DAL DIARIO DI UNA VECCHIA PSICOANALISTA – LAURA SCHWARZ

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I boy scout, la vecchietta e il Coronavirus

Quando ero giovane circolava la seguente storiella sui boy scout, i quali, per continuare a essere tali, erano tenuti a compiere almeno una buona azione ogni giorno.

Una sera, tre ragazzini si recano dal loro superiore per fare il resoconto della giornata. Il primo comunica che la buona azione da lui compiuta consiste nell’aver aiutato una vecchietta ad attraversare la strada (questo era considerato il prototipo della buona azione); il superiore annuisce contento e si rivolge al secondo ragazzo che riferisce: “Anche io ho aiutato la vecchietta ad attraversare la strada”; il superiore annuisce, seppure con minore entusiasmo. Ma, quando anche il terzo ragazzo racconta di aver aiutato la stessa vecchietta, il superiore scatta: “Ma, ragazzi, dovevate proprio mettervi in tre per aiutare una vecchietta ad attraversare la strada?”; “Sì” rispondono i tre ragazzi, “perché la vecchietta non ne voleva sapere di attraversare!”.

Mi piace molto raccontare questa storiella a chi non l’aveva mai sentita o forse l’aveva dimenticata; e ogni volta che la racconto suscita un genuino scoppio di risa, perché la comicità della situazione risalta con molta evidenza.

E ogni volta che io ci ripenso mi metto istintivamente nei panni della vecchietta, visto che indiscutibilmente sono una vecchietta anch’io: nei suoi panni, quindi, mi sento colta di sorpresa, strattonata, stordita dalla grossolana irruenza di quei giovani energumeni, e soprattutto usata da loro per soddisfare una propria esigenza narcisistica.

La storiella tuttavia mi serve anche da monito per evitare che, sia nella mia attività professionale sia nelle mie relazioni private, sotto l’apparenza di una buona azione, si nasconda semplicemente una mia soddisfazione narcisistica, che mi ricorda quelle buone intenzioni di cui si dice essere lastricato l’inferno.

All’inizio dell’emergenza da Coronavirus, la buona azione raccomandata ai giovani di sana e robusta costituzione consisteva nel proteggere gli anziani dal rischio del contagio: per esempio evitando loro di uscire per la spesa e recapitandogliela a casa; e comunque a tutti, anziani e non anziani, veniva quasi ossessivamente raccomandato di uscire il meno possibile e di affidarsi in massima misura all’informatica, evitando i contatti personali e io, in quanto psicoanalista, sono molto sensibile ai rischi che questo modo di esprimersi e di comunicare comporta per un sano uso del pensiero e dell’affettività.

Fin da subito il fatto di vedermi inserita in una categoria, quella degli anziani, mi ha suscitato una certa irritazione: essere considerata semplicemente una anziana mi suona troppo generico. Io mi considero infatti un’anziana psicoanalista, benché a riposo. E, in quanto psicoanalista, ho fin dall’inizio percepito qualcosa di malsano, o addirittura mortifero, in questa universale raccomandazione: tendo a vedere in essa una specie di legittimazione delle fobie (tanto è vero che alcuni fobici sono stati ben felici di metterla in pratica). La raccomandazione si concentra esclusivamente sul valore della sicurezza, puntando a ridurre il rischio ai minimi termini. Ma senza correre alcun rischio si rischia, se non di morire, quantomeno di non crescere e, comunque, di non evolversi.

Ma torniamo ora alla vecchietta della storia, alla quale i boy scout volevano “infliggere” una buona azione solo per sentirsi buoni e bravi, soddisfacendo così i propri bisogni narcisistici: e io mi insospettisco quando, nelle pressioni che ricevo da parenti e amici, sento troppa puzza di buona azione.

Non amo quindi essere sollecitata da loro quando mi propongono con insistenza di starmene, per così dire, in naftalina, lasciando che siano loro a compiere la buona azione, sostituendosi a me nell’espletamento di varie funzioni.

Si tratta sempre di persone che mi vogliono bene, quindi nella loro offerta di aiutarmi si mescolano in genere, in varie possibili combinazioni, sia motivazioni narcisistiche sia il desiderio di fare qualche cosa di buono per me. Ma io ho la presunzione di essere la sola persona a sapere che cosa mi fa veramente e pienamente bene; per esempio, mi aspetto che capiscano e non disprezzino la mia aspirazione a poter essere io a cercare la combinazione fra sicurezza e rischio per me ottimale.

E, solo quando mi sento riconosciuta e capita, si verifica un’esperienza rara e molto bella che coinvolge sia chi mi offre aiuto sia me che l’aiuto lo ricevo.

Quanto al mio modo di comportarmi nei riguardi dell’epidemia, io intendo obbedire a leggi e prescrizioni, fintanto che non entrino in conflitto con la mia coscienza; intendo anche rispettare i timori di chi, più di me, teme di esporsi al rischio.

Constato comunque che oggi, da ogni parte, si parla di un giusto equilibrio fra sicurezza e rischio, come se, dall’inizio della pandemia a oggi, il mondo intero fosse un poco maturato. E io sono fiera di aver visto, anche se solo fra me e me, il rapporto fra sicurezza e rischio in termini di costi e benefici partendo dalle mie riflessioni sulla natura umana.

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