TERAPEUTI IN FORMAZIONE
Gli allievi della Scuola di specializzazione del Ruolo Terapeutico di Milano e di Foggia sono tenuti a presentare, al termine di ogni anno accademico, un elaborato riferito alla propria esperienza formativa. All’interno di questo spazio ne ospiteremo alcuni.
GIOCHI DI SPECCHI E SUPEREROI
Silvia Spairani
Per il secondo anno di fila mi trovo davanti a questo foglio bianco su cui dover “buttare giù” qualche impressione su un paziente, o meglio su di me con un paziente.
Da dove iniziare quindi se non dal primo paziente che ho iniziato a seguire come psicoterapeuta?
Ricordo ancora la prima volta che ci siamo incontrati poco più di un anno fa: L. mi apparve come un ragazzone di 12 anni che riempiva completamente la poltrona dello studio della collega che, andando in pensione, lo salutava per affidarlo a me.
Questo “passaggio di consegne” è stato inizialmente un intralcio nel mio lavoro, accentuando la già grande difficoltà di “accomodarmi” nel mio ruolo, nuovo ruolo, di terapeuta e appesantendomi con timori di confronti con la collega e con la paura (a volte quasi certezza) di non essere all’altezza.
Dopo il nostro primo incontro, avevo immaginato (o meglio, avevo avuto bisogno di immaginare) L. come un cucciolo ferito e in difficoltà che chiedeva il mio aiuto, trascurando invece la parte arrabbiata e potenzialmente vitale di questo cucciolo, che tenta di nascondere quella più sofferente. Ripensandoci ciò mi appare meno strano: avendo trascorso più di metà della vita senza accorgermi della esistenza della maggior quota della mia rabbia, non mi viene tuttora sempre spontaneo aspettarmela negli altri.
Da subito, però, L. ha mostrato principalmente questa sua parte arrabbiata, a volte profondamente distruttiva, creando in me un grande disorientamento sia per la difficoltà a entrare in empatia con questa sia perché non ho ancora decisamente fatto i conti con la mia parte aggressiva.
Conoscendo L., si è da subito instaurato un gioco complesso di specchi, in cui il “mio” e “tuo” sono stati spesso di difficile distinzione per me, con emozioni quali la rabbia, la svalutazione e l’impotenza che hanno creato un gran concerto di risonanze, portandomi a vivere sensazioni intense, a volte violente, e a scoprire la mia difficoltà a riconoscerle, a non scappare da queste e a distinguere dove finisce Silvia e dove inizia L. e viceversa.
Soprattutto nei primi mesi di terapia mi sono sentita svalutata più volte da L.: che rabbia! Quanto mi ha fatto sentire inadeguata! Quanto inizialmente la sentivo diretta a me come persona e come terapeuta! Quanto però è stata utile una supervisione in cui una collega mi ha fatto notare che questa svalutazione non era diretta personalmente a me (anche se io la vivevo così), ma che “L. stava facendo il suo lavoro di paziente”: io però faticavo ad accorgermene per l’attivazione di quella parte di me che davvero non si sente all’altezza, o meglio che richiede a se stessa costantemente di raggiungere e mantenere standard perfezionistici e quindi impossibili, facendo una grande fatica a tollerare la mia inevitabile condizione di terapeuta alle prime armi.
E questa mia parte risuonava fortemente con quella di L. che, nello svalutarmi, mi faceva vivere il suo non sentirsi all’altezza e la sua rabbia per il suo limite e il suo bisogno.
La parola limite apre un grande capitolo in questa storia relazionale: limite oggettivo in L., che presenta una emiparesi dalla nascita e difficoltà cognitive, limite difensivo in me che inizialmente mi sembrava che tale aspetto non avesse peso, che tendevo a dimenticarmene, colludendo con la sua difficoltà di affrontarlo. Collusione nella mia difficoltà a farlo perdere, nel non fare cose potenzialmente frustranti per non frustrarlo, nell’avere bisogno di vedere a tutti i costi la sua parte “sana”, mio bisogno di non vedere il suo limite per non vedere il mio: qual è la mia emiparesi? O meglio: quali sono le mie emiparesi? E in questa collusione, paradossalmente, fare come i genitori che fanno i compiti al suo posto per non vedere/fargli vedere la sua difficoltà e quindi doverla affrontare, insieme al loro lutto e quello del figlio.
Scrivo “paradossalmente” perché in diverse supervisioni è emersa la mia maggiore identificazione con L. piuttosto che con i suoi genitori, che mi ha reso spesso miope del possibile ruolo di L. nelle dinamiche familiari.
Alla base di tale collusione emerge anche la domanda: cosa vuole dire per L. avere una emiparesi e un deficit cognitivo? Quanto spesso ho dato per scontato il suo sentire e pensare, proiettando su di lui il mio sentire e pensare! Mi viene da sorridere ripensando alla mia tesi di laurea, dedicata alla qualità della vita nei nati prematuri (alcuni con un deficit motorio, proprio come L.): la conclusione mostrava come la percezione degli adulti in famiglia fosse spesso differente da quella dei ragazzi, che convivevano con la disabilità dalla nascita e non avevano quindi mai avuto la possibilità di sperimentare una normalità differente. L’unica possibilità per avere informazioni su quale fosse la qualità della vita dei bambini era… chiedere ai bambini! Quindi, ampliando la prospettiva e il campo: quale è il punto di vista di L. su famiglia, scuola, amici, videogiochi? Come si sente lui in alcune situazioni che, ad esempio, mi farebbero molto arrabbiare (ma in fondo il fatto che mi farebbero arrabbiare è relativamente importante)? Di nuovo in questo è stata molto utile una supervisione di gruppo, nel corso della quale una collega mi ha fatto notare che mi comportavo con lui “come se volessi portarlo da qualche parte” o “come se avessi già in mente una risposta”. Che di nuovo però era la mia risposta, non necessariamente la sua. In questo modo, tra l’altro, sottintendo che ci siano risposte più o meno corrette, anzi giuste o sbagliate, rischiando invece di perdere la possibilità di scoprire la risposta dell’altro e di permettergli di scoprirla.
Su questa stessa linea mi viene da chiedermi: come faccio a prevedere che qualcosa sarà più o meno frustrante per L.? E se anche fosse frustrante, per quale motivo devo evitarglielo? Qui emerge però il mio bisogno di non frustrare o fare stare male l’altro, sia per non rischiare di farlo arrabbiare sia per non sentirmi “cattiva” (per tornare alla “brava bambina” che non si arrabbia di cui accennavo prima, e che se si arrabbiasse potrebbe venire buttata via in un angolo).
Questa mia difficoltà è particolarmente evidente con i bambini, con i quali a volte fatico a fare rispettare le regole della stanza o a farli perdere in un gioco: sto invece sperimentando quanto i bambini stessi ricerchino un confine o un limite, una sponda accogliente ma riconoscibile a fronte del sentirsi onnipotenti, ma anche molto soli. Inoltre il “favorirli verso la vittoria” trasmette loro i messaggi “ti proteggo perché potresti non essere in grado di reggere la sconfitta” e “non sei capace di vincere senza il mio aiuto”, anche se in realtà si tratta di “sarò capace, come terapeuta, di rimanerti accanto anche nel dolore della sconfitta?” e “sarò capace di reggere il tuo attacco?”.
Tra gli aspetti più in evoluzione per me e per L. c’è sicuramente il linguaggio, inteso in primo luogo come modo e forma di comunicazione: da subito L. ha portato in stanza il racconto dei videogiochi che utilizza per la maggior parte della giornata, associandoli a qualche raro episodio quotidiano, in racconti che io sentivo come estremamente concreti e fattuali, facendomi attirare nel gorgo a cui lo stesso L. è abituato, popolato di fatti ma non di emozioni. In supervisione mi è stata fatta però notare la mia tendenza a “stare sul concreto” piuttosto che dare significato simbolico a quanto portava, che in realtà era denso di valore. Grazie a questo consiglio (che spesso mi è sembrato come un togliere degli occhiali scuri per sostituirli con un paio più pulito), i vari personaggi hanno iniziato a colorirsi di significati sempre più vari, mostrandomi come in un caleidoscopio aspetti della personalità di L. che prima faticavo a vedere: Spiderman, con le sue speciali abilità fisiche e con le ragnatele che escono dalle mani, Dragonball, per cui meglio morire di vergogna piuttosto che essere un perdente, Robin che chissà se può aiutare Batman, per cui è difficile accettare di essere aiutato da un altro, Joker, che è diventato l’avversario di Batman dopo che questo gli ha rovinato il suo migliore spettacolo da clown.
Attraverso questi personaggi progressivamente è diventato per noi possibile iniziare a dare nome a emozioni come la rabbia e la vergogna o il sentirsi perdente; soprattutto, però, è stato possibile iniziare a sperimentare in seduta con forza nuove emozioni, in particolare lo “schianto” terribile dell’essere perdente e la pulsione distruttiva che scatena. Dopo qualche mese, è stato poi possibile passare dal parlare di personaggi di videogiochi e della loro esperienza al parlare di persone reali (tra cui a volte anche L. stesso) e accennare al loro vissuto personale in situazioni di vita quotidiana: l’utilizzo dei videogiochi che aiuta L. a non pensare ad altro e a volte a non vivere emozioni faticose (come l’ansia dell’attesa di un regalo) o la difficoltà nel vincere in alcuni videogiochi (e il “nervoso” per questo). Di nuovo, progressivamente, queste emozioni le abbiamo sperimentate in seduta, inizialmente grazie a un “Forza 4” a cui L. ha perso in più occasioni fino a dirmi: “la prossima settimana porto le carte di Dragon Ball così ti faccio sentire cosa significa non riuscire a giocare!”.
Nelle sedute successive, davanti a queste carte e alle numerose regole del gioco, L. mi ha fatto sperimentare con grande intensità come si sente in alcune situazioni della sua quotidianità: è stato possibile rimandargli il mio vissuto e parlare con lui di questo e di come lui stesso a volte a scuola si senta in questo modo. Ho vissuto questi diversi passaggi della terapia (le emozioni dei personaggi dei videogiochi, le emozioni di L. nel quotidiano, l’esperienza in seduta di alcune emozioni) in modo intenso e orgoglioso per quanto L. provava ad affrontare, pur con grande fatica. Essi sono stati intervallati da svariate sedute di silenzio e noia, per me estremamente faticose, nel corso delle quali ho sperimentato più volte una intensa sensazione di impotenza e la rabbia per questa. La mia fatica a rimanervi in posizione di ascolto mi ha portato a chiedermi come comportarmi, a fare domande a L. per cercare di capire se era successo qualcosa nelle ore precedenti o se era successo qualcosa tra noi che lo aveva infastidito accrescendo però il mio fastidio davanti alle risposte di L. “normale”, “è uguale”, “niente” fino alla più chiara e istruttiva per me “ma non si può stare in silenzio?”.
Ed effettivamente io faccio tanta fatica a stare in silenzio e aspettare (e quindi a tollerare il silenzio altrui), mi sento impotente e incapace, quasi stessi perdendo del tempo prezioso. Invece mentre scrivo e ripenso al percorso con L. mi rendo conto sempre di più come per lui, dopo una fase di lavoro emotivamente intenso, sia sistematicamente necessaria una fase di defaticamento difensivo, come per riprendere fiato dopo un’immersione in acque profonde. Come mi è stato suggerito in supervisione, la noia non è altro che “coperta bagnata che spegne quello che è sotto”. Dare un significato a quanto sperimento in seduta mi aiuta molto nel viverlo più serenamente e nel tenere accesa dentro di me la speranza dell’arrivo di una nuova fase produttiva, ma soprattutto la speranza per L. di poter piano piano scoprire e vivere insieme parti di sé ancora non conosciute. Resta sicuramente la mia difficoltà nel silenzio, che associo al vuoto e temo e rifuggo, sulla quale c’è ancora tanto da lavorare; resta anche però la necessità di lavorare anche con L. sul significato per lui di queste fasi, su come le vive e cosa vi sperimenta. Tutto questo sottintende purtroppo il mio bisogno di trovare conferme su di me e sulle mie “competenze” nell’andamento della terapia del paziente, quasi mi appoggiassi a lui per sorreggere l’immagine che ho di me come terapeuta (o forse, almeno in parte, come persona). Si tratta di un pensiero surreale (come se avessi il potere di cambiare da sola le sorti degli altri) e pericoloso, che a volte mi crea brutti scherzi e va rimesso al suo posto, riprendendo il lavoro di distinzione tra me e il paziente e ricordando che in quella stanza siamo fortunatamente e inevitabilmente in due, al cinquanta e cinquanta.
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