Gli altri – La radice del possesso
“Così fu quell’amore dal mancato finale
così splendido e vero da potervi ingannare.”
Fabrizio De Andrè
14/09/2020
Leggo e ascolto le notizie del mattino che riportano gli ultimi aggiornamenti su due agghiaccianti fatti di cronaca recentemente accaduti nel nostro paese. Maria Paola uccisa dal fratello che ha speronato il veicolo su cui viaggiavano lei e il fidanzato Ciro, perché quest’ultimo è un ragazzo transgender. Willy, giovane di colore assassinato con oltre venti minuti di violenza per aver difeso un amico durante una lite fuori da un locale, da quattro violenti, simpatizzanti di estrema destra e praticanti arti marziali.
Nell’udire questi resoconti dettagliati sento un nodo allo stomaco che non se ne vuole andare. Non posso che cercare di ascoltarmi e riflettere. Sentire dentro di me la rabbia che questi episodi mi suscitano fa male. Si tratta di una rabbia violenta e distruttiva, carica di disprezzo e furia, difficile da tollerare. Non mi piace. Non vorrei. Detesto sentirmi così e riconoscermi depositario di istinti tanto distruttivi, ma è evidentemente una parte di me che chiede di essere ascoltata e vorrei trovarle un posto. Mi piacerebbe scoprirmi superiore e capace di controllare la pancia per iniziare una riflessione costruttiva senza indugiare in pensieri di vendetta retributiva o giustizia divina, ma al momento non è così e per riconquistare la capacità di pensare e pensarmi ci vuole tempo. Intanto annoto dentro di me la presenza di questa rabbia, chiedendomi in che modo e in che cosa riguardi quanto sta accadendo.
Non voglio entrare ulteriormente nel dettaglio dei fatti di cronaca: già fin troppo è stato detto, raccontato, sviscerato e analizzato in questi giorni per aggiungere. Vorrei invece riflettere su un fatto: nel primo caso emerge evidente la transfobia come movente della violenza, nell’altro un’attitudine violenta e prevaricante (alcuni giornalisti lo identificano come di tipo “fascista” o “mafioso”) mischiata a un’indole razzista. Drammaticamente quasi ogni giorno sentiamo snocciolare un dolorosissimo resoconto di eventi di questo tipo: aggressioni omofobe, violenza di genere, episodi di razzismo di gravità via via crescente e intollerabile. Pur vere e incontestabili queste motivazioni, però, devo aggiungere che mi sembrano solo la punta dell’iceberg del disagio di una società sempre più al degrado. La rete di relazioni che costituiscono il tessuto sociale va via via sfilacciandosi permettendo alla parte peggiore, finora sommersa, di emergere con sempre più evidenza e tolleranza. Mi spiego meglio: mi pare che gli aspetti specifici che abbiamo citato siano più la “via” attraverso cui una concezione e un modo di vivere la società malati si manifestano, più che la causa: un come più che un perché. La strada presa per incanalare una rabbia che travalica il contenuto dell’attacco e che disegna una sempre più evidente e manifesta incapacità della nostra società nel suo insieme di relazionarsi con l’altro, inteso nel senso di ciò che è altro da sè, con il diverso e con il limite.
È evidente che nell’atto di speronare il veicolo su cui viaggiano la sorella e il fidanzato, perché non si è in grado di accettare che quest’ultima abbia scelto di vivere una relazione con un ragazzo trans (tra l’altro apparentemente aggredito violentemente mentre era a terra dopo l’incidente), è insita una dinamica perversa e spietata, dove per spietata intendo letteralmente priva di pietà: il movimento empatico che permette di registrare e risuonare con la sofferenza altrui provando sofferenza a mia volta. Non voglio entrare nel merito legale dello speronamento volontario o meno: non è qualcosa che stia a me fare: è compito della magistratura e degli organi deputati. Credo poi che non faccia grande differenza rispetto alla gravità della situazione. Voglio piuttosto chiedermi come si generino in un ragazzo una rabbia e un odio per il diverso tali da arrivare a questo punto. Cosa può portare a decidere che tale diversità percepita vada punita con tanta violenza?
Mi pare che le radici dell’odio siano ben più profonde della discriminazione in sé e che affondino nella più retrograda cultura del possesso.
– La vita e le scelte di chi mi è vicino “mi appartengono”, se non le condivido o peggio se rappresentano qualcosa di lontano, diverso da me o addirittura mi offendono vanno punite, se serve nel sangue. –
Sembra il retaggio di una cultura patriarcale nel senso peggiore del termine: una voce di prevaricazione e possesso, che affonda le radici nel tessuto stesso della storia del nostro Paese e del nostro popolo. Le norme sul delitto d’onore sono state abrogate solo il 5 agosto 1981 (legge 442). Lo stupro, una delle forme di violenza a me più intollerabili perché lede in profondità il principio fondamentale dell’autodeterminazione e dell’autorità su sé stesso di ciascun individuo, è stato dichiarato crimine contro la persona e non contro la morale pubblica solo con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996. Aggiungiamoci con un momento di sana autocritica nazionale gli abusi coloniali, il madamato, l’illegalità e le stragi di regime. Appare evidente che l’Italia almeno nell’ultimo secolo ha avuto e ha un problema molto profondo in tal senso che spesso e forse colpevolmente cerchiamo di non guardare: in fondo, italiani brava gente, no? No. Di sicuro non tutti.
Quindi ecco che una ragazza che vive una relazione di coppia che il fratello non condivide diventa per quest’ultimo un’offesa intollerabile alla persona. A me fratello e alla mia dignità di “uomo forte”, “onorato”, “rispettabile”. È una “vergogna”. È “infetta”. Va punita e purificata. Uso tutte queste virgolette perché sento questi termini così lontani da me da essere ripugnanti (sono evidentemente ancora privo di quell’obbiettività riflessiva di cui parlavo prima) al punto da faticare anche a vederli scritti senza che siano contenuti e racchiusi da qualcosa che li ingabbi e li separi da me, siano pure delle semplici virgolette. Questa dinamica mi pare delinei l’incapacità manifesta di tollerare uno dei più sottili ma invalicabili limiti della condizione umana: nessuno di noi ha controllo o potere su altri che sé stesso. Se per considerarmi “uomo”, “potente”, “forte” (e ovviamente mantenere i privilegi che questa condizione mi garantisce) ho bisogno di esercitare quel controllo ecco che la violenza rimane l’ultimo rifugio. La cultura del più forte, del bullo, del prevaricatore di stampo fascistoide diventa immediatamente affascinante, seduttiva, facile. Una forza di facciata, che non riconosce l’altro nella sua legittimità di essere e determinarsi, che lo soffoca, che cerca la superiorità fisica dove possibile, altrimenti numerica o sistematica, per affermarsi. Priva di quella reale forza d’animo e di carattere che nascono dalla scelta di essere, di determinarsi, di farsi carico delle proprie azioni e responsabilità incontrando l’altro nelle sue infinte forme e sfaccettature.
Così quattro picchiatori, violenti e cultori di una forza estetica orgogliosamente sbattuta in faccia al mondo, spengono le luci di una strada e massacrano un ragazzo inerme che ha avuto la sola colpa di avere il coraggio e la sfrontatezza di opporsi, tener testa, non chinare il capo. La scelta, pagata al prezzo più caro ma orgogliosamente e grandiosamente umana, di vedere il bluff, di smascherare il vuoto e la superficialità di quell’affermazione di forza che poi si sgretola nel chiedere isolamento e protezione in carcere per la paura di ricevere ritorsioni.
Seguendo il filo di queste riflessioni mi pare che queste manifestazioni perverse, che si vestono di volta in volta di omo/transfobie, violenze di genere, razzismi, bullismi, si configurino come i canali attraverso cui si palesa, in una società drammaticamente in crisi, una profonda e radicata xenofobia: paura ed odio per tutto ciò che è diverso in qualche modo o in qualche forma. Ciò che è altro da me diviene oggetto di odio, di rabbia e di paura: una minaccia al mio mondo, al mio modo di vivere, ai miei privilegi. Un radicale egocentrismo sociale che si traduce nel vedere sé stessi ed il proprio sistema valoriale come l’unico modo di essere possibile, accettabile, giusto.
È la cultura del possesso, dell’altro come mia estensione, spesso dipinta con l’immagine illusoria dell’amore, ma che in realtà è profondamente malata. “Tu, altro, puoi essere riconosciuto, accettato e amato, solo quando e se accetti di essere esattamente ciò che IO voglio che tu sia. Esisti solo in mia funzione. Sono io che ti determino e decreto cosa puoi o non puoi essere, fare o avere”. È una posizione paradossale che nega il concetto stesso di amore, che per definizione è relazionale, è incontro con l’altro, è avvicinamento, è libero. Il possesso è incapacità di vedere l’altro che non esiste se non come estensione di sé in un perverso specchio distorcente narcisistico.
L’amore, quello vero, libera, apre, lascia andare e lascia essere. Lascia che l’altro sia e gode dell’incontro con questo altro da sé che eleva entrambi nella reciprocità dello scambio, in un noi che supera la somma delle due parti. Due Io si incontrano in un Noi che li trascende.
Non posso allora fare altro che chiedermi cosa renda questi accadimenti ancora così presenti nella nostra cultura sociale. Faccio un passo indietro a questo punto. All’inizio di questo scritto parlavo della rabbia.
La rabbia è un’emozione profonda, potente e primigenia. È presente in ciascuno di noi ed è legata a filo doppio alla paura e al limite. Potremmo dire che sono facce dello stesso dado (sono troppe facce per una semplice medaglia). In genere quando siamo messi di fronte a un limite le proviamo entrambe, ciascuno secondo le proprie quote. Le proviamo con tanta più forza quanto più il limite è invalicabile e non negoziabile. Pensate alla morte: all’idea stessa di morte… è un limite tanto spaventoso e non negoziabile che la difesa migliore che abbiamo potuto trovare come specie, in millenni di evoluzione, è stato guardare da un’altra parte. Più o meno letteralmente. La maggior parte di noi vive la propria vita facendolo con tutte le sue forze, fino a che qualcosa (un accadimento, una malattia, un incidente…) ci costringe a fissare lo sguardo: e in quel momento ci accorgiamo che fa troppo male. Guardare la nostra finitezza, la limitatezza dei giorni nostri e delle persone che amiamo, ci atterrisce ed è fonte di enorme angoscia. Yalom ha intitolato una splendida opera su questo tema “Fissando il Sole”, regalandoci un’immagine chiarissima di quanto questo rappresenti. I nostri occhi così come sono non ce la fanno: se vogliamo riuscire a fissare il sole abbiamo bisogno di attrezzarci.
L’altro grande limite invalicabile della condizione umana è quello relazionale. E anche su questo spesso come genere umano ce la raccontiamo non poco. Nessuno può davvero entrare “nella testa” o “nel cuore” di qualcun altro. Non si può cambiare nulla in quella sorta di scatola nera che è l’altro e che, ci piaccia o meno, ci è preclusa. A volte qualcuno ci concede un lasciapassare, illudendoci di essere noi ad agire su di lui, ma come è ben evidente sono loro a scegliere di adeguarsi alle nostre aspettative o richieste e, talvolta, a cercare di delegarci la responsabilità delle proprie scelte. Le persone, come ci insegnano a prezzo troppo alto Willy, Maria Paola e Ciro, hanno sempre il potere di scegliere la propria strada se non quello di cancellare la violenza e la prevaricazione dal cuore degli altri.
Ma allora io mi chiedo se e come questa società contribuisca a generare e rafforzare questa incapacità di tollerare il limite, alimentando quote di paura e rabbia che non possono essere riconosciute, ascoltate e sentite ma vengono costantemente incanalate invece in strumenti di difesa inconsci ma utili a trarre vantaggi e privilegi sociali ed economici, come la cultura patriarcale, la xenofobia, la prevaricazione sul debole per tutelare un’illusoria immagine di forza e controllo.
Viviamo in una realtà economica costruita su un sistema paradossale nel quale, contrariamente a ogni sistema naturale, anziché tendere a trovare il proprio equilibrio interno si prevede una costante tensione alla crescita (di risorse, di ricchezza, di possesso, di potere, di valore). Come ben noto perché qualcuno possa crescere qualcun altro deve scendere. Ecco che è necessario trovare qualcuno da far cadere perché io possa salire: le risorse sono limitate (almeno quelle postulate in un approccio economico). Noi ne vogliamo di più. IO ne voglio di più. IO per primo. IO, IO, IO. Se ci pensiamo è l’opposto di una cultura relazionale che prevede una parità di importanza, rispetto e diritti: io con te. Cresciamo insieme. Il mio stare meglio non si può accompagnare al tuo stare peggio perché il tuo stare peggio fa stare peggio anche me. Vedete, suona molto come “ama il prossimo tuo come te stesso”: COME. Non di più, non di meno, non “al posto di”. Ama te stesso, ama l’altro e insieme cresciamo. In fondo la chiave è tutta li. E credo davvero sia una riflessione che trascende la religione, ogni forma di religione: è qualcosa che attiene al senso della vita.
Ci aggiungo il fatto che la società del consumo necessita di consumo, appunto. Affermazione facile e ovvia ma questo passa per il promuovere forme di benessere da vendere e quindi risposte da dare a qualsiasi bisogno o desiderio: piacere, salute, bellezza, popolarità, amore. Nel contempo però è anche evidente la necessità che questi desideri non ottengano una soddisfazione definitiva: se fossero davvero soddisfatti, non avremmo bisogno di comprare altro. Quindi si genera il paradosso di una società psicotizzata, scissa, in cui vengono creati e incentivati costantemente nuovi bisogni percepiti a cui si propone una risposta palliativa e spesso illusoria che dopo breve lascia (e deve lasciare) nuovamente voce al bisogno stesso. Come cercare di dissetarsi con acqua salata. Quello che si genera è un coacervo di senso di instabilità e insoddisfazione, coltivato nell’illusione sempre più diffusa che sia nostro diritto di nascita avere soddisfatti tutti i nostri desideri, anche i più capricciosi, con la conseguente incapacità via via più manifesta a livello sociale di imparare a tollerare e vivere bene il limite, il no, quello che non ci è dato. E’ come se la funzione paterna sociale (uso questa parola in senso psicologico, non come questione di genere, ma di ruolo: tanto il paterno normativo quanto il materno affettivo possono essere incarnati – e di fatto lo sono – da entrambi i genitori indipendentemente dal sesso) che insegna a stare con il limite rappresentando “la legge” in una maniera sana, che libera, che lascia andare, fosse stata sacrificata sull’altare di un’autorità patriarcale (questa volta si, di genere) fittizia, falsamente potente, incapace di liberare, riconoscere e lasciare andare.
Viviamo una delle epoche storiche a livello mondiale di maggior benessere di sempre. Per quanto ci riguarda abbiamo la fortuna di essere nati in un paese nella parte del mondo che ha ottenuto (qualcuno direbbe si è accaparrata) più benessere e risorse. Abbiamo l’aspettativa di vita più lunga della storia dell’umanità (eccezion fatta per la lieve flessione degli ultimi anni) e nonostante tutto sentiamo sempre che ci manca qualcosa. E siamo furiosi per il fatto di non ottenerla anche se non sappiamo bene di cosa si tratti. Così la coloriamo di volta in volta di un’aspettativa illusoria che soddisfiamo solo per scoprire che il vuoto c’è ancora e lasciare il posto alla prossima generazione di telefonini.
Ma come superare tutto questo? Seguire questo flusso di coscienza, questo susseguirsi di riflessioni, ha fatto un poco chetare la rabbia cieca di cui parlavo all’inizio. Questo mi permette di riavvicinarmi al sentire che l’unico modo di scardinare questo circolo vizioso costruito sul possesso e sulla paura/odio per l’altro sia il dialogo.
Penso al dialogo costruito faticosamente nella capacità e possibilità di arrivare a dare del tu all’altro che è altro da me e che porta un “vero” diverso dal mio. Una posizione vicina al “tu” di Aldo Capitini, che passa dallo scoprire l’esistenza di un vero che è altro da me e dal “mio” vero, potendone riconoscere la legittimità in un “giusto” che accoglie pur rimanendo altro. Un incontro che non è fusione e non è scontro ma apertura. Fino ad arrivare a riconoscere la bellezza e la ricchezza insita nell’esistenza di questo altro a cui poter arrivare a dare del tu. Tu e Io. Non Io e una estensione di me.
Partiamo quindi dalla parola: è sicuramente un buon inizio. Se cambio come parlo, cambio poco alla volta il modo in cui penso. È una posizione che mi sento di condividere: quotidianamente assistiamo a uno scempio linguistico spesso subdolo e di cui è difficile rendersi conto. Carnefici raccontati con aggettivi come “bravi ragazzi”, uomini abusanti e che commettono un femminicidio descritti come “mariti che non hanno saputo tollerare la fine di una storia”, l’elenco è odiosamente interminabile, ma basta guardare cosa è stato fatto passare al giovane Ciro che dopo aver visto morire la ragazza che amava, essere stato ferito, aggredito, picchiato, ha anche dovuto assistere a una grottesca parata di descrizioni più o meno assurde e comunque non rispettose (che per rispetto rifiuto di riprendere, ma sono facilmente riscontrabili online), utilizzate anche dai più quotati canali di informazione.
Il linguaggio però non basta. È un inizio come dicevo, ma il cambiamento necessario è profondo e passa dai gesti. Altrimenti rischiamo di cambiare solo l’etichetta lasciando invariato il contenuto. Il fascismo sembrava morto settant’anni fa ma ora sta facendo vedere che si era solo messo un’etichetta differente e che ha saputo tacere e aspettare tempi più fertili per tornare a far sentire la propria voce, con un vestito (neanche troppo) diverso. Diviene troppo facile porre attenzione a un linguaggio che perpetra una tradizione di privilegio e possesso senza però intraprendere il percorso di cambiamento che questo implica, nei comportamenti quotidiani e nella cura dell’altro.
Se riuscissimo a innestare il seme del cambiamento in profondità, nel pensiero e nel cuore di quello che ciascuno di noi trasmette a chi gli sta intorno e a chi verrà dopo di lui, saranno i nostri figli, liberi dai nostri pregiudizi più sottili, a trovare le parole giuste per un mondo nuovo. Ma non sta a loro fare tutto il lavoro: sta a noi liberarli da ciò che siamo stati perché possano diventare ciò che sceglieranno di essere. Utilizzando gli strumenti che avremo contribuito a creare ma che loro faranno propri, a loro modo.
Come imparare allora a tenere la porta aperta e dialogare con qualcuno che porta un pensiero così lontano dal nostro? Non ho una risposta a questa domanda, almeno non una che valga per tutti, forse vale solo per me, ma mi ha aiutato molto una storia che ho letto di recente.
Al funerale di Willy si presenta Brasile: un ragazzo che incarna in pieno l’estetica dei quattro aggressori del giovane, e per il fatto di essere li viene accolto e contestato molto duramente da parte dei partecipanti alla funzione. In sua difesa si espone Vauro, vignettista di sinistra sagace e pungente, estremamente schierato politicamente. È a questo punto che ricordo chi fosse Brasile. Qualche tempo fa mi aveva colpito e avevo seguito l’episodio del loro litigio durante un episodio della trasmissione “Dritto e Rovescio”. La discussione aveva avuto toni feroci, sfiorando la rissa perché Massimiliano Minocci, detto Brasile appunto, presentato come fascista, aveva tenuto dei toni aggressivi e minacciosi nei confronti di una giornalista presente, scatenando la reazione di Vauro in difesa di quest’ultima.
La querelle continuata poi puntualmente sui social ha avuto un epilogo inaspettato quando Vauro, con una lettera aperta, invitava Brasile a una cena, per parlare faccia a faccia, in privato, a porte chiuse. Invito accettato da Minocci. In questo passaggio (la lettera è facilmente reperibile online, vi invito a leggerla perché credo ne valga la pena) la violenza lascia il posto al dialogo tra due verità interiori che non si riconoscono reciprocamente fino a quando non smettono di urlare e possono comunicare. Mi pare che la voce di Vauro a difesa di Brasile testimoni che quella porta in qualche modo si è aperta per davvero: quanto e come durerà non lo so ma mi piace pensare che sia una strada percorribile.
Spero sia possibile un incontro per creare una società migliore dove tutte le Maria Paola possano stare con il loro Ciro e i Willy possano continuare a sorridere senza che serva il loro sacrificio a ricordarci che non stiamo facendo abbastanza, ciascuno di noi. Possiamo e dobbiamo diventare meglio di così.
Massimiliano Mariani
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