Nel mese di Febbraio u.s. un particolare fatto di cronaca ha occupato le pagine dei giornali e dell’informazione mediatica.
I nostri colleghi Domenico Marcolini e Alberto Pacher, del gruppo trentino del Ruolo Terapeutico, hanno espresso un loro particolare punto di vista sulla triste vicenda (pubblicato sul quotidiano L’Adige del 27 febbraio 2017).
Riportiamo il loro scritto e la loro prospettiva a riguardo pensando possa aprire uno spazio di riflessione ad ampio raggio al quale invitiamo a partecipare anche i nostri lettori.
DIETRO LA LAVAGNA
Domenico Marcolini e Alberto Pacher
Quanto accaduto a Lavagna nei giorni scorsi, con il suicidio del giovane sedicenne nel corso di una perquisizione domiciliare della Guardia di Finanza durante la quale sono stati trovati 10 grammi di hashish, ci sembra meriti alcune considerazioni. Siamo rimasti molto colpiti dal messaggio che la madre ha voluto dare nel corso della cerimonia funebre e che, come spesso accade, è stato rapidamente assunto a paradigma di una visione che tende a fare del consumo di cannabis una patologia di fatto inesorabile precursore di altre, più gravi, dipendenze la cui prevenzione va demandata ai cani antidroga nelle scuole. Siamo del tutto consapevoli di quanto rispetto e comprensione vadano adottati nella lettura di dinamiche e sofferenze psicologiche come quelle intraviste in questa vicenda, anche per rispetto della complessità affettiva e relazionale che rende la relazione madre-figlio un terreno su cui, per dirla con Bateson, “anche gli angeli esitano a poggiare i piedi”.
Però forse potranno essere utili, ai fini di un dibattito che speriamo più ampio ed approfondito possibile, alcune osservazioni che derivano direttamente dalla nostra esperienza professionale nel corso della quale, a partire dai primi anni ’80, abbiamo incontrato molte situazioni in cui siamo stati interpellati a fronte di un uso più o meno problematico dei derivati della cannabis.
Potremmo racchiudere questa molteplicità di situazioni in tre grandi aree, anche se ogni situazione, ogni vicenda personale e familiare porta in sé i connotati di una traiettoria esistenziale unica ed irripetibile.
La prima area, quella relativa alle situazioni connotate da un uso personale e quindi non finalizzato allo “spaccio” – che rappresenta la grandissima parte dei casi incontrati – era ed è composta da quella popolazione giovanile (e non) che vive l’uso di cannabis come ricreativo ed occasionale. Nella quasi assoluta totalità dei casi abbiamo registrato un naturale esito positivo nel medio-lungo periodo, dopo un iniziale breve trattamento spesso limitato a un counseling con gli interessati e, dove possibile, con i loro genitori.
Siamo convinti che tra chi leggerà queste considerazioni vi siano molti di loro, oggi adulti e genitori.
Tanto per dare un’idea dei numeri, nel Rapporto 2009 del Sert di Trento si legge che “… la cannabis rappresenta la sostanza psicoattiva illegale consumata dal maggior numero di persone ma allo stesso tempo motiva la richiesta di trattamento minore. Nella popolazione regionale di età compresa tra i 15 ed i 54 anni, quasi un terzo delle persone l’ha sperimentata almeno una volta nella vita, … tra gli studenti trentini, gli sperimentatori di cannabis rappresentano il 30,2 % della popolazione studentesca”.
La seconda è quella dei giovani pazienti nella cui storia personale si rileva una centrale questione identitaria e dove l’uso di cannabis si propone come indicatore di una identità impedita, incompiuta o negata. Si tratta di persone il cui percorso esistenziale è scandito, almeno in quella fase di età, da vissuti di smarrimento, inquietudine, di vuoto interiore, assenza di significati. Queste traiettorie esistenziali sono spesso vissute in assenza di un contenitore familiare e sociale in grado di offrire riconoscimento, appartenenza, limite e orizzonte di senso. È questa, forse, la tipologia di storie di vita su cui più si è scritto e discusso, caratterizzata da una sofferenza sorda, spesso neppure riconosciuta, e che rappresenta bene il vero paradosso del nostro tempo: un tempo in cui la generale soddisfazione dei bisogni primari che per secoli hanno segnato le generazioni – fame, malattie, sicurezza personale – sembra aver spalancato le porte a una nuova “malattia dell’anima” che toglie riferimenti, genera vuoti nel senso della nostra vita, vuoti che ci si affanna a riempire con bisogni secondari e fittizi che a loro volta generano nuove sensazioni di smarrimento il cui dilagare trova facile esca in genitori e adulti che fanno fatica a dire “guarda me” perché a loro volta dispersi in una generale fragilità dell’immagine di Sé che li porta a cercare rapide anche se superficiali gratificazioni narcisistiche, piuttosto che misurarsi con la fatica dell’educare, di essere modello di riferimento.
La terza, decisamente minoritaria, è un’area di confine in cui l’uso della cannabis rappresenta la manifestazione di superficie di un più profondo e rilevante malessere vitale. In questi casi l’uso di cannabis può essere un tentativo, naturalmente del tutto inefficace dal punto di vista strutturale, di autoterapia nei confronti di forme di sofferenza segnate da elementi depressivi, di abbandono, di difficoltà relazionali e affettive profonde. Non è infrequente che in questi casi l’uso di cannabici scateni quadri psicopatologici arrivando ad attivare veri e propri fenomeni di depersonalizzazione e derealizzazione.
Dunque, come abbiamo cercato di delineare seppure in maniera del tutto schematica, appare sempre più azzardato pensare e parlare dell’uso di cannabis come di un fenomeno omogeneo in cui l’assunzione della sostanza definisce il quadro del problema da affrontare. Semmai è vero il contrario, è la struttura della personalità, la storia, le risorse accessibili, il contesto affettivo, familiare e relazionale di riferimento della persona che definiscono la fisionomia di quell’uso di cannabis, che ne tracciano ed influenzano la morfologia. In questo senso, ciascuna delle tre grandi aree sopra tratteggiate richiama e richiede un pensiero differenziato e, soprattutto e come conseguenza, un approccio di intervento diverso che ci sembra possano essere riassunti in questo modo.
Per la prima area, quella dell’uso occasionale e ricreativo, ci pare possa essere di aiuto quanto previsto dal Disegno di Legge, sottoscritto da 218 parlamentari di diverse aree politiche, che si propone come obiettivo quello di sottrarre, con misura ed equilibrio e come è ormai prassi in molti Paesi Europei ed anche in molti Stati degli USA, questa esperienza dall’inutile e – spesso – controproducente campo giudiziario, sempre più paradossale anche in relazione a una sostanza che viene oggi prodotta e distribuita dall’Istituto Chimico Farmaceutico Militare di Firenze e può essere prescritta dal Sistema Sanitario Nazionale.
Per la seconda area, quella dove l’uso si collega a una questione identitaria e di vuoto, sovente accompagnato da un corto circuito nelle relazioni reali e simboliche tra le generazioni nel quadro familiare, riteniamo che vada pensato un incremento dei percorsi di accompagnamento e rinforzo delle dinamiche familiari che favoriscano una nuova e più fluida comunicazione tra le generazioni dove i genitori riprendano fiducia in ciò che hanno creato, che incentivino la creatività dei figli riconoscendo la strutturale asimmetricità dei ruoli all’interno della famiglia e quindi riconoscendo l’importanza della propria funzione educativa. Siamo certi che ogni euro investito in attività di prevenzione e sostegno delle funzioni familiari intergenerazionali porterà a risparmiarne migliaia oggi spesi nei percorsi clinici.
Infine, per la terza area – quella oggi più presidiata – la risposta non può che essere clinica e specialistica attraverso i qualificati presidi che il sistema sanitario, da noi l’APSS, mette in campo attraverso i Sert, i CSM, la Psicologia Clinica, le tante strutture socio-sanitarie pubbliche e private a cui già oggi chiunque può accedere con facilità e gratuitamente.
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