“Cari giudici, spingerci nel silenzio è un torto alla memoria”

– riflessioni sullo status di vittima –

 

Otto Febbraio 2016. Agnese Moro, figlia dello statista freddato dalle Br; Manlio Milani, marito di una vittima di Piazza della Loggia, e Sabina Rossa, figlia di un sindacalista anch’egli vittima della lotta armata, inviano una lettera aperta alla Scuola Superiore di Magistratura, di cui riporto alcuni passi: “Cari giudici, spingerci nel silenzio è un torto alla memoria (…). Desideriamo esprimere la nostra amarezza per la decisione della Scuola Superiore della Magistratura di annullare l’invito, da tempo rivoltoci, a presentare il nostro percorso di giustizia riparativa e di impedirci così di dialogare con i magistrati all’interno di un corso di formazione su ‘Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena’, organizzato dalla Scuola stessa. Della decisione dispiacciono particolarmente alcune cose:

– vedere una certa sacralizzazione della Scuola, come se fosse la custode esclusiva della memoria dei caduti e potesse essere contaminata, proprio lì dove si scambiano idee ed esperienze, anche dalla presenza di persone che hanno compiuto azioni gravissime seguite da lunghi e sofferti cammini significativi

– dispiace poi, e molto, che si sia giustificato l’annullamento dell’invito per il fatto che persone che hanno commesso reati, sono state giudicate e hanno scontato la loro pena, parlando a magistrati nella sede della Scuola avrebbero offeso la nostra Costituzione. Non possiamo accettarlo. Sappiamo benissimo che la pena nel nostro ordinamento costituzionale serve alla rieducazione del condannato al quale non può essere chiesto né ordinato di perdere il diritto a esprimere le proprie idee e le proprie esperienze

– ci sembra che con questo invito al silenzio si sia evidenziata l’incapacità di comprendere ciò che noi viviamo come un punto fermo e cioè che la memoria pubblica richiede il racconto e l’ascolto di memorie diverse e particolari. Ciò non implica ovviamente di essere d’accordo, ma serve ad aprire spazi di confronto dai quali possa emergere una più piena consapevolezza delle vie della violenza, per riconoscerle e prevenirne le tragiche conseguenze”.

Circa un anno dopo, e precisamente il 20 gennaio 2017, al palazzo del Senato si incontrano degli ex esponenti delle Br e alcune vittime del terrorismo, “non per riscrivere la storia né per dare legittimazione politica al partito armato, bensì per celebrare la forza e la vittoria della democrazia”, spiega il senatore Luigi Manconi, promotore dell’iniziativa. Intanto fuori dal palazzo infuriano, comprensibilmente (?), le polemiche sollevate dall’Associazione vittime del terrorismo. La quale rivendica il loro status di vittime inermi di una lotta armata perseguita unilateralmente dai terroristi, veri e propri assassini seriali che, in nome di aberranti ideali politici, hanno cercato di rovesciare l’ordine costituzionale. E sottolinea con fermezza che chi ha offeso possa essere perdonato solo dalle vittime oltraggiate.

Condivido la tesi che il perdono attenga alla coscienza individuale e non abbia nulla a che vedere con la normativa. E che dunque non lo si possa imporre a nessuno, men che meno ai familiari delle vittime. Credo però che le relazioni costituiscano la struttura fondativa della convivenza sociale. E che possa accadere che la prima forma di contatto tra persone profondamente diverse tra loro, come vittime ed ex terroristi, possa passare attraverso l’esperienza del dolore, così diverso per ciascuno di loro.

Ci sono vittime di abusi, di guerre, di stragi, di mafia che lasciano dietro di sé una scia di vedove, orfani, padri e madri inconsolabili, anch’essi vittime della distruttività altrui. Seppur indirettamente. Spesso di costoro sopravvive solo un involucro abitato da morte psichica affettiva e morale. Ci sembra che la morte naturale, per quanto possa irrompere improvvisamente in un percorso di vita, sia comunque più accettabile della morte violenta. Che invece è irrazionale, impensabile, inspiegabile. Perché costringe alla ricerca ossessiva di un perché che non esiste. Perché inaridisce la vita di chi sopravvive, privandola della necessaria linfa vitale. Perché lascia in eredità un’unica ragione di vita: onorare la memoria di chi è morto, anche a costo di mortificare gli slanci vitali di chi ci vive accanto.

Parallelamente, da vent’anni a questa parte, si allunga l’elenco delle giornate della memoria, che sembrano essere il surrogato di una richiesta inevasa di giustizia, rivolta alle istituzioni. Sappiamo invece che la memoria del passato, per essere preservata, necessita di chiarezza, coerenza, determinazione, onestà intellettuale. Non di clamori né di retorica.

Una considerazione che ad alcuni potrebbe risultare blasfema è che lo status di vittima presenta anche dei vantaggi. Ritaglia un ruolo nel mondo e questo è indubbiamente consolante. Le persone le si stringono intorno, tanto che frequentemente si chiama fuori dalla trama delle relazioni sociali, firmando una delega in bianco sulla responsabilità della propria vita. E talvolta capita che il rancore e il desiderio di vendetta divengano la sua occupazione principale, innescando una spirale perversa che si autoalimenta pericolosamente.

Sappiamo per certo che il passato non si può eliminare. Né si può cancellare il dolore. Tuttavia l’esperienza di alcune vittime ci suggerisce come il dolore possa essere trasformato nel tempo. Questo sembra un modo possibile per uscire dalla prigionia dei ricordi e recuperare il senso della vita. Qui di seguito, alcune testimonianze.

Stefano Levi Della Torre, intellettuale, saggista e pittore di famiglia ebrea, in occasione della celebrazione di una delle giornate della memoria, cui è stato invitato a prendere la parola, afferma provocatoriamente che essere solidali con le vittime è abbastanza facile. E soprattutto non particolarmente vantaggioso. Mentre interrogarsi su cosa in noi somigli ai carnefici, a chi è stato passivo e a chi è stato indifferente può essere di estrema utilità. Ci aiuta a comprendere come potremmo comportarci di fronte alle tragedie attuali, perché nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Che sia positivo o negativo. Inoltre egli sostiene che la sacralizzazione di un evento luttuoso ne comporta l’indicibilità, l’impossibilità di analizzarlo e soprattutto di trarne preziosi insegnamenti.

Primo Levi, invece, nel libro I sommersi e i salvati, invita a esplorare lo spazio che separa le vittime dai persecutori. Che considera una zona grigia popolata di figure turpi o patetiche, da conoscere se vogliamo comprendere per davvero la specie umana. Perché afferma che solo una retorica schematica potrebbe supporre che quello spazio sia vuoto.

Agnese Moro sostiene che la vittima porti dentro di sé un elastico, che si allunga lasciandole apparentemente la possibilità di avere una vita normale, come tante. Ma a ogni istante un’immagine, un profumo, un pensiero, un luogo possono far scattare l’elastico e riportarla istantaneamente indietro ai fatti tragici. Cosa farà questo elastico? – si chiede – Si tenderà all’infinito impedendole di liberarsi dall’orrore e dalla morte o si potrà ammorbidire delicatamente, non perdendo nulla né di ieri né di oggi? Ci ricorda che se lo si vuole ammorbidire è per amore.

Soffermiamoci sulle vittime dello stragismo degli Anni Settanta, in Italia. Fino a dieci anni prima, erano stati i valori racchiusi nella Costituzione – tolleranza, pluralismo, antifascismo – il nucleo fondante su cui costruire la memoria del nostro Paese. Poi, verso l’inizio degli Anni Settanta essi hanno perduto la loro caratura unitaria. L’antifascismo, ad esempio, per tanti giovani è divenuto militante, trasformandosi in denuncia e azione contro il potere. Lo scopo era dare uno scossone all’identità collettiva, che dopo la seconda guerra mondiale era andata sbiadendosi. Nascono in questo periodo modelli identitari fortemente contrapposti. Da un lato, la Costituzione. Dall’altro, un progetto rivoluzionario totalizzante che non conosce attese e che legittima l’uso della violenza come attacco al cuore dello Stato. Che colpisce magistrati, giornalisti, politici e rappresentanti delle forze dell’ordine per il ruolo che rivestono. Deumanizzando le persone, che vengono ridotte a cose. Come gli assassini, d’altronde. Con la differenza che le vittime non hanno avuto possibilità di scelta.

Comprendo che non sia facile avere un atteggiamento compassionevole per degli ex-terroristi, seppure dissociati e pentiti. Nei loro riguardi, infatti, la parola compassione potrebbe tradursi in vigliacca autoindulgenza, necessaria a sopravvivere. Comprendo anche che sia faticoso rintracciare nei loro sguardi un residuo di umanità che consenta di rispecchiarsi in loro, senza vedersi restituita un’immagine ferina. Che sia arduo immaginarli assaliti da incubi notturni in cui risentono l’eco degli spari e il rumore delle coltellate inferte. Credo, però, che abbiano almeno il diritto di vedere accertata la verità all’interno di una sentenza definitiva, che consenta al passato di passare. E ciò vale tanto per loro quanto per le vittime. A noi testimoni, purtroppo, rimane l’amara constatazione dello spreco di vite umane e di intelligenze di prim’ordine, molte delle quali asservite alla violenza. Non solo. La lacunosità della ricostruzione delle verità storiche e processuali degli eventi drammatici di quel periodo scredita a tal punto gli Anni Settanta, che in Italia vengono ricordati principalmente come anni di attentati e di morti ammazzati. Dimenticando che si è trattato anche di un decennio di conquiste sociali e civili. Inoltre qualcuno ipotizza che le forme di antagonismo distruttivo tipiche di questi ultimi tempi e favorite dalla lacerante crisi economica forse affondano le loro radici proprio negli “anni di piombo”. Che, non essendo stati riassorbiti nella storia nazionale, hanno congelato lo slancio delle nuove generazioni verso l’impegno politico e sociale e compromesso la ricostruzione di una memoria collettiva. Prova ne sia che all’inizio degli Anni Novanta i cittadini, non potendo convergere verso valori e memorie condivisi a causa dello strappo creatosi nel tessuto sociale, hanno involontariamente favorito la nascita di due opposte fazioni: da un lato, le vittime e i loro familiari; dall’altro, una minoranza di ex terroristi legata all’identità del passato, nonostante l’espiazione della pena, la dissociazione e il pentimento. Come previsto dall’art. 27 comma 3 della Costituzione italiana. È accaduto quindi che nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica gli eroi del Risorgimento e della Resistenza abbiano lasciato il posto alle vittime e ai sopravvissuti di alcuni eventi tragici, sancendo la nascita del “paradigma vittimario”. Da quel momento in poi, il patto fondativo della nostra memoria è stato siglato solo dal dolore e dal lutto: per le vittime del terrorismo, della mafia, della Shoa, delle foibe e delle catastrofi naturali. Senza contare che lasciare in eredità una visione vittimistica della storia è una scelta che ha inevitabili conseguenze. Una per tutte, il porre l’accento sulla contrapposizione amico – nemico che, anziché avvicinare, approfondisce il solco delle opposte e incomunicabili appartenenze. Oltre al fatto che il “paradigma vittimario” si è rivelato incapace di condensare i valori costituzionali. Infatti le vittime non vengono riconosciute come depositarie di una memoria collettiva che tenga unito il Paese. Anzi, spesso sono dipinte dai media come frustrate, deluse, in competizione tra loro. Ciò detto, varrebbe la pena chiedersi che Paese stiamo consegnando alle nuove generazioni. Quelle che non erano ancora nate all’epoca dei fatti, ma che ora vogliono capire, perché hanno diritto a un futuro. Alle quali non possono essere trasmessi solo odio e rabbia, ma la possibilità di un dialogo. Per cogliere le ragioni di certe scelte, per comprendere senza necessariamente condividere. Con onestà, senza omologazioni impossibili. Proprio allo scopo di onorare la memoria delle vittime.

Un ulteriore sguardo sul paradigma “vittimario” è quello di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, che amano definirsi due magistrati in perenne disaccordo. Anche nelle scelte di vita, parrebbe. Infatti, l’uno si è dimesso dalla magistratura una decina d’anni fa, per dedicarsi all’attività formativa nelle scuole. L’altro è diventato presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione. Nel libro scritto a quattro mani La tua giustizia non è la mia dialogano su cosa sia la giustizia e sull’annosa diatriba tra giustizia retributiva e riparativa. Si interrogano e rispondono a domande come: è la minaccia di una pena a dissuadere da azioni criminose? È più efficace educare o punire? Esiste davvero la certezza della pena? – che frequentemente ci poniamo in quanto cittadini. Balza subito all’occhio che il loro modo di intendere la giustizia è profondamente diverso. E soprattutto che è il concetto stesso di giustizia a non essere definibile una volta per tutte. Per Davigo, infatti, il compito di un giudice è primariamente quello di mettere al riparo le vittime da nuove possibili aggressioni, e poi risarcirle. A suo parere, le vittime dovrebbero poter dire la loro sulle sanzioni penali e sulle misure cautelari da infliggere ai colpevoli. I quali, a suo avviso, in Italia occupano immeritatamente la scena. Ritiene che una possibilità concreta per impedire che nuocciano alla collettività sia cercare di rieducarli. Tuttavia, secondo la sua decennale esperienza, essi spesso fingono di pentirsi per usufruire dei benefici previsti dal nostro sistema penale. Di tutt’altro altro avviso è Colombo, che sottolinea come le vittime non vadano risarcite, bensì riparate. Infatti, quantificare monetariamente il danno che hanno subito è incongruo, perché il bene offeso non è il patrimonio, bensì gli affetti. Per tutelarle davvero, secondo Colombo, bisognerebbe accogliere la loro sofferenza che, se non viene lenita, proietta un’ombra lunga sul loro futuro. E questo non è di certo compito di un giudice. Purtroppo, però, in Italia l’unica cosa che il nostro sistema penale sembra in grado di offrire alle vittime si inscrive nella logica della vendetta. Parole forti, indubbiamente. D’altronde, infliggere a chi ha commesso un reato una pena di sofferenza pari a quella patita dalla vittima, secondo un criterio retributivo, non significa forse incoraggiare il suo desiderio di vendetta? Purtroppo il dolore che nasce dall’offesa subita può illusoriamente trovare soddisfazione nell’attimo bruciante della vendetta, seppur incanalata nelle istituzioni. Per rimanere di fatto intrappolato e alimentare nuovo odio e rancore.

Davigo e Colombo si interrogano anche su quale trattamento vada riservato ai colpevoli. E solo su un punto si trovano d’accordo: non è la certezza della pena a garantire la sicurezza dei cittadini. Perché spesso la pena certa comporta un’inutile afflizione, nel caso in cui il destinatario abbia perduto la sua pericolosità. Mentre mette a repentaglio l’incolumità dei cittadini quando, nonostante sia terminata la pena, perduri la sua pericolosità. Colombo è a favore della giustizia riparativa. Cioè di un percorso di ricerca della verità che accomuna la persona che ha commesso un reato, di cui si riconosce responsabile, e la sua vittima. Lo scopo non è infliggere sofferenza al colpevole per annientarne vita e psiche, ma adoperarsi perché riconosca la propria responsabilità. Considera auspicabile una prospettiva di recupero, come suggerisce la Costituzione. Che sancisce che le persone hanno pari dignità per quello che sono e non per quello che fanno. Basarsi solo sugli atti delittuosi che hanno commesso significa cristallizzarli in un fotogramma. Mentre la vita è una sequenza di fotogrammi, con un prima e un dopo. Ricorda inoltre che la giustizia riparativa è adottata in quasi tutti i paesi della UE con poche eccezioni, tra cui l’Italia.

Fulvia Ceccarelli

 

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RIFLESSIONI SULLO STATUS DI VITTIMA