciato: “un individuo perfettamente integrato (“normale”) è quello che ha adottato le soluzioni comportamentali prescritte dal codice culturale del suo ambiente vitale”. Un comportamento siffatto, reso cioè prevedibile dall’adeguamento a un dato codice culturale, ha suggerito ad alcuni autori una analogia con i comportamenti animali, resi prevedibili dalla prescrittività di un codice naturale.
E così, quella cultura che sembrava segnare l’affrancamento dell’uomo dalla sua condizione di animale vincolato dalle leggi della natura tende, almeno da un certo punto di vista, a costituirsi come vincolo altrettanto potente per il singolo individuo, sia in un senso rigidamente determinante, come nella “coazione a ripetere” o nella ripetitività delle relazioni cosiddette transferali, sia, in un senso più ampio, come pre-disposizione che tenderà a orientare significativamente le sue condotte relazionali.
Ma cosa c’è oltre l’orizzonte della cultura? Esiste per l’uomo una dimensione relazionale che non sia circoscritta all’interno di una qualsiasi determinatezza già istituita? In altri termini, può l’uomo prescindere dai vincoli della dipendenza-appartenenza?
Il tentativo di dare una risposta a questi interrogativi, mi porta alla terza parte del mio compito, certo la più ardua: affrontare il concetto di “domanda” e specificarne le differenze e le connessioni con gli altri due termini considerati, bisogno e desiderio.
Quella attitudine esplorativa che, all’inizio, consente al bambino di scoprire il senso delle sue connessioni nel mondo della dipendenza, se da un lato trae origine proprio dalla sua condizione “manchevole”, di “ignorante” esposizione al bisogno, dall’altro è il fondamento del più straordinario attributo dell’uomo: la creatività. Senza l’indelimitabile potere di questa capacità dell’uomo, probabilmente l’umanità vivrebbe oggi a un livello evolutivo ancora prossimo a quello dei primati superiori, o di altri animali culturali. Le norme culturali assolverebbero in pieno la loro funzione conservativa e sopravvivenziale, le cui variazioni evolutive, prevalentemente legate a esigenze naturali, sarebbero rilevabili solo nei tempi lunghi di ere geologiche.
Nel suo libro sulla metamorfosi della scienza [10], Ilya Prigogine dice che noi viviamo ancora, o abbiamo vissuto fino a poco tempo fa, usando le tecniche che sono il frutto della rivoluzione neolitica: creazione o selezione di specie animali e vegetali, tessitura, ceramica, metallurgia. E sottolinea il fatto che lo sviluppo di queste tecniche presuppone nell’età neolitica una attività di esplorazione delle risorse naturali e di ricerca empirica dei metodi per attivizzare le risorse; il che testimonia non solo l’esistenza di individui il cui spirito di osservazione o di invenzione doveva certo valere quello dei grandi della nostra storia intellettuale, ma testimonia anche l’esistenza di società capaci di suscitare, accogliere, conservare e perfezionare l’opera di questi innovatori.
Forse la creatività dell’uomo consiste nel sapere o sapersi porre delle domande le cui risposte non sono contenute in un repertorio già dato.
Se ripensiamo a quanto già detto a proposito del bisogno e del desiderio, possiamo formularne una prima articolazione con il concetto di domanda: come il mio desiderio interpreta il bisogno nella mia realtà psichica, così la mia domanda si fa interprete del mio desiderio nel mondo delle mie relazioni.
Nella sua forma più concreta, allora, la domanda rappresenta il mio agire nel mondo, per trasformarlo e ottenerne una risposta conforme al mio desiderio. È la logica concatenazione che partendo dal bisogno vi ritorna per realizzarne il soddisfacimento. La condizione ideale possiamo rappresentarcela come il porre la domanda giusta al posto giusto, nel modo e nel momento giusti. Ma quanti sono i fattori capaci di interferire in questo processo, determinando imprevedibili complicazioni? In primo luogo, buona parte dei miei bisogni implicano necessariamente l’Altro; in secondo luogo l’immagine dell’Altro (che è entrata a far parte integrante della mia realtà psichica) si costituisce proprio come mio desiderio. E ciò rende pressoché indistinguibile cosa e quanto del mio desiderio sia, in realtà, frutto di una mia originaria identificazione con un bisogno altrui.
Per inciso, questa è una delle ragioni per cui, nel lavoro analitico, è così importante analizzare a fondo il significato del desiderio. E vorrei ricordare l’intima connessione, indicata da Freud, fra il desiderio, l’insorgenza del conflitto psichico e la sua concretizzazione nel sintomo nevrotico, fino allo sconfinamento nello stato psicotico.
Quante volte, infatti, nell’esperienza clinica ci rendiamo conto che la presunta “domanda” che il paziente ci rivolge non è altro che l’espressione della sua situazione conflittiva, oppure che il “sintomo” non è altro che la profonda distorsione di una sua qualche domanda non esprimibile altrimenti?
Vorrei allora riprendere le osservazioni di Erba a proposito del nostro vissuto, quando siamo interpellati con quelle che lui definisce “domande impossibili”, e ci troviamo cioè di fronte alla scomparsa dell’altro come interlocutore, come soggetto co-operante, oppure ci sentiamo letteralmente forzati dall’altro ad assumere un ben determinato ruolo nella relazione. Mi sembra di poter riconoscere, in questi casi, una situazione in cui siamo indotti dall’altro a identificarci con una sua rappresentazione immaginaria, per interpretarne la parte che ci viene assegnata. E, ovviamente, se quella fosse la nostra risposta non faremmo altro che entrare a far parte del mondo immaginario dell’altro. Per questo Erba definiva acutamente la psicoterapia come la possibilità di “dare una risposta possibile alle domande impossibili”. Credo che questa possibilità si dia, soprattutto, se si riesce a mantenere viva la curiosità e la tensione di ricerca nei confronti di tutta la ricchezza dei fattori che contribuiscono a formare una domanda impossibile (o a deformare una domanda possibile). Sembra che l’altro abbia perso la sua obiettività critica, o meglio abbia eclissato la sua capacità di porsi come “soggetto” in una relazione “inter-soggettiva”. Ma la dimensione relazionale intersoggettiva presuppone proprio il poter assumere compiutamente una propria autenticità come soggetto e, nello stesso tempo, riconoscere l’alterità dell’Altro, appunto come soggetto-altro e non come parte di una propria realtà psichica. Questa distinzione fra la propria soggettività e la soggettività dell’altro rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo maturativo, che inizia con l’esperienza catastrofica della rottura di continuità fra Sé e il mondo, prosegue grazie alla costituzione di nuove connessioni col mondo (il “processo esonerante” di Gehlen, la “mediazione simbolica” di Franco Crespi), e termina con l’assunzione del proprio “limite” come fondamento di una relazione interpersonale. Sono queste le tappe esperienziali che, rappresentando in senso diacronico la storia di ogni individuo, rimarranno presenti, in senso sincronico, come costituenti la struttura stessa della sua personalità, dando luogo, secondo la loro emergenza contingente, a differenti modalità di relazione.
In uno dei suoi lavori più significativi, Diego Napolitani [11] distingue tre modelli relazionali fondamentali: non potendo qui esporne la complessa articolazione nè tentarne una sintesi, ne traggo soltanto uno spunto descrittivo che mi aiuterà a indicare come Napolitani pone nella giusta prospettiva le dimensioni del bisogno, del desiderio e della domanda.
Il primo modello, definito “Sistema Transpersonale Protomentale” (con esplicito riferimento alla accezione bioniana di questo termine), descrive la dimensione del rapporto che si fonda sul “bisogno primario di esserci”, ed è caratterizzato da un legame affettivo totalizzante, all’interno del quale il Sé e il non-Sé sono indistinguibilmente confusi. Pervasa da una tensione di “eccitamento creativo”, questa relazione è sottesa sostanzialmente da una esigenza fusionale. In questa dimensione relazionale, il cui registro esperienziale è legato al mondo del “Reale”, si colloca l’origine del “bisogno”, con la catastrofica angoscia di frammentazione conseguente alla esperienza di perdita o di rottura di una “continuità monadica”. Un tipico esempio ne è la condizione di “innamoramento”.
Il secondo, definito “Sistema Transpersonale dello Assoggettamento”, concerne il rapporto che nasce dall’esperienza di un bisogno sopravvivenziale legato alla condizione di oggettiva dipendenza originaria, e riguarda perciò il mondo delle rappresentazioni immaginarie costituitesi attraverso l’esperienza di soddisfacimento. Il campo è sostanzialmente dominato dal desiderio di “possesso”, nel senso dell’appropriazione/espropriazione; è cioè il mondo della “appartenenza” e del “potere”, organizzato sulla base delle trame identificatorie. È quindi il mondo delle norme comportamentali codificate da un “potere desiderante”, della dipendenza e della contro-dipendenza, della compiacenza e della contrapposizione, del rapporto sovrano/suddito o padrone/schiavo. È in questo ambito esperienziale che si colloca l’origine immaginaria del “desiderio”. I fattori costitutivi di questa dimensione relazionale sono il fondamento e il contenuto delle situazioni “transferali”.
Il terzo modello è quello della “Relazione Interpersonale Progettuale”. Mentre nei due modelli precedenti l’individuo vi compare come parte di un sistema, in un rapporto di necessaria continuità con le altre parti del sistema stesso, questa modalità relazionale presuppone invece un soggetto dotato di una sua propria identità autonoma, capace quindi di stabilire un rapporto di contiguità, cioè di “scambio” col mondo. Fondato sulla capacità e non sul potere di assoggettamento o di appropriazione, questo scambio comporta la tollerabilità (“depressiva”) del proprio limite individuale, cioè la consapevolezza della propria non-onnipotenza. In questa prospettiva, quella “curiosità” e quella attitudine “riflessiva” che originariamente hanno consentito al bambino di risolvere il problema della propria sopravvivenza attraverso le sue scoperte del mondo, possono consentire all’uomo, se esonerato dall’assillo del bisogno sopravvivenziale, di proporsi al mondo con una sua “domanda” in una relazione progettuale, dialogica.
Ed è questo, per ritornare al discorso di Erba, il mondo delle risposte possibili.
Dovrebbe ora essere più comprensibile come le domande impossibili provengano o da un bisogno non interpretato, che ci lascia impotenti di fronte a una angoscia di frammentazione, oppure da una istanza desiderante non simbolizzata, che si appropria di noi in forza di una identificazione immaginaria.
Ma, allora, esistono solo domande che sono l’espressione, adeguata o deformata, di un bisogno? Direi di no, nella misura in cui il nostro rivolgerci al mondo non è unicamente riconducibile a una mera necessità di sopravvivenza, ma è anche l’espressione di una nostra attitudine creativa, di rinnovamento, di rifondazione del già dato, che si “progetta” al di là del già noto. Tutto il bagaglio della nostra conoscenza, del nostro “sapere-il-già-noto”, è infatti per ciascuno di noi la somma di una enorme quantità di “risposte” ad altrettante domande, apprese per esperienza propria o frutto di esperienze altrui, codificate e memorizzate in un repertorio che, nella vita quotidiana, ci consentirà di adottare le soluzioni più vantaggiose, senza doverle ogni volta ri-inventare.
Se ogni volta che voglio bere un caffè dovessi inventare il fuoco credo proprio che rinuncerei al caffè o meglio, forse, non ne conoscerei ancora neppure il sapore. Ciò che imparo a conoscere dell’altro può consentirmi, nel rapporto, di trovare l’interazione più adeguata.
Il problema nasce dal fatto che, in questo repertorio, in questa specie di “software”, insieme con soluzioni adeguate e vantaggiose, sono registrate istruzioni inadeguate e svantaggiose (come delle “subroutine” con errori di programmazione o impropriamente assunte da altri programmi), dalle quali traggono origine i nostri comportamenti relazionali “ab-normali”; dato il particolare ambito del nostro lavoro quotidiano, è prevedibile il fatto che ci troveremo prevalentemente a interagire con queste ultime. E questo non perché le persone che si rivolgono a noi siano necessariamente prive di capacità creative, progettuali, artistiche, ma perché tali potenzialità possono essere in tutto o in parte imbrigliate, come dice Napolitani, da un eccedenza del bisogno o dal dilagare delle rappresentazioni di un immaginario non sufficientemente reinterpretato. In questo tipo di relazione, che a buon diritto potremmo definire transferale anche se è al di fuori di un setting analitico, anche le domande saranno riconoscibili come appartenenti a un”copione di trame drammatiche” stereotipate, ripetitive, sostanzialmente acritiche e desemantizzate.
Per tutto ciò concordo pienamente con Sergio Erba sulla necessità di “interpretare” correttamente le domande impossibili per offrire una “risposta terapeutica”. Vorrei però fare una precisazione: non è sufficiente il fatto di non cadere nella trappola di una risposta meramente “immaginaria” o “controtransferale” per riconoscere il valore terapeutico di un intervento. Infatti, nel momento in cui si riconosce la “istruzione errata” del codice comportamentale del paziente, ci si offrono soprattutto due alternative: tentare di “correggere” il comportamento “sbagliato” attraverso la somministrazione di una “istruzione sostitutiva esatta”, codificata in parole o farmaci, oppure, quando possibile, tentare la via certo più coinvolgente e impegnativa che, attraverso la scoperta di un senso nella apparente insensatezza e conflittualità delle domande impossibili, consenta al soggetto di formulare al mondo le sue domande possibili.
(*) Relazione presentata al seminario residenziale del Ruolo Terapeutico, Abano Terme, maggio 1985.
[1] Freud S., (1899) Psicologia dei processi onirici. “Opere”, vol.3, p.515, (Boringhieri, Torino).
[2] Freud S., (1920) Al di là del principio del piacere. “Opere”, vol.9, p.195, (Boringhieri, Torino).
[3] Freud S., (1925) Inibizione, sintomo e angoscia. “Opere”, vol.10, p.301, (Boringhieri, Torino).
[4] Freud S., (1895) Progetto di una psicologia “Opere”, vol.2, p.222, (Boringhieri, Torino).
[5] Freud S., (1899) Psicologia dei processi onirici. “Opere”, vol.3, p.516, (Boringhieri, Torino).
[6] Freud S., (1899) Psicologia dei processi onirici. “Opere”, vol.3, p.517, (Boringhieri, Torino).
[7] Gehlen A., “L’Uomo”, p.63 (Feltrinelli Milano, 1983)
[8] Gehlen A., op. cit., p.70
[9] Allport G.W., Personality: a Psychological Interpretation, (Constable London, 1949)
[10] Prigogine I., Stengers I., La nuova alleanza (Einaudi,1981)
[11] Napolitani D., Individualità e gruppalità (Boringhieri, 1987)
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