FAMIGLIE

Febbraio 2016: il dibattito politico in Italia è fortemente centrato sulla stepchild adoption.

Grazie e attraverso una sollecitazione proposta dal collega e amico Franco Merlini si è attivato, all’interno della nostra redazione, uno scambio di opinioni inerenti tale tematica (e tante altre ad essa inevitabilmente connesse). Tematica che tocca tasti delicati e profondi di fronte ai quali crediamo che, come terapeuti, dobbiamo sentirci chiamati in causa e dire la nostra.
Abbiamo ben accolto quindi il suo invito e qui di seguito riportiamo gli scambi emersi.
Cogliamo l’occasione per ringraziare e salutare Antonino Ferro, menzionato più volte all’interno dei nostri scambi.

Franco Merlini

Carissimi, credo si debba conoscere (e magari scriverci su qualcosa) la posizione di Antonino Ferro, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana e autorevole psicoanalista, pubblicata su L’Espresso del 9 febbraio 2016.

(http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/02/09/news/lo-psicologo-il-sesso-dei-genitori-irrilevante-l-idea-di-coppie-gay-con-figli-e-ancora-un-tabu-1.249479)

Fermo restando la salvaguardia dei diritti sociali delle coppie omosessuali e dei bambini in materia civile, mi sembra che quello che dice Ferro sulla questione dell’identità e la funzione genitoriale (e soprattutto sul cosiddetto utero in affitto) sia non vero e alquanto pericoloso per tutti noi che facciamo questo lavoro. Infatti la clinica (senza scomodare posizioni ancor più cogenti della psicoanalisi) non mi sembra che ci dica ciò che sostiene Ferro.
Purtroppo sto constatando che è una posizione condivisa e questa incoerenza clinico-teorica viene sostenuta (richiamandosi alla SCIENZA) anche da organismi ufficiali tipo il nostro Ordine Nazionale, la Società di Psichiatria ecc.
Immaginando di trovare condivisione al Ruolo e magari uno scambio di pensieri, caramente vi saluto.

Paolo Serra

Partecipo a questi scambi di sicuro non con l’intenzione di seguire la moda del dibattito sulle adozioni, cosa di cui, in questo paese, si sono interessati alcuni illuminati, lasciando la gestione dei bimbi abbandonati nelle mani “caritatevoli” degli istituti religiosi. Almeno finora. Vedremo in futuro.
Vorrei invece partire da uno scritto di Antonio Gramsci del 1918.

Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l’eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini e si libereranno di un pericolo. Vendono già ora le bionde capigliature per le teste calve delle cocottes che prendono marito e vogliono entrare nella buona società. Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite, alle guaste signore che troppo si sono divertite e vogliono ricuperare il numero perduto. I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch’essi, prodotto genuino dell’azienda dei surrogati umani, necessari per tramandare la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti. La vecchia nobiltà aveva indubbiamente maggior buon gusto della classe dirigente che le è successa al potere. Il quattrino deturpa, abbrutisce tutto ciò che cade sotto la sua legge implacabilmente feroce. La vita, tutta la vita, non solo l’attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell’attività, si distacca dall’anima, e diventa merce da baratto; è il destino di Mida, dalle mani fatate, simbolo del capitalismo moderno.

Era già previsto da molto tempo quello che si sta verificando.
Certo, allora non c’era una psicologia perinatale che ha dimostrato come il feto interagisca da subito con la madre e come la madre interagisca da subito con la creatura che ha in grembo. Interessa a qualcuno che questa relazione fondante non possa essere mercificata? A chi? Se un adulto avanza un desiderio e la scienza risponde che “si può fare”, il mercato risponde “Sì!”. Il mercato vince. Non sarà un caso che la pratica dell’utero in affitto è normata positivamente negli USA, in Canada e in Israele…
Il mercato vince dappertutto, anche dove non ci sono norme. Anzi, lì funziona alla grande: centinaia di ragazze segregate per fare figli per altri, donne che donano “spontaneamente” ovuli e/o uteri per aiutare l’amico/a ad avere figli perché impediti, ecc.
La maternità e la paternità, anche surrogata, sono diventati un “diritto” dei grandi, soprattutto se hanno soldi. Il diritto del bambino/a, la sua realtà esistenziale viene dopo. Oppure mai. In fondo, è solo una merce che dovrà anche ringraziare un giorno qualcuno che ha pagato così tanto per averlo!
Potrei fermarmi qui, ma mi sento di prendere posizione anche nei confronti di qualche solone di questi giorni. Vittorio Sgarbi si è pesantemente scagliato contro Vendola per la compravendita dell’utero con cui ha fatto nascere il figlio. Non avrei nulla da aggiungere, se non il fatto che Sgarbi si vanta di aver messo al mondo qualche decina di figli, da tante madri diverse, solo perché “le madri li hanno voluti, non io. Per cui non li ho riconosciuti” (a parte i tre in Italia). Ecco, di fronte ad un padre così, sono sicuro che Vendola sarà decisamente migliore come genitore.

Lorena Monaco

Persone sane e amorevoli (che siano una coppia omosessuale, una coppia etero, single, un gruppo, una comunità o quant’altro) cresceranno bambini sani psicologicamente. Non abbiamo bisogno di studi scientifici per saperlo.
Le forme di famiglia esistenti al mondo sono tante quante le culture che esistono. E su questo non c’è dubbio.
L’Edipo potrebbe essere una costruzione mentale degli psicoanalisti. Non me ne stupirei.
C’è un dato però che non è un fatto culturale e non è una costruzione mentale: per nascere un bambino ha bisogno di un elemento maschile e di un elemento femminile.
Si può oltrepassare questo dato, ignorare, si può far finta che non abbia senso e valore che la nostra origine sia in questo modo orientata. Si può pensare che sia casuale.
Io non credo sia casuale e credo che allontanarsi dalla presa di consapevolezza di questo dato così reale (che riguarda la nostra origine e quindi la nostra storia) porti ad un impoverimento di noi stessi ancor prima che dei nostri bambini che conosceranno sì altri tipi di famiglia (tutto questo sta già avvenendo) ma credo e spero sempre all’insegna del pieno riconoscimento di quella madre e di quel padre biologico così imprescindibilmente fondanti e fondamentali rispetto a sé, alla propria storia e alla propria origine.

Claudio Crialesi

Cari amici, cerco di intervenire in una materia non semplice sollecitata da Franco Merlini.
Prima di tutto una notazione di cronaca. Il tentativo di approvare una legge che regolamenti le unioni civili fuori dal matrimonio riguarda sia coppie etero che omosessuali. In Italia è vietato “l’utero in affitto” e non sono previste adozioni per coppie omosessuali. Si parla solamente di adozione da parte di uno dei due partner del figlio naturale dell’altro (saranno anche una minoranza, ma non sono poche le persone che nel percorso della loro esistenza hanno dato corso ad attrazioni omosessuali che avevano sempre taciuto o represso. Un esempio importante il padre pittore di un noto attore americano).
Visto che in Italia siamo dediti all’arte ermeneutica qualcuno potrebbe pensare che dei partner determinati – e benestanti – potranno recarsi in paesi europei che non pongono limiti alla fecondazione eterologa. Questo sarebbe agevole per una donna, ma non per un uomo!
Non vorrei annoiare con altre divagazioni. Quanto mi colpisce è comunque la sollevazione dei mass-media ed il formarsi immediato di “partigiani” che si affrontano su basi puramente emotive o ideologiche (taciamo sulle tattiche politiche…).
Quanto accade è la misura di un’atmosfera culturale: come una società sia in grado di pensare e quindi accogliere quanto è sentito “dissonante” dalla norma.
Cosa turba molte coscienze?
Prendere contatto con la nostra natura ambigua: siamo il nostro corpo eppure le nostre qualità ci allontanano da quanto appare “naturale”. La potenza creativa e di pensiero dell’animale uomo – a volte terribile – ci affranca da vincoli e necessità. I progressi della medicina hanno permesso di prolungare esistenze prima segnate da malattie acute letali. I progressi delle scienze biologiche permettono e promettono nuove acquisizioni.
Resta scoperto il momento etico. L’uomo può maneggiare fenomeni a lui esterni, ma resta sempre claudicante quando deve affrontare se stesso, quell’infinita alterità chiamata inconscio.
Sono d’accordo con Lorena quando segnala un dato reale: la generazione è comunque frutto di due entità specifiche e distinte. Potrei aggiungere che solo la differenza crea un valore aggiunto: un’altra vita! Viviamo l’epoca della messa alla prova di ogni vincolo. Come gestire questi “babelici” mutamenti? Possibile solo vietare in nome di un riferimento biologico?
Sinceramente non ho risposte chiare. E qui mi permetto di dissentire dalla collega Lorena quando afferma che non ci sarebbe bisogno della scienza o di ricerche per affermare che degli adulti amorevoli – a prescindere dal loro sesso – saprebbero allevare un cucciolo d’uomo. Credo che le poche ricerche in tal senso (riportate dal prof. Schaffer) che dimostrano il buon funzionamento di coppie genitoriali omosessuali potrebbero almeno raffreddare qualche animo accaldato.
Ricordo un mio paziente che viveva col suo compagno che nel corso di una seduta riferiva dei problemi di vita quotidiana. Spontaneamente suscitò un mio commento: “Sa, vorrei far ascoltare quanto mi confida e poi chiedere, secondo voi, sono un uomo e una donna o due uomini oppure due donne?” Sorrise e rimase sorpreso!
La mia esperienza di lavoro e i miei studi mi portano a considerare valido il concetto di “funzioni genitoriali” non incarnate nelle sole differenze sessuali. Una madre amorevole che sveglia un figlio e ripete “dai, preparati per la scuola” mostra il coesistere di tenerezza e norma. Un padre potrà disapprovare, punire, guidare e vivere momenti ludici col proprio figlio. I miei esempi, scontati tra colleghi, sono comunque tributari di rappresentazioni culturali oggi messe in crisi. Circa quarant’anni fa c’era una suddivisione precisa dei ruoli maschile e femminile; la differenza biologica sosteneva aspettative e condotte reciproche.
Queste distinzioni sono entrate in crisi e ci vorrà ancora molto tempo prima che nuovi contenitori culturali renderanno comprensibili i mutamenti dei ruoli genitoriali. Resta insoluto il problema del vincolo, del limite. Dovremmo forse assecondare qualsiasi desiderio? Dovremmo forse diventare i notai di un’arroganza del possibile, supportata dalla tecnica?
La comunità degli psicologi potrebbe dare un contributo importante. Divincolandosi dal possibile uso strumentale e partigiano delle conoscenze acquisite. Proponendo di sostituire agli slogan o alle invettive una pausa, un pensare, per giungere nel tempo necessario ad una soluzione equilibrata.
Ad esempio sarei favorevole non solo all’adozione del figlio del partner (etero o omo che sia), ma anche alla comune adozione anche per coppie omosessuali. Vieterei invece l’utero in affitto. Il mondo è pieno di “disperati” e “farabutti” e in poco tempo ci sarebbe il mercato dei feti on-line!
Non credo si debba accettare a-criticamente ogni nuova possibilità che i nostri simili cercano di realizzare. Importante mantenere attivo un pensiero critico. Quanto mi preoccupa del nostro tempo è la trasformazione dei mezzi in fini. La potenza tecnologica ed economica sollecita la nostra bramosia. Possiamo riempire gli armadi di oggetti, ma alla fine non riusciamo ad incontrare le verità che abbiamo dentro! Filosofi e psicoterapeuti sembrano gli ultimi a voler testimoniare un pensare su noi stessi; un invito a non correre sulle strade del godimento.
Ricordo sempre con nostalgia i pensieri di un Pasolini. Poteva sorprendere per le sue convinzioni anti-moderniste se non conservatrici (era contro il divorzio e l’aborto), ma almeno ci aiutava a trovare buoni argomenti per confutare le sue idee!
Franco Merlini ci ha invitato in particolare ad una riflessione professionale su questi temi e ha fatto esplicito riferimento ai concetti della psicoanalisi. Credo che le teorie psicoanalitiche siano ancora tramandate come delle scoperte relative ad un funzionamento mentale di tipo biologico. La pratica analitica come evento empirico permette di raccogliere conoscenze, ma abbiamo una scarna standardizzazione procedurale. Credo che solo lo scambio fecondo con altre discipline (umanistiche e biologiche) potrà suffragare concetti e teorie.
Difficile sintetizzare temi vertiginosi, ma intendevo almeno alludere a quale complessità ci riferiamo. Ad esempio la condizione edipica incarna il confronto generazionale e il dover fare i conti con qualcuno (un adulto) che esisteva prima di noi, che ci ha allevato (fornito cure che non potevamo procurarci da soli). Questi adulti – i genitori – hanno favorito oppure ostacolato delle esperienze; ci hanno tramandato delle eredità materiali e immateriali. La vita con tali adulti e la dipendenza prolungata dell’animale uomo mobilita desideri, angosce, emozioni (per es. possesso, gelosia, riconoscenza, rivalità, emulazioni, ecc.).
Siamo sicuri di poter affermare “scientificamente” che quanto ho sintetizzato sarebbe naturalmente assicurato da due genitori eterosessuali, mentre sarebbe alterato in modo pernicioso nel caso di una coppia omosessuale? Il desiderio di concepire un figlio come atto d’amore in una coppia eterosessuale è “biologicamente” diverso dal desiderio di allevare un bambino di una coppia omosessuale? Siamo sicuri che la psicoanalisi spieghi condotte e competenze fuori dalla storia? Al momento sono convinto che abbia compreso come l’uomo riesca ad incontrare e maneggiare alcune invarianti: il proprio corpo e l’interiorità; gli altri; il mondo.

Clara Agosti

Interessante. Grazie per la condivisione. Ho preso del tempo per riflettere, ma non so se ho fatto bene.
Nel posto in cui mi trovo in questo momento, ai confini con il Chad e il Sudan, mi sento al sicuro. Disintossicata dai media e con lo sguardo analitico costantemente rivolto alla realtà.
La cultura in cui mi trovo è meno civilizzata di quella in cui sono cresciuta, ma non è comunque totalmente naturale, originale, anche qui, esiste l’eccesso di parole. Quando però non si è distratti dalla vanità e la morte delle persone, pazienti o colleghi, arriva prima che si abbia il tempo di prepararsi, l’analisi si fa elettrica e le immagini arrivano immediate e pure.
Mi viene in mente una foto di una donna del Gabon che allatta uno scoiattolo. Il corpo di un essere umano che dona ad un animale. Segue l’immagine del colloquio che ho fatto con una donna nomade: sua figlia di 15 anni ha appena partorito. La donna vuole allattare sua nipote, si meraviglia di non avere il latte, dice che è la primogenita quella nata, la deve nutrire lei, con il suo corpo, è la legge della sua gente. La piccola è sottopeso. Alla madre della neonata, dalla propria madre, arriva il messaggio che se le dovesse dare il latte, entrambe moriranno.
Il pensiero successivo è un’adolescente di 14 anni, che vuole fare un’interruzione volontaria di gravidanza, perché non vuole interrompere gli studi.
Infine penso alla mia famiglia, a mia madre, a me, figlia.
Incominciare a sperimentare una psicoanalisi antropologica, mi ha aiutato a curare ancor più in profondità, i dubbi e le paure che la società occidentale mi aveva inculcato. Prima dell’analisi personale, i vari tentativi di fuga erano falliti: alla fine ho ceduto e insieme ai miei analisti credo di aver rimediato sufficientemente bene, affrontando me stessa, la realtà di chi sono. Un essere umano, un corpo che ospita l’essere.
Sono anni che cerco di approfondire la conoscenza del corpo e della mente, di comprenderne il funzionamento, l’interazione. Mi ricordo di aver chiesto spesso ai miei maestri, un po’ ingenuamente: “Sì, ma dove si incontrano corpo e mente?”. Continuo a pensare che il contenitore corporeo, per quanto grossolano, possa influenzare il contenuto, l’anima e ad essere convinta che l’attitudine mentale possa influenzare la percezione dei sensi. Plasmare la materia.
È stato difficile liberarsi dallo stereotipo del vissuto passato, ma alla fine credo di esserci riuscita: la cultura in cui sono cresciuta, le informazioni accademiche, le relazioni familiari adesso sono comprensibili, perché osservate con uno sguardo esclusivamente interiore. Le emozioni hanno sciolto i loro nodi. La vista sullo scenario è limpida.
Mi posso permette di dire che non sono sicura che ciò che leggo corrisponda alla realtà oggettiva: anche se si tratta di lunghi studi e ricerche svolte da luminari del sapere psicoanalitico. La verità è nella mente di molti e le affermazioni fatte da Ferro nell’articolo, toccano aspetti umani antichi e ancora troppo poco esplorati.
Il corpo. Mi chiedo da tempo, se il parto, nel suo accadere fisiologico, non insegni qualcosa alla donna, alla futura madre: se il dolore che attraversa fisicamente la madre, qualora lo percepisca, non la cambi: nella sua attitudine mentale, nella sua evoluzione di essere umano. Penso alla depressione post partum. Cosa succede perché una donna possa arrivare a perdere il desiderio di prendere in braccio il proprio figlio?
Mi viene in mente l’immagine di una donna accolta nel cuore della notte, in pronto soccorso, in Italia. Stringe forte, il proprio bebè urlando e delirando di volerlo proteggere dai fucili dei soldati. Un ricordo della guerra vissuta nel suo paese. Succede qualcosa, lì, in quell’intreccio tra corpo e mente. Ma cosa? E come? La scienza presenta diversi aspetti interessanti che possono e devono essere tenuti in considerazione e integrati.
Cosa intende Antonino Ferro per capacità affettiva? Dove la colloca? Nella mente, nel cuore, in ogni cellula del corpo? Per accendere la capacità affettiva, nella giovane madre di 15 anni che si rifiutava di nutrire la piccola sottopeso, ho incominciato dalla pelle: con un dito. A. sfiorava la bambina sulle braccia, il viso, i piedini. Poi le ho suggerito di incominciare a cercare sua figlia con lo sguardo. Infine è arrivata la voce. Semplici suoni, canzoni, nenie. La bambina ha ricominciato a piangere per chiedere il seno e la madre ha ricominciato a sorridere. Nel frattempo io ho ascoltato la nonna vomitare tutta la propria rabbia, il dolore. Nel cerchio delle tre donne rincominciava a scorrere la poesia misteriosa e autentica, delle generazioni passate, della loro cultura, del loro popolo.
L’ultimo pensiero è per V., un ragazzo di 25 anni nato e cresciuto in un paese distrutto dalla guerra. Delirando mi dice che sono sua madre. Ha preso in affitto il mio utero, oltre che la mia mente, o meglio, ha preso in affitto l’utero della mia mente.
Sono la sua madre bianca, me lo dice mentre la madre biologica mi è accanto. Una donna affaticata e stanca, ma ancora paziente e piena di accoglienza e affetto. Il padre ha fatto il giro della “città” per spiegare al resto della comunità cosa sta vivendo suo figlio.
Sento che entrambi hanno la capacità affettiva, quella di cui parla Ferro, ma a dire il vero non so bene dove sia collocata: nel loro sguardo? Nelle mani? O forse nel cuore fisico? Io, la capacità affettiva, la sento quando entrambi, mi stringono la mano per ringraziarmi.
Quanto tempo dopo inizierebbe la capacità affettiva nel genitore? Un minuto dopo la nascita del bambino cresciuto nell’utero in affitto? Se così fosse, sarei tranquilla per il genitore adottivo, che potrebbe arrivare, tecnicamente e forse intellettualmente, ben preparato ad accogliere il proprio figlio, ma l’utero in affitto, o meglio la donna che ha affittato il proprio utero? La madre? Il vuoto, in tutta questa questione dell’utero in affitto, non ci si è posti la domanda.
Uno dei principali problemi di questo ultimo decennio credo sia la coppia. La coppia in generale nel suo essere relazione. La coppia come prima entità, che cerca la stabilità necessaria per costruire una famiglia equilibrata, sufficientemente sana.
La coppia omosessuale. Si tratta di una percezione a cui non siamo abituati. Vogliamo vedere uno e il diverso da quell’uno. Per appagare il vissuto primitivo del nostro genogramma: veniamo da lì. Viviamo nell’illusione di essere stati creati tutti così. Io ho ancora i miei dubbi aperti.
Dalla coppia omosessuale il passaggio è al genitore unico: una persona, sola anche se omosessuale, va bene che faccia il genitore? Con il genitore unico, non sussiste il problema. Non ci si domanda neppure da dove arrivi il figlio: se da un utero in affitto, da fecondazione assistita o direttamente da un orfanotrofio. Ci si può spingere ad affermare che la mancanza dell’altro genitore possa, nel futuro, solo nel futuro, determinare problemi per l’Edipo.
Cercherò di accettare la sicurezza dell’affermazione fatta da Ferro, che dice che la funzione affettiva si crea, nel genitore, dopo la nascita, non prima: ma mi chiedo su quale basi si crei questa funzione allora, quando precisamente e soprattutto come questa capacità si “accende” nel genitore, in relazione a cosa o chi.
In Cina, dove la psicoanalisi non esiste e la materia è simbolo, la scienza dell’embriologia sostiene che, già durante la fase di formazione dei tre foglietti embrionali o germinativi, si crea una differenziazione, unica e irripetibile, alla cui formazione partecipano la madre e i foglietti stessi, il futuro del nascituro.
Alcuni studi recenti sostengono che la capacità di recovery di un qualsiasi trauma, che porta sempre il cambiamento, sia proporzionale alla capacità istintiva della persona. Sì, alla capacità istintiva, non a quella affettiva. Meno l’essere umano è civilizzato, più è capace di superare un trauma. Si tratta di una capacità fisiologica: il corpo riesce ad uscire dal trauma, che si manifesta e si esprime in una sorta di stato di ibernazione e la mente lo segue.
Mi ritorna in mente la foto della donna che allatta lo scoiattolo. Possiamo accettare questo cambiamento? Una coppia di persone simili nell’aspetto corporeo, che costituisce una famiglia con figli concepiti in un corpo altrui? Forse dovremmo chiederci prima se e perché lo dovremmo fare. Credo e sento che questo desiderio di andare oltre il conosciuto, esplorando il nuovo, senza chiedersi in modo approfondito quali siano le conseguenze, celi la prima vera, immensa paura al cambiamento, che richiede l’Edipo.
Il termine “in affitto” richiama subito la questione del denaro associata ad un proprietario dell’immobile e a un locatore. Il denaro, in questa società malata è collegato al potere e alla coercizione, alla produzione. Questo è il cambiamento di cui parla Ferro? A questo non vogliamo rinunciare? Alla tranquillità del potere, delle analisi esclusivamente quantitative, delle ipotesi fatte da cronogrammi, così distanti dalla pelle umana?
Grazie per l’occasione. Sono contenta dell’invito, dell’apertura di Merlini, il sostegno di Serra. Mentre scrivevo ho smesso di pensare ai problemi da risolvere, non ho sentito i 43 gradi che da due settimane, con costanza, mi accompagnano durante la giornata e ho sentito un po’ di nostalgia per il mio gruppo. Grazie quindi.

Roberta Giampietri

Anch’io ringrazio Franco per avere aperto questo dibattito partendo dalle considerazioni espresse da un collega che dice la sua su un tema complesso, di attualità, che ci interroga e ci attraversa in modo profondo.
Ringrazio di cuore Clara, che sta vivendo un’esperienza così ricca, interessante e credo anche difficile, per la generosità con cui la condivide. Spero ci potremo incontrare, se lo vorrà, al suo ritorno, per farci aiutare a tenere aperti e attenti mente e cuore sui quesiti che questa esperienza le pone, e ci pone.
Sono stata nel Mali qualche anno fa, dove i bambini Dogon sono allevati dal gruppo delle “madri” e tenuti separati dai padri fino all’età prepubere. In quel momento, quelli di sesso maschile vengono separati e allontanati senza più contatti col femminile-materno per un lungo periodo, dedicato ai riti dell’ingresso nella vita adulta. Mi chiedevo che conseguenze questo avesse rispetto alla formazione dell’identità, al legame, ai ruoli maschile e femminile che si sviluppano in questa società.
Anche nella nostra cultura la crescita dei piccoli è stata (almeno nelle classi abbienti) fino a un recente passato deputata a figure femminili (balie e tate) per tempi molto lunghi, mentre la figura paterna con accudimento “materno” accanto al neonato è diventata una realtà “naturale” solo da pochissimo tempo: cioè da quando è stato possibile culturalmente sperimentarci in ruoli più integrati e interscambiabili e abbiamo potuto, credo, metterci maggiormente in contatto, ognuno di noi, con le parti di entrambi i sessi di cui siamo portatori, senza paura né vergogna, potendo esprimere, forse, in modo più libero e meno condizionato il nostro amore genitoriale insieme al nostro ruolo.
Sappiamo però quanto ci sia ancora da camminare sulla strada del riconoscimento pieno del ruolo invece che del sesso di appartenenza rispetto alla persona che lo svolge, e questo non solo nella famiglia, ma nel lavoro e nella vita civile.
D’altronde se non fossero l’amore e il ruolo di cui ci assumiamo la responsabilità nella relazione a consentire la crescita dei piccoli e a “curare”, come potremmo esercitare una professione in cui ci è richiesto di esprimere in modo sano, indipendentemente dal nostro sesso e dalle nostre scelte sessuali, sia ruoli paterni che materni, ugualmente necessari alla crescita e allo sviluppo della personalità adulta! Abbiamo sempre detto che è l’amore che cura, non abbiamo mai aggiunto “di chi”.
Quindi come Lorena Monaco, che altrettanto ringrazio, tutta la parte delle considerazioni di A. Ferro sulla genitorialità omo o eterosessuale non mi spaventa, e credo che dovremmo attrezzarci per l’accoglienza, l’ascolto attento, l’osservazione partecipe delle “nuove famiglie”, anche per cogliere gli inevitabili cambiamenti, magari positivi, che ciò produrrà.
Mi sembra molto più complesso il tema chiamato con un brutto termine “utero in affitto”, impossibile per me da liquidare con posizioni di principio, spesso utili solo a difenderci dal “perturbante” che questa, come altre possibilità che le scoperte scientifiche rendono oggi praticabili, ci pone di fronte.
Invito in proposito chi non l’avesse fatto a leggere anche lo scritto di Michela Murgia, nello stesso link – più sotto – dell’intervista a Ferro. Anche lei come Clara sembra lasciarsi attraversare da molte domande, a cui tenta di dare proprie risposte senza pretese ultimative.
Innanzi tutto sento la necessità di dire che sul piano personale sarebbe (stata, data l’età) per me inaccettabile l’idea di “prestare” il mio utero per una gravidanza “surrogata”, sia di separarmi per qualunque motivo, che non fosse di assoluta ed estrema necessità per il benessere del nascituro, da una creatura nata da me, e men che meno avrei potuto pensare di allontanare per mio desiderio/scelta un bambino dalla madre che l’ha partorito.
E questo, fra le tante ragioni anche di altra natura, mi deriva soprattutto dall’esperienza diretta, e fortunata, della gravidanza, che ha costituito nella relazione con la mia creatura un legame emotivo profondo fin dal momento in cui l’ho pensata e che ho sentito ancorata in modo specialissimo (misterioso e indescrivibile) alla reciproca corporeità.
Anche dall’osservatorio professionale, ritengo che le vicissitudini fisiche ed emotive legate alla gravidanza e alle prime fasi di vita della coppia madre-bambino siano portatrici di importanti conseguenze nella vita relazionale futura di entrambi, così come lo sono la relazione tra i partner e tra essi e il bambino in arrivo.
Ma le mie riflessioni su questo tema ruotano soprattutto intorno al bisogno dell’essere umano di conoscere le proprie origini e alla questione del desiderio e del limite.
Mi domando cosa si possa dire a un figlio che inevitabilmente vorrà sapere di più sulla sua nascita se il desiderio di generare col proprio seme o col proprio ovulo è stato così irrinunciabile da bypassare l’inevitabile problematicità che una separazione precoce dal “grembo” ritengo possa procurare. Mi chiedo come sia possibile, nell’esplicare il proprio ruolo di genitori, non colludere con il desiderio onnipotente del bambino, se è stato impossibile far i conti con il proprio. Mi chiedo di che natura sia un amore (soprattutto quello genitoriale che è di per sé destinato inevitabilmente alla rinuncia dell’altro) quando sia nato nella/dalla impossibilità della rinuncia…
Ma mi domando anche in che modo un limite posto dalla legge possa essere ritenuto un aiuto ad affrontare questi temi.
Ricordo Pietro Barcellona che, riferendosi all’eutanasia, ci invitava a riflettere su quanto la legge fosse uno strumento inappropriato e inutile per affrontare tematiche di natura etica profonda, che coinvolgono il rapporto possibilità/libertà/limite e la ricerca di senso e di valore che ognuno dà alla propria vita.
Tutto questo indipendente che la coppia sia etero o omosessuale.

Fulvia Ceccarelli

Avevo scritto queste righe (non mandandole) qualche tempo fa in occasione di un dibattito tra noi sulla questione della fecondazione eterologa. Mi sembra possano essere utili e calzanti anche all’interno di questi scambi.
Credo che le scelte in fatto di maternità appartengano ad una sfera molto privata e come tale meritevole del massimo rispetto. Pur tuttavia mi sento chiamata in causa in quanto persona, e poco importa se di destra o di sinistra, se credente o meno, su un tema di grande rilevanza etica quale la fecondazione eterologa, la cui applicazione mi vede contraria perché spalanca lo scenario dell’imprevedibilità. Ritengo infatti che sollevi quesiti umanamente improponibili, del tipo: la madre vera è quella biologica o quella che porta in grembo il nascituro? E il nascituro di chi è veramente figlio? Come conciliare il suo bisogno legittimo di conoscere le proprie origini con quello dell’anonimato, cui ha diritto il donatore? Perché, al giudice che sostiene che la madre vera è quella che partorisce il figlio, si può obiettare: chi lo ha reso possibile? O al ginecologo che sentenzia che non serve a nulla conoscere la propria madre biologica, si può ricordare che si tratta solo della sua opinione. Peraltro smentita da un giudice di parere diverso, che afferma che è possibile, ma solo dopo il ventunesimo anno di età. Anche questa risposta mi lascia perplessa, perché sapere chi siamo è un nostro diritto e ne sentiamo l’esigenza ben prima dei ventuno anni.
L’altra faccenda inquietante è il destino oscuro degli embrioni in soprannumero. Sono situazioni, queste, difficilmente affrontabili dall’etica moderna che, ritenendo l’uomo responsabile non solo delle sue azioni ma anche delle loro conseguenze prevedibili, rischia di essere totalmente inefficace di fronte a quelle imprevedibili. In questo panorama incerto, il pragmatismo superficiale e riduttivo di molti medici coinvolti rappresenta una nota dissonante. Per non dire della disparità di trattamento che lo Stato riserva alle coppie che scelgono di adottare un figlio. In conclusione, di eterologa si continua a discutere senza mai arrivare ad una posizione sufficientemente condivisa.
Ripercorriamo i fatti. In seguito ad una sentenza della Consulta, lo scorso 9 aprile cade il divieto alla fecondazione eterologa, voluto dieci anni fa dalla Legge 40 sulla procreazione mediamente assistita. La metodica riceve l’imprimatur dalle più accreditate organizzazioni scientifiche. Dal punto di vista legislativo sembra che non ci siano ostacoli, stanti le leggi in vigore e le direttive europee già recepite e perfettamente in linea con i dettami della Corte Costituzionale. Durante l’estate i quotidiani danno grande enfasi alla notizia e il ministro Lorenzin inizia ad approntare un decreto con alcune precisazioni tecniche. Ma riceve un contrordine dal premier che decide di temporeggiare, rinviando il dibattito al Parlamento sine die. Il gran vociare si spegne cedendo il passo ad un silenzio sepolcrale. Se ne desume che né la validazione scientifica né l’applicabilità legislativa riescano da sole a dirimere dubbi e perplessità su questioni che vadano oltre i limiti d’età di donatori e riceventi e il numero massimo di donazioni possibili. Peraltro superabili con un viaggio all’estero e un portafoglio gonfio di denaro. In questo scenario surreale, tra di chi parla di vuoto normativo e chi decide di dare comunque il via al trattamento, i magistrati interpellati sembrano di parere discordante e i politici rispondono farfugliando qualcosa di poco comprensibile, alle domande secche dei giornalisti. Poi, d’emblée, viene stabilito che a partire dal 15 di settembre, l’eterologa sarà erogata nelle varie regioni dal Servizio Sanitario Nazionale. Senza una legge complessiva che deliberi anche su questioni non strettamente tecniche. Infatti, nonostante la buona volontà, non si riesce proprio a promulgarne una decente. La cosa non mi stupisce. Perché pensare di affrontare dubbi di natura etica ricorrendo a criteri scientifici, legislativi o alle personali convinzioni religiose, non può che portare in un vicolo cieco. Si tratta infatti di ambiti appartenenti a piani logici diversi, non congruenti tra loro. È un po’ come illudersi che definendo la forma, si chiarisca automaticamente la sostanza. Ritengo invece che l’unica cornice possibile per la dialettica tra limiti e liceità di una pratica sia l’etica. Che sta a monte. Perché viene prima di qualsiasi tribunale, validazione scientifica o credo religioso. Ho invece la sgradevole sensazione che venga considerata alla stregua di un vecchio arnese, che di tanto in tanto qualcuno rispolvera perché fa progressista.
Ricordo che l’eterologa rende possibile la fecondazione grazie a un donatore esterno alla coppia, che è disposto a cedere, a chi è stato meno fortunato di lui, il proprio Dna. Stiamo parlando dell’essenza stessa della vita. Perché è proprio da quel particolare e irripetibile pacchetto di geni, che ha impiegato milioni di anni per strutturarsi in quello specifico modo, che deriva l’unicità di ciascuno. Almeno quella biologica. Non solo. Quei geni sono anche frutto di una storia familiare che affonda le sue radici nel tempo e che ha avuto proprio quel particolare vivente come destinatario. Purtroppo l’eterologa ne svilisce la sacralità e la privatezza perché ne consente l’innesto in un perfetto estraneo. Non scelto per amore e tanto meno desiderato. Anche sui nobili scopi ci sarebbe poi da discutere, visto che si adombra l’ipotesi di una ricompensa economica per le donatrici che hanno accettato di sottoporsi a intense stimolazioni ormonali. Tutto, in questa vicenda, sembra quanto di più distante esista da un gesto d’amore. Come definire altrimenti il reclutamento di sconosciuti per l’inseminazione, le fecondazioni temporizzate e in batteria, le rivendicazioni urlate del bisogno insoddisfatto di un figlio?
La scienza serve a migliorare la qualità della vita, ma non ad eliminare qualsiasi ostacolo si frapponga sul suo cammino, come vorrebbe farci credere qualcuno. Questa aspettativa miracolistica, oggi molto in auge, mi sembra imparentata col delirio di onnipotenza. Infatti, negando il concetto di limite, non ci aiuta ad accettarlo e a venirne a patti. Perché è meno faticoso guardare il mondo attraverso le lenti rassicuranti dell’illusione, piuttosto che elaborare il lutto di una mancanza. La logica conseguenza è legittimare l’operato di un ginecologo-demiurgo che, pressato dalle richieste delle pazienti, sceglie per l’inseminazione solo gameti di donatori con un certo colore di pelle ed occhi. Compatibile con quello dei riceventi. Il motivo, spiegato candidamente, è di evitare disagi psicologici ai futuri genitori e ai loro nascituri. Perché i primi potrebbero essere additati come infertili dalle coppie normali, mentre i secondi discriminati dai coetanei, una volta grandi. Ma qualcuno si è mai chiesto come fanno a sopravvivere le coppie che adottano bambini di colore? Colgo in questa modalità il retrogusto amaro di una scelta a catalogo, che nulla ha a che vedere con l’accoglienza incondizionata che merita un figlio, che si dice di desiderare ad ogni costo. Vogliamo poi citare il caso della signora cinquantenne che, pur avendo già due figli grandi dal primo marito e desiderandone assolutamente un terzo dal nuovo compagno, si è messa in lista d’attesa per l’eterologa? Sorvolando, per delicatezza, sul fatto che gli oneri sono a carico dei contribuenti, viene da obiettare che, da che mondo è mondo, il periodo fertile in una donna ha una durata limitata nel tempo. E forse questo ha anche un senso, perché con qualche ritocco estetico puoi essere una splendida cinquantenne, ma l’età anagrafica resta e l’elevatissimo rischio di gestosi pure. Certo, accettare l’idea di non poter più concepire è faticoso oltre che doloroso. Ma è un dato di fatto. Con cui imparare a convivere, prima o poi.
Per una volta mi piacerebbe mettermi nei panni dei nascituri, visto che i riflettori sono sempre puntati sul malessere delle coppie che non possono avere figli. Confesso però che frasi come: quanto tempo perso. Se è tardi per un figlio chiederemo i danni allo Stato mi raggelano, perché segnalano oltre che lo smarrimento, anche la grande confusione che esiste in alcuni adulti tra bisogno e desiderio. Credo che un figlio si possa desiderare fortemente, ma non se ne può aver bisogno e men che meno si può pensare di averne diritto. Perché può essere un completamento, non una stampella. Purtroppo, però, solo chi è stato aiutato a crescere è capace di stare sulle proprie gambe, a prescindere. Non solo. Forse ha anche imparato a trasformare gli impedimenti in opportunità. In un incontro, ad esempio, perché sa solidarizzare con chi è stato meno fortunato. Accogliere bambini altrui espone certamente a maggiori fatiche e a rischi di fallimento, ma è un gesto altruistico. Che può compiere solo chi, avendo fatto da piccolo esperienza di amore, non è schiacciato dai propri bisogni. Per questo mi lascia senza parole la sentenza della prima sezione del tribunale civile di Bologna, che definisce la fecondazione eterologa un diritto che attiene alla libertà fondamentale di formare una famiglia con dei figli.
Gli esseri umani vengono al mondo molto più impreparati delle altre specie animali a sopravvivere autonomamente, perché ereditano pochi saperi “innati”. Nessun neonato infatti è in grado di appagare il proprio bisogno di cibo, acqua, pulizia, ecc.. È da questa peculiarità che origina il suo bisogno di essere amato. Non solo. Il neonato esiste ancor prima ancora di venire al mondo. Nei pensieri dei genitori, ad esempio. Che fantasticano su di lui, chiedendosi come sarà fisicamente. Se nascerà sano. A chi assomiglierà. Che carattere avrà. Che studi intraprenderà, che adulto diventerà. Inoltre gli verrà attribuito un nome scelto tra una moltitudine di opzioni possibili, che “indosserà” per tutta la vita. Altisonante. Straniero. Datato e improbabile come quello di un nonno. Poi, una volta nato, verrà messo a dimora in un appartamento come tanti, piuttosto che in una villa sontuosa o in un campo nomadi. Cosa ha scelto lui di tutto questo? Nulla. Genitori inclusi. In compenso, fin dalla più tenera infanzia, la mole di aspettative su di lui, che gli arriva con il latte materno, è enorme. Poi, se sarà fortunato, avrà accanto dei genitori che lo accompagneranno nella crescita. Gli insegneranno ad esempio a trasformare il bisogno in desiderio, cioè a mettere in moto l’area della creatività e della progettualità per ricercare buone risposte alle sue mancanze. Imparando a tollerare l’incertezza.

Franco Merlini

Cari colleghi, premetto che non era mia intenzione aprire un dibattito sulla Legge in questione ma proporre una riflessione su come sta reagendo la nostra comunità di fronte a un tema che non può non avere implicazioni sul nostro modo di teorizzare e di fare quello che facciamo come terapeuti. E portavo il mio stupore di fronte a così evidenti incongruenze e incoerenze fra ciò che diciamo e ciò che facciamo (avete solo di che sbizzarrirvi nel cercare sul web prese di posizione da parte di alcuni nostri Ordini che tifano per le famiglie arcobaleno… – Associazioni di psicologi, psicoanalisti edotti ecc.), segno evidente – secondo me – di una certa trascuratezza intellettuale oltre che di una certa approssimazione esistenziale: direbbe Roberto Mancini “di quale postura esistenziale siamo dotati per fare questo lavoro?”
In generale sono stupito di talune generalizzazioni sulle non-diversità sessuali che si appellano come non mai alla scienza (che parimenti invece di solito si aborrisce) e sui buoni sentimenti con cui si liquidano temi così articolati (uno psicologismo davvero spicciolo): la cultura della tolleranza, il rispetto delle diversità, il superamento dei pregiudizi e la supremazia degli uni sugli altri è fuori discussione naturalmente! Ma chi si ritiene psico-qualcosa crede in qualcos’altro? Di inconscio se ne può ancora parlare? Quando lavoriamo con i nostri pazienti, a cosa prestiamo attenzione? Ma cosa ci diciamo, e cosa diciamo ai nostri pazienti, circa i loro sintomi e i loro problemi (e non mi riferisco ai cosiddetti problemi di “genere”)? Che idea abbiamo di come diventiamo uomini, donne, soggetti, persone? Lungo quali percorsi finiamo per essere ciò che siamo? È un caso, o solo il frutto di attenzioni buone e amorevoli da parte di chi ci ha permesso di crescere, il fatto di essere eterosessuali? L’omosessualità o la bisessualità sono solo un orientamento? La “scelta” etero o omo è solo questione di “gusto sessuale” (Massimo Ammaniti)? E vorrei sottolineare che non sto affatto pensando a una qualche patologia o diagnosi così come le si intendono in medicina o nell’accezione di “normalità” (come del resto facciamo sempre e con tutti i problemi dei nostri pazienti). Non è compito nostro esprimerci in tal senso e poi cosa diremmo di noi stessi…?
Pur tuttavia non abbiamo qualcosa da dire circa il funzionamento psichico dell’uomo e su che cosa sia meglio? Crediamo nei processi d’identificazione come vicissitudini identitarie? Crediamo in taluni principi organizzatori del nostro psichismo, quali la simbiosi, la costanza d’oggetto, l’Edipo (ognuno li può chiamare come crede se vuole)? Esistono i percorsi di sessuazione? La propria sessualità va assunta? La clinica, in tutte le sue forme, non ci ha mostrato l’importanza, per lo sviluppo del bambino, del potersi identificare e disidentificare con un padre e con una madre che si sentano “generativi” oltre che in possesso di competenze idonee per fornire cure adeguate? Ci crediamo davvero a queste cose? Attenzione, se diciamo “no” o se diciamo “forse”, ricordiamocelo quando un paziente ci viene a chiedere aiuto. Ed è ovvio che non intendo un credere “assoluto” (anche il Cardinale Martini si diceva non-credente…!) nella psicoanalisi, nella sua metapsicologia ecc., ma mi si dica con quali enunciati (oltre a quelli personali) aiutiamo chi si rivolge a noi.
Nel dibattito si assiste spesso (ne è appunto un esempio quello di Ferro) alla riductio che “è sufficiente che venga svolta una funzione paterna e una funzione materna”, non importa da chi! E chi dice di no, nessuno pensa che l’identità sessuale sia legata a una questione di genere (l’ho detto prima). Infatti sono d’accordo con Sarantis Thanopulos quando dice: “La cosa che davvero conta, è essere vivi sul piano del desiderio: capaci di perdersi e di ritrovarsi nell’incontro erotico… la funzione genitoriale è fondata sulla possibilità iniziale di relazionarsi con il desiderio erotico del figlio: con la sua ricerca di un rapporto sensuale con la vita, non la sessualità vera e propria (che si sviluppa a partire dall’adolescenza), ma l’esplorazione del mondo…”.
Questo spostamento totale su una funzione simbolica “sui generis” la trovo assai pericolosa perché è di più difficile contestazione. Lo so anch’io che se l’omosessualità o anche la bisessualità si fondassero su “eteros”, cioè sul riconoscimento della mancanza e della diversità (la difettosità propria e dell’altro come dice il mio amico e collega Mario Binasco) tutto andrebbe a posto, e quindi con la questione del “terzo” risolta (sembra che i bambini abbiano bisogno di triangolare…) la funzione genitoriale sarebbe possibile. Questa ipotesi è però difficile da verificare e quand’anche così fosse mi si dovrebbe spiegare il perché allora di una “scelta” omosessuale.
Sulla cosiddetta ed edulcorata “maternità surrogata” nemmeno niente ci sarebbe da dire credo… è anche una questione su cui svariati e concordanti dati scientifici hanno mostrato (anche con immagini) il “dialogo” fra la madre e il feto.
Do la parola a Luciano Casolari:

Chi è fautore di questa pratica (utero in affitto) cita il caso generoso di una ragazza che per aiutare una sorella sterile si presta a portare il di lei figlio genetico nel suo grembo. Che male c’è? Perché no? La ricerca psicoanalitica ha ormai ampiamente documentato come la relazione durante la gravidanza non sia solamente di natura fisica ma anche e di grande importanza di tipo emotivo. La pratica dell’utero in affitto rompe artificialmente e in modo traumatico una relazione emotiva in un momento cruciale con seri rischi per la sanità mentale della donna e del bimbo. Svariati sono i casi di pazienti in cura che hanno avuto il trauma della morte della madre alla nascita o di madri che per qualche motivo hanno perso un figlio che hanno riportato rilevanti conseguenze psicologiche. Nel caso dell’utero in affitto il trauma sarebbe ancora più rilevante in quanto la madre non solo è persa ma psicologicamente ti ha rifiutato o abbandonato e il genitore adottivo è il suo carnefice mentre per la donna emergerebbe l’immagine mentale di essere una madre crudele. La pratica dell’utero in affitto da un punto di vista scientifico è quindi da osteggiare. Alcuni accostano il rifiuto della pratica dell’utero in affitto, illegale in Italia, con l’adozione del figlio del partner. Basterebbe, per evitare di incentivare questa attività, mettere nella legge una norma che vieti l’adozione di un bimbo concepito in questo modo o comunque l’obbligo di indirizzarlo verso l’adozione di terze persone secondo la lista delle famiglie in attesa. In realtà difficilmente si riuscirà a trovare delle soluzioni perché su questa vicenda si consuma una lotta politica in cui in modo pretestuoso si creano schieramenti per poi porsi a capo di uno dei campi e lucrare qualche consenso elettorale.

Un caro saluto.

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