Tutti abbiamo le nostre pene e,
anche se l’esatta configurazione,
il peso, le dimensioni sono
diverse per ciascuno, la tonalità
è uguale per tutti.
(da “La tredicesima storia” di D. Setterfield)
Una manciata di mesi fa partecipo a una supervisione. Mi sembra di non aver casi da portare, faccio il punto, scorro l’agenda a memoria e concludo che va tutto bene. Ma al primo silenzio prolungato del gruppo mi viene in mente Francesca. Penso che negli ultimi tre, forse quattro, colloqui succede sempre qualcosa nel mio mondo, una telefonata, una lettera, un incontro, da cui non mi riesco a separare quando Francesca arriva e chiudo la porta. Ho la sensazione di perdermi le prime sue frasi, assorta in qualcosa d’altro che mi distrae e non mi permette di ascoltare libera.
Quindi ne parlo con il mio gruppo. Descrivo e mi rendo consapevole, mentre lo faccio, che con Francesca mi sento spesso tenuta a distanza. Francesca, che ha quasi cinquant’anni, soffre molto del maltrattamento subito dai suoi genitori. Quando racconta della dinamica tra lei e sua madre percepisco il suo grande dolore, arrivano le lacrime ma appena questo succede, lei si affretta a cercare nella borsetta, che mette sulla sedia vicina, i suoi fazzoletti di tessuto che immancabilmente sono sepolti e quando li trova ormai le lacrime sono state ricacciate nel dove da cui sono arrivate; quelle due che hanno rigato il volto vengono tamponate. Francesca non si permettere di piangere con me, ma nemmeno di ridere o di arrabbiarsi, Francesca non si permette di vivere le sue emozioni nella stanza di terapia. Ma io, capisco che sono stata complice e comincio a chiedermi il motivo.
La prima evidenza è che in questo momento mi sento tenuta alla stessa distanza da mio figlio che sta male, che amo molto ma dal quale sono tenuta fuori e rintraccio quanta fatica e frustrazione sto sperimentando in questo momento della mia esistenza.
Sostenuta dal mio gruppo di supervisione, dedico del tempo a lasciare che il mio dolore trovi un posto e questa possibilità mi rimette nella posizione di poter “interrogare” Francesca rispetto a quello che accade nella stanza di terapia.
Quando la rivedo e al ripresentarsi della dinamica tra di noi, avendo chiaro che non è la stessa fatica rispetto a quella che faccio con mio figlio, posso indagare e il “senso” arriva dopo pochi minuti di silenzio. La mia paziente dice che sì è vero, mi ha sempre tenuto a distanza. Dice che spesso per lei la terapia è stata un sudario perché l’emozione trattenuta le ha richiesto uno sforzo indicibile. Interrogo questa fatica, la sua. Francesca si vergogna di piangere, si vergogna del dolore, si giudica, ma soprattutto ha paura, nonostante sappia che non è possibile che io la possa guardare come se fosse malata, ma non di dolore, di follia come sua madre l’ha sempre guardata: la sofferente che è troppo sofferente, che non è risolta ancora, ora che è adulta. Vittima della sua sofferenza. Una follia da nascondere, da negare, persino alla sua terapeuta che in quell’operazione di transfert diventa la madre a cui dimostrare che ora è grande, adulta e soprattutto è guarita da non si sa quale malattia.
Mentre ascolto Francesca sento che qualcosa vibra dentro di me, che riconosco il linguaggio. Sento in quale trappola sono caduta. Una trappola che nessuno ha sistemato per farmi cadere ma che è lì da sempre. Metto in sospeso e continuo ad occuparmi di Francesca e sto con lei.
Appena se ne va sto con me e con quel vibrare di prima. Improvvisamente è chiaro in cosa sono stata complice, tanto complice. Ricordo come mi sono sentita davanti al mio terapeuta quando le mie ondate di dolore arrivavano insieme ad un pianto infinito che mi scuoteva e spossava. Ricordo che spesso, dopo essermi concessa questo pianto, mi vergognavo. Tanto. Pensavo a cosa poteva di me pensare il mio dottore. Una folle che ancora sta così male. Mi aspettavo che mi dicesse, che mi suggerisse, di fare un altro mestiere. Credo, e solo ora lo vedo, che probabilmente in quei momenti il mio terapeuta che portava anche il nome di mio padre diventasse dentro di me proprio lui. Mio padre mi diceva che non ero intelligente, che ero matta e che il mio pianto ne era la dimostrazione. Il mio pianto era odioso per lui e insostenibile e non mi rivolgeva la parola quando piangevo. Io ero la figlia debole e stupida mentre lui era il forte anche se dipendeva da sostanze per stare in piedi e tollerare la sua angoscia che io non conoscevo né allora sospettavo.
Ho fatto questo pezzo di lavoro da sola, dopo che Francesca se ne è andata. In realtà l’ho fatto con il mio terapeuta dentro di me. Mi spiace non poterglielo raccontare. Se ne è andato, ma una verità tutta mia dice che i padri, quelli buoni, restano dentro ai figli e continuano a dialogare con loro per sempre. Io non ho un padre così dentro ma ho un terapeuta con cui ancora dialogo e forse lo farò sempre.
Adriana Bolzan
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