Eppur qualcosa ci tiene desta l’anima

Questo scritto ha l’obiettivo di poter fare alcune considerazioni sul linguaggio artistico per vedere se ne viene fuori qualcosa di interessante per noi terapeuti.

Cominciamo dalla poetessa polacca Wislawa Szymborska, riportando la sua “Qualche parola sull’anima”:

L’anima la si ha ogni tanto.

Nessuno la ha di continuo

e per sempre.

Giorno dopo giorno,

anno dopo anno,

possono passare senza di lei.

A volte nidifica un po’ più a lungo

solo in estasi e paura dell’infanzia.

A volte solo nello stupore

dell’essere vecchi.

Di rado ci dà una mano

in occupazioni faticose,

come spostare mobili,

portare valigie

o percorrere le strade con scarpe strette.

Quando si compilano moduli

e si trita la carne

di regola ha il suo giorno libero.

Su mille nostre conversazioni

partecipa a una,

ed anche a questo non necessariamente,

poiché preferisce il silenzio.

Quando il corpo comincia a dolerci e dolerci,

smonta di turno, alla chetichella.

È schifiltosa,

non le piace vederci nella folla,

il nostro lottare per un vantaggio qualunque

e lo strepito degli affari la disgustano.

Gioia e tristezza

non sono per lei due sentimenti diversi.

È presente accanto a noi

solo quando essi sono uniti.

Possiamo contare su di lei

quando non siamo sicuri di niente

e curiosi di tutto.

Tra gli oggetti materiali

le piacciono gli orologi a pendolo

e gli specchi, che lavorano con zelo

anche quando nessuno guarda.

Non dice da dove viene

e quando sparirà di nuovo,

ma aspetta chiaramente simili domande.

 

Si direbbe che

così come lei a noi,

anche noi

siamo necessari a lei per qualcosa.[1]

La poesia definisce con la parola “anima” un qualcosa di misterioso, oggetto a cui cercheremo costantemente di riferirci per provare a osservare la “montagna psicoterapia” da un lato forse non troppo frequentato, usando una lingua altra, consapevoli che lingue diverse concorrono a creare anche pensieri diversi.

Procedo per associazione citando Simone Weil.

Allo stesso modo quando si fa perfettamente attenzione a un’opera d’arte perfettamente bella, l’intelligenza non vi trova alcunché da negare o affermare. Tutte le facoltà dell’animo… fanno silenzio e sono sospese all’ascolto. E l’intelligenza che non vi afferra alcuna verità, vi trova però nutrimento”[2]

Opera d’arte può essere un quadro in un museo, come uno dei primi sacchi di Alberto Burri; può essere un paesaggio naturale, essendo la natura l’opera d’arte di Dio, può essere “l’inesplicabile mare” dell’antico poeta portoghese Luis Vaz de Camões, il filo d’erba che alla mattina raccoglie la rugiada su di sé e che può far desiderare a Maria Zambrano, ed a noi con lei, di essere quel filo d’erba, sentendo magari per un attimo che non c’è la natura da una parte e noi dall’altra , ma siamo noi stessi natura e conciliati con essa, almeno per un istante.

Legando queste intuizioni viene da dire che l’anima sta presso di noi quando siamo immersi in un’esperienza estetica, che non è un lusso per colti uomini occidentali, ma per tutti coloro che sono immersi in stati d’animo sospesi, fluttuanti, ma paradossalmente, pieni di attenzione. Viene qui da ricordare che l’attenzione è come preghiera, in greco prosoche.

Nell’esperienza estetica, descritta anche da Arthur Schopenhauer, sei come intero, non disperso, frammentato, c’è purificazione dei pensieri, forse qualcosa che assomiglia all’espressione di stupore e sorpresa che viviamo da bambini e si spera anche da adulti. In questo stato d’animo abitato dall’anima, stato estetico, forse sentimento oceanico, proviamo una sensazione di bello e di nuovo; sottolineo che non stiamo parlando del bello in senso cosmetico, il bello non è il “carino” un po’ sbrigativo, da poca attenzione, appunto, anche di fronte ad opere d’arte grandiose.

No, il bello sentito dall’anima, il bello dell’esperienza estetica è un’esperienza che per Immanuel Kant è l’esperienza del sublime, il risaputo cielo stellato sopra di noi, ma anche il terribile della natura, le eruzioni, i vulcani. Tutto ciò ci attrae e ci sgomenta al contempo.

Il mare è misterioso, è inesplicabile, scrive il poeta; i campos di Castilla li attraversi per giorni e giorni, non ti stancano mai e ti turbano insieme Il bello è attraversato da potenti forze dinamiche, c’è anche un troppo forte che fa dire al filosofo Peirce che nella parola greca Kalon c’è il bello, ma almeno anche il non bello, anche il suo opposto

Kant ci ricorda che nel terribile della natura noi intuiamo una finalità che ci supera; non ci siamo solo noi, non c’è solo il nostro piccolo Io, ma c’è anche un’apertura su quel Tu che per Martin Buber può essere il mondo tutto, la vita tutta, anche quella inanimata. Forse è un momento di apertura ad un senso di comunione anche terribile che ci fa contemporaneamente sentire maggiormente noi stessi, ma allo stesso tempo ci disidentifica da noi stessi, una dissociazione che ci fa percepire come più allargati.

Voglio ribadire che non stiamo parlando di estetismo, ma di un’esperienza estetica così come ricorda Beethoven a Goethe, quando questi dopo aver ascoltato una sinfonia beethoveniana, commenta: “Oh, ma che bella”. Beethoven si infuria, risponde a Goethe che mai si sarebbe aspettato un simile commento dal più grande poeta tedesco, perché nelle sue musiche c’è qualche cosa di sconvolgente, di sofferto, anche laddove si esprima dolcezza e tenerezza; c’è complessità, palpita il dramma e il movimento della vita, non zuccherini, non vanità assimilabile all’estetismo del collezionare quadri senza sentire il pieno che emana da essi, senza percepirne davvero la luce, e quindi necessariamente, anche l’ombra. Sappiamo tutti che anche i nazisti erano cultori d’arte, ma forse ora potremmo meglio dire che affogassero nell’estetismo, collezionando gioiellini da esibire come orpelli del potere.

Non c’era l’anima, che non strepita per vantaggi materiali e che non reputa gioia e tristezza due sentimenti diversi.

Scrive Nazim Hikmet a proposito di Don Chisciotte:

Il cavaliere dell’eterna gioventù

Seguì verso la cinquantina

La legge che batteva nel suo cuore

Partì un bel mattino di luglio

Per conquistare il bello, il vero e il giusto…[3]

Il bello, il vero e il giusto, che sono compagni di strada dell’anima.

Credo che tutte queste considerazioni ci facciano meglio intendere l’idea di Josip Brodskij per cui l’estetica è ancilla dell’etica, forse estetica ed etica sono la stessa cosa, come lo era per gli antichi per cui Khalos stava assieme a Kagathos; il bello è anche bello morale, è connesso con l’armonia dei comportamenti tenendo presente che l’armonia è tra gli opposti psichici. Proprio per questo tipo di considerazioni, Schopenauer riteneva che nell’esperienza estetica fossimo migliori, perché in essa conteniamo gli opposti. È in quest’ottica che assume senso ciò che Dostojewski fa dire al principe Miskin “ La bellezza ci salverà”…Ecco, è una bellezza che si nutre di tutte le profonde complessità che abbiamo cercato di descrivere.

Tutto questo ci riguarda come terapeuti.

Basti pensare a molti momenti delle terapie o delle supervisioni. Abbiamo tutti in mente molti o pochi frangenti in cui sentiamo che attiva dentro di noi una ferita, una vulnerabilità; vivere quel dolore, quella ferita spesso non comporta solo sofferenza, anzi, ci fa anche bene, possiamo provare anche gratitudine per esserci sentiti riconosciuti. E sentiamo anche una tensione verso la giustizia, affinché non ci si approfitti dell’umana vulnerabilità. Sono i momenti in cui sentiamo che ci siamo pregiudicati la gioia per odio alle nostre pene, come ci suggerisce Antonio Machado:

Ama tu alegría

Y ama tu tristeza

Si buscas caminos

en flor en la tierra.[4]

 

Ama la tua allegria

e ama la tua tristezza,

se cerchi la via

dei fiori sulla terra

 

Oppure, quando un paziente sente con stupore che forse non ha mai davvero prestato attenzione a sua moglie, non l’ha mai davvero ascoltata, perché troppo interiormente inflazionato dalle sue angosce abbandoniche; la consapevolezza di ciò lo scuote, lo allarma per le sue disattenzioni passate, lo addolora per il suo egoismo egocentrico, ma lo rende anche molto contento, come se si stesse confrontando finalmente con qualcosa di grande che lo desta dal piatto torpore in cui si sentiva da troppo tempo precipitato.

giorno dopo giorno

anno dopo anno,

possono passare senza di lei[5] …l’anima (ndr)

Ma rimaniamo in ambito artistico, per sostenere che l’arte non si limita ai musei, alle “supermostre”, alla pubblicità, allo spettacolo; l’arte è anche e soprattutto un fenomeno antropologico, perché l’uomo ha sempre fatto arte, ha sempre cercato di capire il mistero fuori e dentro di sé, di sondare l’infinito, l’illimitato, cercando di mettersi in contatto con qualcosa di trascendente attraverso il sacro, le religioni e l’arte stessa. Aspirare all’infinito, al grande, al miracoloso, come sostiene Vincent Van Gogh in una lettera al fratello Theo.

Già i primi uomini di Altamira, uscendo dalla caverna, vedevano il bisonte e rientrando nelle grotte lo dipingevano. Questo probabilmente non tanto, o non solo, per un fine decorativo; sicuramente per un bisogno espressivo, ma più precisamente forse perché c’era un bisogno di conoscenza.

L’arte quindi risponde sin da subito ad un bisogno di conoscere, definire, precisare, mettere a fuoco, carpire il segreto di quello che viene visto, di ciò che del reale colpisce, affascina, turba e meraviglia: attraverso l’arte e attraverso le diverse espressioni artistiche si cerca di inserire in un vocabolario specifico di quell’arte ciò che colpisce del mondo. Anche usando dei sacchi di juta, stai facendo il tuo personale canto sacro della terra. Interpreti la forza della terra.

Manuel Alvar, in un suo saggio, sostiene l’identificazione del poeta spagnolo Antonio Machado con la terra dei campos de Castilla dove l’identificazione con quella stessa terra diviene lo strumento principe della sua conoscenza.

Ancora, Elliott sostiene che Dante scriva la Divina Commedia per conoscere meglio Beatrice, per comprendere il senso della sua vita e della sua morte, per affrontare un’assenza; Dante deve farsene una ragione e spiegarsi la sua vita, e lo fa scrivendo la Vita Nova e La Divina Commedia.

Questa esigenza la sentiamo tutti, tutti abbiamo una struttura poetica della mente senza necessariamente essere “poeti laureati”; anche noi raccontiamo le nostre vicende in terapia, in supervisione, per metterle meglio a fuoco, per andare al di là del fatto nudo e crudo ed accedere ad un senso, a una conoscenza intrisa di vissuto, per darci una qualche ragione dei nostri affanni e dei nostri tormenti.  Ma di che conoscenza stiamo parlando?

Le arti, la poesia, nello specifico delle parole, non sono una forma di conoscenza che veicola un sapere forte; è diversamente un sapere che preserva l’abbondanza della vita, come avviene anche nelle nostre sedute. Già Dante sosteneva che la poesia è il linguaggio di ciò che ancora non si sa, quindi è un linguaggio che cerca, cerca una conoscenza: potremmo dire che forse è un linguaggio che conosce mentre parla, ma non sa ancora quello che vuole dire. Questo ricorda il bel passo di Marina Ivanovna Cvetaeva.

Il poeta dice e non sa perché dice quello che dice

Una verità che non bisogna neanche inseguire perché è’ senza ritorno

La verità del poeta è un sentiero dove le tracce vengono subito nascoste dal verde

Non lascerebbe tracce e conseguenze- anche per lui, se potesse camminare dietro a sé stesso.[6]

Questo ci riguarda come terapeuti, pazienti, persone, che non vogliono aderire alla maniera, al manierismo.

In questi accenni di Marina Cvetaeva è implicito il principio terapeutico che un terapeuta non si senta afflitto dal bisogno di sapere troppo, né tantomeno dall’esigenza di fissare ciò che si sa, ciò che per un attimo si sa. L’intuizione e la consapevolezza sono vive se fugaci, transeunte, non si possono bloccare in affermazioni pedisseque come “il mio analista mi ha detto che quando faccio così è perché con i miei genitori mi è successo questo e quest’altro e quindi ciò mi causa questo quest’altro ancora”.

Giammai.

A questo tipo di conoscenza si riferiva Donald Winnicott definendola “chiacchiere”.

La conoscenza non deve essere reificata in un sapere di sé che tende a diventare monolitico; questo risponderebbe ad un nostro bisogno di certezza….certi di tutto e curiosi di niente, il contrario di ciò che ci suggerisce Wislawa Szimborska: ma allora l’anima non sta presso di noi!

Il nostro principio sostiene che l’anima è meglio stia presso di noi, ma più ti ritrovi possessivo, più lei scappa lontano. È quasi inutile ricordare che, se vuoi sapere troppo, fissare un sapere, non ti aprirai alla differenza, all’alterità, interna ed esterna, che è si paurosa, ma anche vivificante.

Ci ricorda Antonio Machado in una molto citata poesia:

Caminante, son tus huellas

el camino, y nada más;

caminante, no hay camino:

se hace camino al andar.

Al andar se hace camino,

y al volver la vista atrás

se ve la senda que nunca

se ha de volver a pisar.

Caminante, no hay camino,

sino estelas en la mar.

Viandante, sono le tue impronte 

il cammino, e niente più, 

viandante, non c’è cammino, 

il cammino si fa andando.

Andando si fa il cammino,

e nel rivolger lo sguardo

ecco il sentiero che mai 

si tornerà a rifare.

Viandante, non c’è cammino, 

soltanto scie sul mare.[7]

Il cammino, simbolo della vita, ma anche della vita psichica e della nostra processualità terapeutica, lo si onora andando, stando sulla via e garantendo viabilità, movimento, secondo quelli che sono anche i principi taoisti.

Fermare l’attimo è segno del nostro individualismo che vuole essere proprietario sempre di qualcosa, piuttosto che stare nel flusso, in una comunione che diviene e si trasforma silenziosamente.

Se volgiamo lo sguardo a ciò che già sappiamo, facciamo terapie manieristiche, ci ripetiamo, fissiamo il movimento, camminiamo sulle nostre impronte e non ci muoviamo da li, confermando tutte le intuizioni psicoanalitiche, ma non solo, secondo le quali la fissità è malattia. Le nostre terapie sono qualcosa che diviene mentre si opera, un qualcosa che non si conosce prima.

Marina Cvetaeva ci propone di dire senza sapere cosa stiamo dicendo, arrendendoci al preconscio, al funzionamento poetico della mente, al sogno diurno o notturno che sia: allude quindi ad un sognare l’esperienza, ad un conoscere sognando.

Ricordo Danilo Dolci quando affermava che ciascuno cresce solo se sognato, ripensando a Josif Brodskij quando, insignito del Nobel, affermava che non c’è solo il sapere per cognizione, ma anche e soprattutto quello della visione e della profezia in cui si colgono le cose nel loro insieme a differenza dal rugginoso pensiero rimuginativo.

Ma soprattutto, per crescere, c’è bisogno di un terapeuta che sappia sognare, un terapeuta che sappia essere un po’ artista, nel senso dello stare molto in ascolto, che sappia farsi toccare. Artista nel senso suggerito da Henri Bergson, come appartenente ad una certa categoria di persone che si disconnettono abbastanza naturalmente dal reale (che oggi potrebbe essere l’eccesso di informazioni, l’infodemia, reale forse divenuto persecutorio in tempo di pandemia da virus), con le antenne puntate verso il sublime: capace appunto di lasciarsi toccare dalla vita, capace di stare al mondo in modo estesico, come la capacità del poeta di stare e vivere nell’emergenza, sosteneva Pasolini.

Capacità che implica un rischio, cioè di “andare un po’ fuori di testa”, di soffrire troppo.

Ma è anche vero che se c’è poco della realtà interiore ed esteriore che ti tocca, potrai anche fare arte, ma sarà entertainment, decorativismo, sterile manierismo.

Questo non è un problema solo artistico: infatti sappiamo che essere pazienti spesso significa avere, una grande quantità di cenere che ricopre un nucleo che è stato fortemente esposto, troppo esposto. Allora poi c’è stata la chiusura, la deformazione: un po’ tutti siamo diventati i bottegai del Don Chisciotte di Hikmet, il cui cuore non ha il nobile peso del cavaliere dell’eterna gioventù, e che anzi non riconosce più il sensibile e la passione Le difese ci banalizzano, come minimo quando non peggio, ci rendono come la pietra del San Michele di Giuseppe Ungaretti.

Questo ha interferito con la possibilità di ascoltare, fare attenzione, e non rimuginare. Dobbiamo poter portare noi stessi e i nostri pazienti ad essere esposti bene, esposti al dolore che crea movimento psichico, invece, meno, molto meno, esposti all’angoscia che chiude.

E qui c’è qualcosa di paradossale, perché come asseriva Sandor Ferenczi, siamo guaritori che curano ferendo, conteniamo il dolore, cercando di riconoscerlo e riconoscendo anche il nostro; ed in più cerchiamo di farne qualcosa, non lottando, si spera, contro di esso. Perché comunque il dolore vorremmo evitarlo, evacuarlo da qualche parte, su qualcuno o su qualcosa. Cerchiamo di dargli un senso, forse occorre imparare a viverlo, non per puro masochismo. Forse, come sostiene Wilfred Bion, pensare il dolore significa viverlo.

Per pensare davvero il dolore devi averlo vissuto con la presenza affettuosa di qualcun altro, abbastanza artista da riconoscere, con Munch, che l’arte e la bellezza nascono dal dolore e dalla gioia insieme. Curiamo la ferita primaria ferendo, per produrre bellezza nella vita, consci che forse il dolore non si elimina, forse neanche lo si trasforma, solamente forse lo possiamo rendere solubile in qualcos’altro. Ci soffermiamo sul dolore, non per fare del dolorismo, ma perché esso è una sorta di testimonianza antropologica della nostra vulnerabilità e dei nostri limiti, testimonianza quindi che tiene viva l’identità di sé.

Vivendo il dolore in condizione di maggior sicurezza lo mescoliamo con la terapia stessa, lo rendiamo solubile nella vita, con nuove prospettive, magari scoprendo che del dolore puoi anche sorriderne, che “la vita è una tragedia, ma non facciamone un dramma”.

E poi, diventiamo ciò che abbiamo accettato di patire, ma confortati dai poeti.

Me dijo una tarde

de la primavera

Si buscas caminos

en flor en la tierra

mata tus palabras

y oye tu alma vieja

Que el mismo albo lino

que te vista sea

tu traje de duelo,

tu traje de fiesta

Ama tu alegría y ama tu tristeza,

si buscas caminos en flor en la tierra

 

Mi disse una sera della primavera:

Se cerchi vie in fiore sulla terra,

Uccidi le tue parole e ascolta la tua anima antica

Il bianco lino con cui ti vesti,

sia il tuo vestito di dolore,

e il tuo vestito della festa.

Ama la tua allegria e ama la tua tristezza,

se cerchi strade in fiore sulla terra.[8]

La stessa intuizione, dalla Spagna alla Polonia in contesti temporali e storici diversi.

Quindi non patire per puro masochismo, ma come legge necessaria della vita, legge estetica, legge individuante.

Il paziente e il terapeuta che ho in mente sono una coppia che cerca di recuperare una sana esposizione, che ascolta, si esprime e cerca di mettere in una buona forma ciò che viene espresso: questo con l’obiettivo di cercarsi e capirsi maggiormente, reciprocamente, dando origine alla vitalità del processo. Questo processo vitale, in cui il dolore e il negativo (nelle loro svariate forme) tengono viva l’identità di sé, è una specie di opera aperta e sempre in divenire, (ricordiamo: mai volgere lo sguardo indietro per riaffermare intellettualisticamente ciò che già sappiamo, sarebbe un supposto sapere, ossia non vivificante); opera che può ritornare sui propri passi, si può bloccare, si può approfondire, con movimenti carsici, non lineari.

In tutto questo processo, è evidentemente implicata la questione affettiva e amorosa, dell’attenzione, del rispetto, del coinvolgersi e partecipare, del riconoscere dentro e fuori di sé.

Conoscenza senza amore è una pratica arida. Conoscere è co-nascere, in francese co-naissance, perché non posso riconoscere qualcosa in te se prima non ho riconosciuto quello che passa in me, se non ci metto qualcosa di mio, quindi riconosco fuori e dentro.

Faccio diagnosi, (da dia-gnosis), conosco attraverso, attraverso di me, i miei ricordi, gli echi e le voci, la vita di fantasia e l’immaginazione non catalogabile, nell’ordine del mistero; quindi non diagnosi oggettivante in cui mi situo ad osservare un oggetto fuori di me per catalogarlo, definirlo, possederlo una volta per tutte.

Il possesso non è amore.

Porgo me stesso, quello che conosco di me nell’incontro con il fuori dell’altro, offro me stesso come cassa di risonanza/testimonianza al paziente: ecco quindi, che io conosco insieme al paziente anche un pezzo di me stesso che risuona e  mi offro, offro la possibilità – associativa, preconscia sognante, giocante – al paziente di conoscersi lui, senza che gli insegni io, chi  lui o lei è. Si conosce in una relazione dove il tu riguarda il me. Conoscere è co-nascere qui, rinascere nella sempre nuova percezione delle cose. Un Sapere che nasce sorgivo, dalle parti più difficilmente dicibili di noi stessi, sapere vivificante, non intellettualistico.

Odio il sapere che non mi accresce e non mi trasforma, scriveva Goethe.

Questo mi sembra un modo di conoscere delle arti e del processo terapeutico, dove forti sono gli influssi anche del pensiero dei trovatori, che hanno insegnato a conoscere attraverso l’amore; ai  loro tempi, questa forma di conoscenza volta a nobilitare l’uomo attraverso l’amore non possessivo, conviveva con altre forme del conoscere del pensiero scientifico di allora, quando ancora non esisteva lo scientismo, inteso come tutte le forme mentali che pretendono di esaurire e dare risposta al mistero della vita. Con i trovatori nasce una forma artistica nuova, che come tutte le arti, aggiunge qualcosa alla vita.

Quando qualcuno chiede cosa rappresenti un certo quadro, dovremmo rispondergli che forse non deve necessariamente rappresentare qualcosa (ossia non deve ricondurci a qualcosa che già conosciamo…maledetto bisogno di certezze): no, l’arte aggiunge alla vita, e anche questo è interessante per noi terapeuti. Noi scienziati, poeti medievali della psiche, che non facciamo caso alla distinzione tra saperi e forse, quando va bene, contribuiamo ad aggiungere alla vita, produciamo conoscenza mossa da strani demoni interni, mossa dal preconscio di una persona che fa ricorso a tutto sé stesso proprio perché persona che usa i “ragionamenti sragionanti” di Montale e che producono conoscenza viva, in movimento, in trasformazione.

Poi c’è la noia, per Baudelaire, che ingoia tutto in uno sbadiglio, ed è il funzionamento intellettuale scisso (D.Winnicott); troppa memoria e troppo desiderio (W. Bion), le informazioni, il sapere saputo, sapere già tutto e sparare interpretazioni alla luce di questo, oppure parlare  per stare all’altezza di aspettative professionali, ma senza essere dentro quello che dico: scisso.

Io che ho la verità, come un pacchetto, ma non sono in verità (Gesù).

Certi di tutto, curiosi di niente.

Conoscenza piatta, ferma.

La morte dell’anima.

Sapere spento, inutile.

Del resto, mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività, ribadisce Goethe.

Quindi c’è un sapere che avvelena la vita, perché la blocca; sa già tutto, ha l’ansia di possesso di una verità stabilita una volta per tutte, a cui aggrapparsi, un sapere che non circumnaviga la verità, ma la punta dritto insterilendola con teorie chiuse e rassicuranti per chi le usa, una sicurezza sul cui altare si sacrifica la pulsione di vita che invece tende a non star ferma, ad aprire, a suggerire nuove strade.

  1. Nietzsche afferma che ci manca un sapere che sia un’arte terapeutica della vita: la psicoanalisi, ma non solo, nelle sue forme migliori anela ad essere tale arte terapeutica che non dovrebbe proporre apprendimenti vuoti, ossia non dovrebbe generare noia.

È il rischio moderno delle conferenze, dell’informazione continua, dei milioni di parole che vengono scritte al giorno d’oggi, degli slogan, dei cliché. La vera conoscenza è, ribadiamolo, co-naissance, ossia nascere insieme, rinascere continuamente nella percezione sempre nuova delle cose.

Un sapere sorgivo, all’istante, da non possedere, tollerando il vuoto, l’assenza connaturata ad ogni acquisizione, per poter magari riscoprire e conoscere ciò che hai già conosciuto dieci anni fa; l’importante è però che ogni volta siano esperienza viva e non mandata a memoria, un sapere per cognizione.

E questi sono i momenti in cui qualcosa ci tiene desta l’anima,

Sono i momenti caratterizzanti quel contro-territorio che è l’arte, un ordine secondo, come scrive Morin, senza il quale la vita avvizzisce. E sono sicuro che analoghe considerazioni possono essere svolte per certi momenti artistici in terapia, in supervisione, quando, laddove meno te l’aspetti, si è colpiti da sorgive zampillanti conoscenze, che tutti intuitivamente sappiamo distinguere dalle chiacchiere intellettuali, momenti in cui

A distinguir me paro las voces de los ecos

Y escucho solamente entra las voces, una.

A distinguer le voci dagli echi mi soffermo

e ascolto solamente, tra le voci, una sola[9].

Le arti fanno scienza delle proprie sensazioni, usano materiali differenti che vengono disposte secondo preferenze sensoriali, non secondo un ordine del discorso concettuale e a priori.

È per questo che l’arte ci colpisce, non certo per i ragionamenti, ma perché è un fulmine, un’epifania.

La psicoanalisi stessa, quando non affetta da intellettualismo, è in fondo scienza, arte che usa le sensazioni in maniera ermeneutica.

Arte e analisi sono attraversate da analoghi dilemmi.

C’è una comune e forte contrapposizione con la conoscenza ordinaria basata sulle informazioni, perché c’è conoscenza del reale basata su tutto un altro ordine del discorso, senti che comprendi in un battibaleno, con i sensi, gli affetti, con tutto un misterioso te stesso: se osservi le acqueforti di Otto Dix e di Goya, in un battibaleno comprendi la guerra e senti bellezza e tormento.

In questo senso l’arte ti porta via dal grigiore dei giorni, dalla routine, come sentii dire una mattina in una trasmissione su radiotre.

L’arte è simile alla scienza anche per l’aspetto che l’arte è sempre in crisi; il grande artista, infatti, arriva spesso a distanziarsi dalla propria opera e a tendersi sempre verso qualche cos’altro, mette in crisi continuamente la propria opera allo stesso modo che la scienza, in un certo senso dubita sempre di sé stessa, è sempre tormentata dalle domande ed è bene che sia così perché il rischio dell’arte e della scienza è quello della istituzionalizzazione, dello scientismo e del manierismo; ossia bearsi delle proprie risposte, dei propri stilemi, degli slogan psicoanalitici che oggi abbondano, sedercisi sopra e affezionarsi alla poltrona, come certi tristi politici e non solo.

Qui si capisce meglio il richiamo di Pasolini a frequentare di più l’emergenza, un certo stato di crisi, per tenersi in tensione creativa, sentirsi vivi.

In questo senso chi si ferma è perduto, al andar se hace el camino.

È evidente come questo ci riguardi da vicino, con la nostra tendenza, forse inevitabile, dato che l’anima trova molti motivi per filarsela via alla chetichella; ci riguarda per la nostra tendenza a intellettualizzare, a scansarci dal condividere il dolore usando fatti noti della vita del paziente e ricondurlo concettualmente a quei fatti.

Facciamo manicomietti del sapere, eleganti, moderni, per non farci mettere in discussione.

Allo stesso modo, anche in una relazione psicoterapeutica, se il terapeuta immagina di sapere tutto di sé e dell’altro, ecco che officia un rito stantio: non c’è movimento, il paziente è sempre uguale a sé, il paziente lo “conosci” perfettamente, ma non succede niente, quindi è importante che ci sia una quota di emergenza sempre, anche se questo destabilizza un po’.

C’è il rischio che un sapere troppo di sé, del paziente, sia hybris, operazione di potere, controllo per non farsi mettere in discussione: per esempio nei momenti di enactment, in cui ci si rifugia nell’emisfero sinistro per non riconoscere in sé alterità spiacevoli, non ci si può riconoscere reciprocamente nei propri dolori fatti di vergogna, colpa per aver ferito, non aver capito etc. etc…Ecco le varie impasse terapeutiche, per aver voluto fuggire l’ombra, quell’ombra che molti artisti hanno sempre messo al centro della loro opera.

Riprendendo un’immagine artistica, per un pittore il terrificante, dice Deleuze, non dovrebbe essere la tela vergine, bensì le immagini del passato. Perché possa sbocciare qualcosa di nuovo, l’artista deve combattere e rompere i cliché. In tal senso la necessaria confusione che regna nello studio di certi artisti, confusione che – come ricorda Yves Bonnefoy in una intervista a Il Manifesto –

sembra essere un riflesso del processo che passa attraverso fasi di caos…il caos-germe. È nel caos che si abbandonano i cliché, ma anche tutto quel che ha a che fare con la volontà. È grazie a questa perdita che il germe può cominciare ad attecchire.

Nel migliore dei casi questi lasciare la presa che attraversano il caos permettono di trovare quel che si cercava. Per arrivarci è stato prima di tutto necessario sbarazzarsi dell’idea di trovarlo o cercarlo.

 

In un certo senso, solo perdendosi ci si ritrova, solo passando per la selva oscura, solo facendo la resa di cui ormai trattano anche psicoanalisti contemporanei come Ghent.

Forse molte cose accomunano la processualità creativa degli artisti e quella che D. Winnicott definiva la appercezione creativa della vita, che considerava il bene più prezioso: magari rimanendo anche un po’ nevrotici, un po’ bambini regrediti, adulti un po’ borderline, magari non tutti d’un pezzo, capaci di non avere troppa volontà, troppi programmi nella testa, troppo sapere codificato e sempre uguale a sé stesso.

Arte e psicoanalisi come contro-territori capaci di stare a contatto dell’alterità già dentro di noi, figlia di quel misterioso e ineffabile sé-germe, noto anche a una certa psicoanalisi.

Alterità necessaria a stabilire la giusta dialettica con la tradizione, in assenza della quale la tradizione si solidifica, si fissa, impedendo l’accesso allo stupore, alle domande che ci fanno chiedere, come a Lucio Dalla:

Cosa sarà

Che fa crescere gli alberi e la felicità

Che fa morire a vent’anni

Anche se vivi fino a cento

Cosa sarà a far muovere il vento

A fermare un poeta ubriaco

A dare la morte per un pezzo di pane

O un bacio non dato….

Cosa sarà questo strano coraggio

Paura che ci prende

Che ci porta a ascoltare

La notte che scende

Oh cosa sarà

Quell’uomo e il suo cuore benedetto

Che è sceso dalle scarpe e dal letto

Si è sentito solo

È come un uccello che in volo

È come un uccello che in volo

Si ferma e guarda giù[10]

Nella processualità creativa del nostro lavoro i momenti salienti sono, come nell’arte, figli di destrutturazioni finalmente tollerate, in cui si abbandonano le immagini note del solito sé, per avere accesso ad un registro estesico, impregnato di stupore con cui guardi a diversi aspetti che ti riguardano come se fosse la prima volta, con una chiara intensificazione della vita psichica.

Questa linfa profonda accomuna il discorso terapeutico e quello artistico, anche se per entrambi c’è il rischio della noia, soprattutto quando l’esprimersi non nasce da una necessità, da un’urgenza, ma da un bisogno di chiacchiera, di intrattenimento, di indottrinamento.

Siamo sempre ad un crocevia tra cambiamento e stagnazione

Ma cosa si cambia, come si cambia?

Se penso a me stesso, ma anche a persone che credo di conoscere un po’ nell’intimo, mi viene da dire che le angosce sono sempre le stesse, da bimbo non viste, da ragazzo intuite, da adulto viste e riviste, ma sempre quelle, non vanno via, da qualche parte rimangono anche se non si fanno sentire: anche le cose della vita che provocano dolore sono sempre quelle, anzi, con l’età se ne aggiungono delle nuove portate dall’incessante flusso della vita.

Al di là dei singoli irripetibili casi, quello che voglio dire è che credo che tanti contenuti intimi non scompaiano, rimangano lì, ma meglio individuati, più precisi, con sfumature sempre più ricche grazie ad un lavorio conscio e inconscio,  che diventa sempre più intenso grazie al lievito della terapia che infonde più sicurezza; ma non solo, perché il lavorio psichico, anch’esso figlio dei momenti in cui l’anima sta presso di noi, aumenta quando siamo nell’esperienza estetica che è un momento individuante e quindi, per Gustav Jung, di guarigione.

L’arte è un momento ineffabile, intangibile, misterioso, perché è davvero misterioso che si possa provare un’intensa emozione, a volte destabilizzante, di fronte a certi buchi, segni astratti, colate di pittura o un viso straziato e girato su se stesso.

Si rimane invischiati in qualcosa di indicibile, di arcano, qualcosa che fa sentire che per un attimo non sei più il te stesso abituale, quello comodo, ma ti sei identificato con qualcosa di nuovo, di diverso, che riconosci sotto forma di immagine. In psicoanalisi si chiamerebbero “events moments”, cambiamenti di stato di quel momento lì, senza sapere bene quanto si rimarrà fedeli a quel momento, perché poi magari tutto ciò evapora, ma il momento individuante c’è stato, nella fruizione artistica e in terapia.

Diventiamo altri per un attimo, poi si ritorna all’ovile e poi si cambia di nuovo, magari davanti a un paesaggio struggente, qualcosa fa irruzione dentro di noi e certe bellezze sono anche dolorose.

Tutto questo per dire che il cambiamento non è un’essenza, il cambiamento non è per sempre, si è sempre sé stessi, ma il territorio si è ampliato, è come se noi fossimo un collage, e questo collage si trasforma, si arricchisce di nuovi elementi a partire da elementi fissi precedenti…anzi questo collage assomiglia, se tutto va bene, ai quadri del castello di Hogwarts che non stanno mai troppo tempo fermi, si spera che abbiano la forza di certi assemblaggi dell’arte contemporanea.

Dice bene, Francesco Guccini ne La canzone dei dodici mesi, “diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale”.

Perché la terapia, se va bene, aggiunge alla vita, come l’arte, crea un’opera aperta e se cambia, cambia il chiuso, il fisso, riapre i giochi fatti una volta per tutte, aumenta la sensibilità aumentando l’esposizione al dolore e paradossalmente la tolleranza al dolore, sottraendo angoscia.

Permette il recupero del passato e sempre, paradossalmente, anche il suo contemporaneo dimenticarsene, nutriti dal riconoscimento del passato per poterlo superare senza averne sempre addosso il peso.

Si va indietro per andare avanti, si dipende per diventare al tempo stesso più autonomi.

Si frequentano di più le proprie ombre per trovare più grazia e più luce ricordando che gli artisti prendono l’ombra su di sé, “vestiti d’ombra composta” diceva Leonardo, ma per ritrovare lo slancio dell’emozione primigenia.

Il cambiamento non è una pretesa restituito ad integrum che integrum non è mai stato; no, passa per un recuperare l’ombra che non avevamo riconosciuto, ombra che ci ricorda che siamo anche e soprattutto ciò che ci manca.

Il cambiamento, secondo H. Loewald, passa per un rapporto tra Io e realtà il più articolato possibile, dove la realtà diventa meno soffocante se riesci a sviluppare più filtri possibili grazie alla vita di fantasia, quella vita che gli artisti sanno, con le loro immagini e il loro linguaggio, attivare così potentemente: è per questo ci sono indispensabili.

Se il nostro povero Io si ritrova a combattere la realtà che oggi si sta riducendo a realtà-coronavirus, senza il filtro della fantasia, ecco che soccombiamo, avvizziamo per asfissia psicofisica.

Il cambiamento a me sembra come il cammino della poesia sopra citata di Antonio Machado, nel senso che non c’è una meta finale chiamata cambiamento, il cambiamento è nel mentre… “al andar se hace camino”, solo andando sempre si fa la strada, si rimane in un continuo processo individuante, basta rimanere certi di niente e curiosi di tutto.

Fare terapia è, in realtà, almeno per me, individuazione reciproca, in quanto c’è un’attivazione complessa dell’intera psiche soma di entrambi i partecipanti all’impresa.

Tale attività è interpretata da terapeuta e paziente alla luce dei loro personali talenti, dei loro personali canti e discanti (Ivano Fossati); la piega che prenderà non è preventivabile, è sempre unica.

Se noi riusciamo a interpretare personalmente questo spartito ed il paziente impara a fare altrettanto, sarà inevitabile imbattersi nell’incontro con nuovi pezzi di sé o almeno esperiti come tali, dando così felicemente ragione alla visione della filosofa spagnola Maria Zambrano per la quale noi siamo tutti esseri nati a metà, esseri incompiuti che hanno il compito di continuare a nascere. Prolungando potenzialmente all’infinito l’età evolutiva.

L’arte terapeutica della vita non è una tecnica che richiede di compiere atti ispirati da protocolli standard: no, l’arte terapeutica della vita chiama a raccolta le nostre capacità di interpreti e non tanto di esecutori, perché, come ben sappiamo, qualsiasi interpretazione di uno spartito, di un testo, ci smuove e ci arriva quando sentiamo che quella interpretazione non è solo frutto di un sapere oggettivo, di un talento, ma si è arricchito della personalità e dell’accidentato percorso di vita dell’interprete.

[1] Wislawa Szymborska, Opere, a cura di P. Marchesani (Milano, Adelphi 2008)

[2] Simone Weil, Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, (Milano, Adelphi, 1996)

[3] Nazim Hikmet, Poesie, trad. J. Lussu e V. Mucci, (Newton Compton Editori, 2005)

[4] Antonio Machado, Poesie, Proverbios y cantares, a cura di C. Rendina, (Newton Compton, Roma, 1971)

[5] Wislawa Szymborska, Opere, a cura di P. Marchesani (Milano, Adelphi 2008)

[6] Marina Ivanovna Cvetaeva, Il poeta e altre poesie, a cura di P. Galvagni, (Pistoia, Via del Vento, 2006)

[7] Antonio Machado, Poesie, Proverbios y cantares, a cura di C. Rendina, (Newton Compton, Roma, 1971)

[8] Antonio Machado, Poesías completas, Edición Manuel Alvar, (Austral editorial, Madrid 2010)

[9] Antonio Machado, , Poesías completas, Edición Manuel Alvar, (Austral editorial, Madrid 2010)

[10] Lucio Dalla, Rosalino Cellamare, Cosa Sarà, (1979)

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Campoli – Eppure ogni tanto qualcosa ci desta l’anima