GIOCARE CON LA BESTIA
Dania Cappellini e Julie Cunningham

Ecco il mio segreto.
È molto semplice: non si vede bene che col cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi.

[Antoine de Saint-Exupéry]

Che cos’è l’impensabile? Bella domanda. Se ci atteniamo al vocabolario, impensabile è ciò che non può essere concepito dalla mente, spiegato dalla ragione e in definitiva che risulta difficile da accettare perché assurdo, contraddittorio o del tutto imprevedibile, incredibile, inimmaginabile.
Negli ultimi mesi del termine s’è fatto largo uso anche in politica per definire questa o quella promessa elettorale. Anche nella vita comune è impensabile tutto ciò che riteniamo assurdo, irragionevole, oppure tanto grave e disumano da far vacillare la mente.
Piuttosto arduo sarebbe “pensare ciò che non si può pensare” dunque: sembra una classica affermazione per assurdo, una di quelle diatribe che ci riportano alle sfide in chitone dei pensatori greci, ai tempi in cui Eraclito arrivava a negare la validità assoluta del principio di non contraddizione e, di conseguenza, ad affermare che nella contraddizione c’è la verità della logica degli opposti.
Ma in ambito psicoanalitico, abbandonando la filosofia, pensare l’impensabile è possibile: significa, almeno per Nina Coltart, autrice di questo testo “classico”, rendere noto l’ignoto. Quindi seppur con un grande sforzo professionale, un obbiettivo raggiungibile.
Nina Coltart (1927-1997) è stata una psicoanalista con funzioni di training della British Psycho-Analytical Society, nella quale ha rivestito molti ruoli importanti; in particolare, ha diretto la London Clinic of Psycho-Analysis per dieci anni. E proprio Pensare l’impensabile è la più importante raccolta di suoi scritti.
Pubblicato per la prima volta nel 1992, è un classico della psicoanalisi inglese, mai apparso in Italia sino allo scorso anno, quando è stato tradotto e dato alle stampe da Cortina. L’impensabile attraversa tutti i capitoli ed è affrontato da Nina Coltart con libertà, coraggio e rigore al tempo stesso.
Analista di grande ingegno ed esperienza clinica, propone la sua visione di quelli che sono i fattori terapeutici e non terapeutici in psicoanalisi, della valutazione e dei criteri di analisi, delle caratteristiche personali – e spirituali – che l’analista deve coltivare per praticare la “professione impossibile”.
Uno dei pregi di questo libro è la limpidezza con cui l’autrice descrive alcune situazioni cliniche, talvolta estreme, in cui i sentimenti e i vissuti con i quali l’analista è messo a confronto appartengono al dominio dell’impensabile, per esempio il silenzio. Molti di questi casi ricorrono nei diversi capitoli del libro, analizzati da punti di vista diversi, diventando familiari per il lettore.
È un testo di straordinaria attualità, in cui la Coltart utilizza la sua intuizione, una sensibilità clinica notevolissima e una grande libertà di pensiero anche per avvicinarsi, in modo quasi profetico rispetto agli sviluppi successivi della psicoanalisi, a temi quali il rapporto fra psicoanalisi ed etica, psicoanalisi e spiritualità, psicoanalisi e religione, con particolare riferimento al buddhismo.
Pensare l’impensabile va considerato al tempo stesso un testo per addetti ai lavori e un libro di riflessione per chi in ogni caso dai tempi psicoanalitici è attratto. Come osserva infatti Francesco Roat su www.leggeretutti.net “Il lavoro della Coltart aiuta a conseguire, da parte dello psicoanalista, la perizia del tollerare il proprio (e altrui) ‘non sapere’, la capacità di attendere il momento propizio ‒ kairotico, verrebbe da dire ‒ in cui sarà possibile pensare l’impensabile, far venire alla luce quanto prima giaceva nell’oscurità o si esprimeva tramite sintomi di ardua decifrazione”, ma aiuta anche il lettore che vuole interrogare se stesso fuori dallo studio di un analista a comprendere che “ il cuore di tenebra ‒ per dirla con Conrad ‒ racchiuso entro ogni essere umano non potrà mai venire completamente illuminato, in quanto, in ognuno di noi ci sono delle cose che non saranno mai alla nostra portata, restando sempre un mistero nel cuore di ogni persona, e dunque nel lavoro dell’analista”.
Come si può dunque adempiere al “compito di riuscire a dar voce all’inespresso e ai suoi criptici suggerimenti?” Come è possibile far sì che “la rozza bestia si trascini fino a Betlemme per vedere la luce?”, per usare la citazione da una poesia dell’irlandese William Butler Yeats, che dà anche il titolo originale al libro Slouching Towards Bethlehem (Joan Didion, Verso Betlemme. Scritti 1961 – 1968, Milano, Il Saggiatore, 2008). L’autrice per prima confessa che talvolta il paziente rimane a lungo congelato in un silenzio glaciale che può frustrare lo psicoterapeuta, “eppure questi deve restare fiducioso che un tale gelo presto o tardi inizi a sciogliersi…”. Come? L’affermazione di Nina Coltard è netta: ci si prende davvero cura dell’altro solo all’insegna dell’amore. E in che modo? Prestandogli autentica attenzione e dimostrando rispetto, empatia, accoglienza. Peculiarità che, unite ad ascolto e accettazione non giudicante della diversità altrui, possono venir riassunte nella virtù che il buddhismo chiama compassione, la quale non significa però ciò che non sempre correttamente viene inteso con questa parola in Occidente, dove essa è sinonimo di pietismo e buonismo retorico.
“Più ci limitiamo ad attendere ‒ osserva infatti l’autrice ‒ e meno pensiamo durante una seduta analitica, più saremo disposti a fidarci dall’intuizione che deriva dalle parti meno razionali e cognitive del sé, e a una percezione più piena e diretta del paziente e di quello che sta accadendo”. E questo senza dubbio aiuta assai chi pratica o praticherà quella è stata chiamata maliziosamente, ma pure lealmente, la professione impossibile.
Che passa, “impensabilmente”, anche per il divertimento, la risata, l’umorismo che secondo l’autrice possono essere elementi di grande validità in psicoanalisi.
In uno dei casi raccontati nel libro, Nina Coltart cita un’esperienza della sua formazione giovanile. “Si trattava di un paziente capace di far ridere le persone. Era piuttosto malato, ma anche molto divertente. Ma io ero allora così seria nell’applicare quelle che credevo essere le regole sacre della psicoanalisi che sprecavo un sacco di energie cercando di non ridere alle sue battute…”.
Un terrore laico così simile insomma al “misterioso segreto religioso” custodito a costo di terribili delitti nel cupo monastero de Il nome della rosa, cioè il “pericolosissimo” secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia e in particolare al beneficio della risata.
“Ma penso – conviene l’autrice – che ora riderei se mi sentissi di farlo”. Ed è dell’opinione conclamata di aver inutilmente deprivato sia il paziente sia se stessa con il moralismo e la seriosità. Riconoscendo che avrebbe potuto avvicinare alcune forme autentiche o schemi del paziente più velocemente se avesse reagito in modo naturale, con una risata, e solo poi iniziare a parlare di quanto contenuto in quella difesa chiamata ironia, per disseppellire finalmente quanto si celava sotto di essa.
La discussione del nostro gruppo ha toccato “l’impensabile” dei pazienti psicotici. Chi lavora con adulti parlava dell’importanza di stare insieme a loro, di poter cogliere il loro modo d’essere, di perfino riderne insieme, di “godere delle sedute analitiche”, per dirlo con la Coltart. Chi lavora con bambini psicotici ha trovato un mondo riempito dalla ripetizione di attività, di movimenti, di parole senza senso.
Il nostro lavoro diventa quello di portare i bambini all’inizio di un pensiero che spessa sembra veramente impensabile per loro in tutti i sensi. Si aggrappano al concreto, al conosciuto, e per questo l’apprendimento è difficile, il gioco e la creatività assenti. La terapeuta impara a stare vicino cercando di entrare nel loro mondo senza chiedere a loro di entrare nel suo, di “rendere l’altro presente” come dice Harold Searles, citato dalla Coltart.
Un esempio di un pensiero impensabile in un adolescente molto disturbato si trova nelle prime sedute con Gianni, un ragazzo di 13 anni, che diceva di essere un re molto potente e ricco che si chiamava “Re Spaccatutto”. Usando i vecchi costumi per travestimenti che trovava nella stanza, creava tutto il necessario per trasformarsi in re in ogni seduta, ma senza una vera storia da elaborare e raccontare.
Ripeteva sempre le stesse attività: per esempio scriveva un libro con l’inchiostro colore oro in “latino”. In verità il libro era un blocco di carta, con tantissime pagine riempite con segni senza senso, neanche una parola riconoscibile e perciò con l’assenza di un pensiero attendibile.
Alla fine di ogni seduta Gianni si toglieva il costume da re, spiegando senza segno di emozione che il re si “scioglieva nell’acido” come nel film di Roger Rabbit. Lo faceva in modo intenso e concentrato, senza permettere nessuna partecipazione da parte della terapeuta quando cercava di salvarlo dal terribile destino.
Era sempre un momento angoscioso vederlo contorcersi sdraiato per terra, coperto dai tanti vestiti del re e mormorare suoni strazianti. Il contributo della terapeuta era quello di parlargli, senza sapere neanche di che cosa e perché, con la consapevolezza di non essere ascoltata, anche se appariva importante che sentisse il suono della sua voce, come con un bambino molto piccolo. Poi, dopo pochi minuti, si alzava velocemente e usciva sorridente dalla stanza.
Gianni era ossessionato dalla morte in generale e aveva memorizzato le date di nascita e morte di tantissime persone famose, come se volesse cercare di controllare la morte stessa. Probabilmente l’impensabile per Gianni aveva a che fare con il suo terrore della morte. Alla nascita, una gravissima forma di ittero aveva minacciato seriamente la sua vita e a sua madre era stato detto che forse il suo bambino non sarebbe sopravvissuto.
Quando abbiamo conosciuto Gianni, lui aveva già creato un mondo alternativo e psicotico che teneva per sé finché non ha cominciato a condividerlo con la terapeuta, una condivisione che gli ha permesso un pensiero comunicabile, ma solo dopo tanto tempo e dopo essere entrati nel suo mondo irreale cercando di renderlo “giocabile” e perciò simbolico e meno concreto e ossessivo.
Gianni diceva che voleva vivere nel passato, e abbiamo capito come questo fosse il desiderio del “re onnipotente” che controllava tutto, perfino la morte.
Quando una volta molto più avanti nella terapia disse: “Fra 30.000 anni tu e io saremo morti” , la terapeuta ha sentito un’angoscia fortissima (molto di più che se avesse detto “solo” che fra 100 anni saremo morti), ma finalmente si poteva avvertire l’inizio di un pensiero suo, prima impensabile.
Tornando alle parole della Coltart, ci sembra che la terapia abbia permesso a Gianni di condividere la presenza della “rozza bestia” con un’altra persona. La sua “rozza bestia” era spaventosa e mai mostrata a nessun altro. A casa era un ragazzo senza iniziativa, sempre sorridente ma con dondolamenti improvvisi del corpo intero. Ubbidiente con i genitori, li seguiva (soprattutto il padre) senza mai opporsi e con conversazioni imitative e vuote. Raramente esprimeva emozioni.
Secondo l’autrice: “Noi dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per aiutare le persone, attraverso la trasformazione terapeutica, a portare il pensiero all’impensabile e le parole all’inesprimibile. Gradualmente la rozza bestia può, all’interno della cornice della relazione analitica, arrancare per venire alla luce, e la nuova creatura che emerge da questa nascita può essere l’aumentata felicità e pace mentale del paziente.” (cfr. pag.14)
Con Gianni certo si parlava poco, ma attraverso il “fare insieme” lui e la terapeuta hanno cominciato a capirsi. E alla fine della sua lunga terapia, ha detto: “Tu mi hai aiutato ad andare verso il futuro”. Pensare l’impensabile?
E finiamo con un’altra poesia che ci è piaciuta, dove la rozza bestia prende il volo per entrare nel mondo. È di un poeta americano, Richard Wilbur (New York, 1921 – Belmont 2017) molto conosciuto nel mondo eppure mai tradotto in italiano, e perciò i lettori perdoneranno una traduzione nostra. In inglese la poesia si chiama Writer (La scrittrice):

Nella sua camera alla prua della casa
Dove la luce irrompe, e le finestre sono spazzolate dal tiglio,
Mia figlia sta scrivendo una storia.
Mi fermo sulla scala, sentendo
Dalla sua porta chiusa il fracasso dei tasti della macchina da scrivere
Come una catena trascinata sul ponte.
Anche se giovane, la stoffa
Della sua vita e un grande carico, e una parte anche pesante:
Le auguro un passaggio fortunato.
Ma adesso è lei che pausa,
Come per rifiutare il mio pensiero e la sua figura facile.
Una calma aumenta, nella quale
Sembra che tutta la casa stia pensando,
E poi lei riprende ancora una volta con un cumulo di clamore
Di battute, e di nuovo è silente.
Mi ricordo lo storno stordito
Intrappolato in quella stessa camera, due anni prima;
Come siamo entrati in punta ai piedi per aprire la finestra
E poi usciti per non spaventarlo;
E come per un’ora impotenti, attraverso la crepa della porta,
Abbiamo guardato la liscia, selvatica, scura
E cangiante creatura
Battersi contro la brillantezza, cadere come un guanto
Al duro pavimento, o sulla scrivania,
E aspettare poi, curva e insanguinata,
Per la voglia di provare ancora; e come i nostri umori
Si sono trasformati quando, improvvisamente sicura,
È decollata dal dietro di una sedia,
Seguendo una corsa dritta e sicura per la finestra giusta
E superando il davanzale del mondo.
È sempre una questione, amore mio,
Di vita o di morte, come mi ero dimenticato. Ti auguro
Quello che ti ho augurato prima, ma ancora di più.

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