DAL DIARIO DI UNA VECCHIA PSICOANALISTA – LAURA SCHWARZ

CURIOSITÀ E AFFETTI IN PSICOANALISI

Non mi è stato facile trovare risposte veritiere, autentiche e comprensibili a chi le avrebbe lette, alle impegnative domande postemi da “Il Ruolo terapeutico” nell’intervista che compare in questo stesso numero dei “Quaderni”. I redattori del “Ruolo” mi sono sembrati molto curiosi, ma le loro domande non mi hanno disturbata: la curiosità io la conosco bene, visto che proprio la curiosità era stata, nella lontana adolescenza, la motivazione iniziale a leggere qualche scritto di Freud, e in seguito a intraprendere studi di psicologia per giungere, infine, alla professione di psicoanalista. Il desiderio di capire e di indagare nella psiche era in me decisamente più intenso rispetto alla motivazione a “prendersi cura” che ha invece spinto tanti colleghi, specie quelli delle generazioni successive alla mia, alla loro scelta professionale.

Nel tentativo di rispondere alle domande dell’intervista ho in realtà scoperto di non conoscere a fondo le mie stesse opinioni in merito a certe questioni: non sapevo bene in base a quali convinzioni mi muovessi e cosa mi avesse portato a tali convinzioni; quali fossero i principi etici a cui mi riferivo nella vita e nella pratica professionale. Per giunta l’intervista mi è piombata addosso proprio quando, da poche settimane, la mia attività professionale l’avevo definitivamente conclusa. La ricerca delle risposte appropriate mi ha indotta quindi a rivolgere la mia naturale curiosità verso la storia della mia evoluzione professionale che, da un certo momento in avanti, è venuta a coincidere con la mia evoluzione personale.

Solo in una fase avanzata della vita, quando ormai lavoravo da molti anni, mi sono accorta di quanto i miei comportamenti si discostassero dall’immagine che avevo di me. Avendo però da sempre nutrito grande rispetto e grande amore per la verità, ho cominciato a indagare sul perché di tale considerevole differenza e a guardarmi allo specchio con maggiore attenzione e maggiore obiettività; spinta da una curiosità di tipo scientifico, e aiutata dalle mie conoscenze della psicoanalisi e dalle capacità introspettive che avevo acquistato nel corso dell’analisi didattica, ho riconosciuto le difese narcisistiche che mi portavano ad abbellire la mia autoimmagine, e me ne sono in buona parte liberata. Mentre mi impegnavo in questa indagine su me stessa (che mi procurava la soddisfazione di avvicinarmi all’obiettività), trasferivo gradualmente la stessa curiosità indagatrice anche sul mio modo di lavorare coi pazienti, scoprendo altri ostacoli che continuamente lo intralciavano: l’impazienza, la fretta e l’ambizione di ottenere risultati terapeutici; c’era così il rischio che io attingessi da modelli operativi appresi dai libri o dai docenti, anziché attingere dalle mie potenziali risorse. Tali risorse andavano però integrate con il richiamo che proveniva dai più recenti sviluppi della psicoanalisi e anche dai valori etici a cui io facevo riferimento. Erano i richiami a identificarmi col paziente, a “mettermi nei suoi panni”; per seguire tali richiami avrei dovuto, per così dire, sprofondare dentro al paziente e ascoltare le emozioni che questo intimo contatto, quasi una fusione, faceva nascere in me. Io tradussi a mio uso e consumo questi richiami nell’invito a diventare un poco più… paziente: paziente nel senso di sapermi anche abbandonare a un ascolto un po’ passivo, pur mantenendo salda la mia identità di analista, cioè di una persona impegnata attivamente in una cura mirante idealmente alla guarigione.

Imparai gradualmente a non essere schiava della mia curiosità, bensì a servirmene come ci si può servire di uno strumento, scelto a seconda delle necessità del momento fra vari strumenti utili per svolgere un certo lavoro; imparai anche a utilizzare più e meglio la mia sfera emotiva nei contatti coi pazienti.

I due ultimi trattamenti da me effettuati prima di mettermi a meritato (?) riposo sono stati caratterizzati da due percorsi molto diversi fra loro. Nel primo caso ho dovuto far ricorso a una curiosità introspettiva, quasi spietata, per comprendere come mai mi sentissi tanto scontenta e aggressiva verso una paziente difficile; e trovai la giusta strada per accostarmi affettivamente a lei solo quando riuscii finalmente a mettermi nei suoi panni. Nel secondo caso, invece, tutto per così dire mi è riuscito più facile, pur avendo a che fare con una paziente piuttosto grave: questa paziente, a differenza dell’altra, non entrava in collisione con certe mie caratteristiche personali e con certi miei difetti: nulla quindi mi induceva a cercare di cambiarla, se non il sano desiderio che potesse star meglio. Ho quindi ben tollerato a lungo, senza soffrirne, di capire ben poco di lei, finché la sua crescente sofferenza non le ha permesso di divenire più esplicita e quindi più comprensibile. Tutti e due i trattamenti si sono comunque conclusi con soddisfacenti risultati terapeutici, riconosciuti da entrambe le parti.

Ora sono a riposo, ma la mia curiosità non riposa per nulla, e la impiego in parte nel molto tempo di cui adesso dispongo per indagare, tuffandomi nel passato, sulla mia storia personale che, a partire da un certo momento, è venuta a coincidere con la mia evoluzione professionale. Rimpiango naturalmente le omissioni e gli errori in cui ero incorsa in passato, ma questa immersione mi procura anche il piacere di capire cose che prima non capivo, e quindi di continuare a soddisfare la mia persistente curiosità, seguitando così, in qualche modo, a crescere oltre la mia già rispettabile età. In particolare, sto indagando sulle mie passate interazioni coi pazienti, confrontandole con i passati e attuali rapporti con le persone per me significative; e scopro, nel corso di queste indagini, notevoli somiglianze fra l’uno e l’altro tipo di relazione: io ero sempre la stessa, dentro e fuori dallo studio, perché la mia identità di analista si era da tempo indissolubilmente fusa con la mia identità personale.

Forse continuerò a scrivere, di tanto in tanto, qualche pagina di diario, magari proponendola a “Il Ruolo Terapeutico” per un’eventuale pubblicazione.

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