Diletta Mercogliano, Erica Mitta, Oliver Baumgartner, Carol Damioli e Ambra Acquati
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Riflessioni emerse dalla realizzazione di “Io ti sento, tu mi senti?”, un progetto di promozione del benessere adolescenziale che ha coinvolto i ragazzi degli istituti secondari di secondo grado di Milano. Il progetto è stato ideato e condotto da Spazio Hestìa, gruppo di tirocinanti del Ruolo Terapeutico, attraverso attività pensate per dar voce e ascolto alle emozioni degli studenti al rientro a scuola dopo due anni di chiusure e didattica a distanza.
I Greci distinguevano il tempo in krónos e kairòs, offrendoci l’idea che, oltre al tempo fisico, che scorre inesorabile, esista un tempo di mezzo, un momento opportuno perché qualcosa di significativo accada.
Ai nostri occhi, l’adolescenza è quel momento opportuno – e necessario – in cui qualcosa è pronto a succedere se trova spazio per realizzarsi. Negli ultimi due anni però, gli adolescenti, proprio nell’attimo per loro più prezioso per mettersi alla prova e iniziare a sperimentarsi nella società per dare forma alla propria identità, sono stati intrappolati in quattro mura con solo una finestra virtuale attraverso cui continuare ad affrontare, non senza alcun rischio, i compiti evolutivi tipici della loro età.
Il desiderio che ci ha guidati nell’intraprendere il nostro progetto è stato quello di fornire proprio a questi ragazzi un luogo di ascolto ed espressione per aiutarli a dare senso a quanto accaduto. Un’idea che si è trasformata ben presto in un’esperienza immersiva all’interno del sistema scolastico e del mondo degli adolescenti, incredibilmente complesso, travolgente e a tratti caotico.
Proviamo ora a raccontarvelo.
La noia, diceva Moravia, è una specie di insufficienza, inadeguatezza o scarsità della realtà e quanto possa essere stata scarsa, insufficiente e inadeguata la realtà degli adolescenti in quarantena lo abbiamo dapprima ipotizzato, poi ascoltato attraverso le parole dei ragazzi che abbiamo incontrato lo scorso autunno. Una realtà ristretta, povera di stimoli che sono stati ricercati da tutti, specie dai più giovani, nei device a portata di mano: in apparenza preziosi alleati nel garantire la continuità degli affetti e del diritto all’istruzione, in sostanza, l’unica finestra attraverso cui affacciarsi sul mondo esterno. Relazionarsi con l’altro in aule e luoghi di aggregazione virtuali realizza un vero e proprio paradosso della comunicazione in formato digitale, la quale permette di sviluppare al massimo le potenzialità sociali dei suoi utenti ma, di fatto, riducendone il coinvolgimento sociale reale. Incontrarsi in bi-dimensione significa infatti incontrarsi senza corpo, ovvero senza quella componente che, per prima, entra tipicamente in contatto con l’esterno, ponendosi come mediatore tra il soggetto e le sue relazioni e dunque fondamentale in ciascun percorso di crescita e di sviluppo identitario.
I ragazzi ci dicevano che, all’improvviso, la scuola era diventata più comoda, raggiungibile senza alzarsi presto, senza prendere l’autobus, senza impegnarsi neanche granché, in altre parole, senza tutti quei rituali quotidiani che strutturavano i giorni “prima del covid” e insieme le loro identità, il loro senso di appartenenza. Ecco che allora la noia è figlia dell’immediatezza, laddove tutto è prossimo e rapido, nell’ulteriore paradosso di una realtà diventata tanto veloce da scorrere lenta per l’infinito tempo libero che ha concesso. “Ma tempo libero per fare cosa?”, domandavamo ai ragazzi quando il tema del tempo cominciava ad emergere sempre più di frequente dai loro vissuti, “tempo per giocare ai videogiochi, tempo per dormire, tempo per fare niente” ma anche “tempo tutto uguale” “monotono” “noioso e ripetitivo”, ci hanno risposto loro, che non sentivano nemmeno di essere invecchiati.
È difficile fare i conti con la sensazione di trovarsi in una sospensione temporale, come dentro una bolla, e convivere contemporaneamente con la consapevolezza che niente è realmente in pausa. Per alcuni questa interruzione ha offerto un rifugio, una comfort zone in cui sospendere il confronto con le prove della realtà esterna, per altri ha rallentato il raggiungimento di importanti obiettivi, per tutti ha significato in qualche modo una perdita: la perdita della vita così come la si conosceva, delle occasioni di socialità, dei punti di riferimento, delle sicurezze.
Il senso di isolamento e di vuoto che accompagnano la perdita e che risuonano nelle parole dei ragazzi che abbiamo conosciuto, si aggiungono a qualcosa che è già presente di per sé nella loro età. Queste sensazioni riecheggiano i vuoti interiori con i quali l’adolescente si trova a dover fare i conti, conseguenti al processo di disillusione e de-idealizzazione delle figure infantili di riferimento, i genitori, che in questa fase non appaiono più né onnipotenti né onniscienti. L’adolescente sperimenta così profondi vissuti depressivi di impotenza e debolezza, attraverso cui deve transitare per trasformare le illusioni, i dubbi e la confusione innescata da trasformazioni corporee, cognitive e psichiche in quella consapevolezza che permette l’accesso ad una posizione adulta.
È questa consapevolezza che ci guida ora nel riflettere sull’impatto che una situazione di profonda incertezza come quella della pandemia possa aver avuto su questo preciso momento di vita, dove il bisogno già impellente dei ragazzi di dare un senso ai propri cambiamenti interni ed esterni non si è arrestato come invece tutto il resto. Pensiamo anche a quanto possa aver influito negativamente la mancanza della dimensione gruppale e amicale, la quale, costituendosi come bacino di nuove identificazioni, risulta fondamentale nel sostenere il processo di progressiva autonomizzazione e di costruzione del sistema di valori che guiderà le scelte individuali.
Nei racconti dei nostri adolescenti abbiamo sentito una sofferenza legata alla trascuratezza delle relazioni e, soprattutto, delle passioni, quando non si poteva più seguire le lezioni di musica, esibirsi su un palco con la propria band, giocare a calcetto con la propria squadra o semplicemente uscire con gli amici. Quando, in sostanza, non ci si poteva più prendere cura della parte più preziosa di sé. Infatti, mentre da un lato emergeva sempre più chiaramente l’esigenza di occuparsi di se stessi e del proprio spirito (pensiamo soprattutto al primo lockdown), dall’altro si imponeva la necessità di lasciare da parte o comunque di non poter nutrire pienamente il proprio sé più autentico. In un tutto così svuotato, appiattito, attutito, era come se in fondo non si riuscisse davvero a sintonizzarsi rispetto a se stessi e a come si stava una situazione del genere, mancava cioè l’intensità, il riconoscimento e l’espressione di quelle emozioni che fanno da guida nella ricerca della passione che siamo naturalmente portati a coltivare e senza le quali è difficile rintracciare la propria indole.
È evidente l’importanza di dedicare a queste tematiche uno spazio di ascolto neutro dove re-incontrarsi, aperto al confronto con i pari, compagni in questa ricerca, in cui riuscire a rielaborare i vissuti legati a quanto è accaduto, affinché non rimangano inespressi e assumano invece significato nella vita di ciascuno.
Ed è stato dentro a questo spazio co-costruito insieme ai ragazzi che le nostre attività hanno offerto lo spunto necessario da cui partire per tirar fuori pensieri, paure e speranze, facendoci scorgere, tra i tanti bisogni, anche preziosissime risorse, magari in apparenza sopite, che aspettavano solo il momento opportuno per esprimersi ed essere riscoperte. Aver vissuto tutti la stessa sospensione, aver sperimentato la medesima incertezza, costituisce una risorsa per creare connessione e vicinanza: il valore di qualsiasi esperienza comune, di qualunque natura essa sia è, infatti, la condivisione. Rispecchiarsi reciprocamente è un’opportunità che permette ai ragazzi e agli adulti di ridurre le distanze e creare quel dialogo utile a riscoprire l’incontro reale.
Il bisogno di essere visti come persone ed ascoltati nella propria autenticità è stato ciò che ha spinto i ragazzi ad esporsi e a confrontarsi, alle volte anche in modo oppositivo, sugli aspetti relazionali, riguardanti i pari e gli insegnanti, che avrebbero voluto modificare. A stare stretta era quella identità predefinita dal loro ruolo di studenti, generata da un sistema scolastico basato su un approccio prevalentemente valutativo che si è mantenuto e, paradossalmente intensificato, durante la DAD e in cui non c’era spazio per conoscersi realmente. L’impressione è che, di fronte a una situazione certamente critica e a un contesto inesplorato, la soluzione sia stata quella di mantenere immutate le modalità didattiche, trascurando però le nuove esigenze e, di conseguenza, non integrandole poi nella ripartenza.
Tra queste nuove esigenze, oltre che il bisogno di vicinanza e di spazi di aggregazione, spicca indubbiamente una grande fame di relazioni. Relegati nelle aule virtuali prima e costretti a stare seduti ai propri banchi persino durante l’intervallo una volta ritornati a scuola, i ragazzi ci hanno confidato di non conoscersi tra loro pur essendo compagni di classe, in alcuni casi anche da tre anni. Da qui la preferenza per quei momenti e quelle attività in cui hanno potuto lavorare e confrontarsi in gruppo, il desiderio di avere un compagno di banco, ma anche il bisogno di evasione dalla classe, dalla scuola e dalle regole imposte su di loro senza possibilità d’appello, da tutti quegli spazi che stanno stretti e che finiscono per alimentare un senso di sfiducia generale verso la scuola.
Il tempo che abbiamo trascorso con loro ci ha permesso di comprendere quanto essi siano consapevoli di tutto questo, stanchi di un sistema che non li riconosce per chi sono e che non offre loro alcuna garanzia per il futuro. Vedere quanto essi siano capaci di guardarsi dentro e, se ascoltati, di comunicarlo pur con differenti gradi di consapevolezza, ci ha fatto capire l’utilità di momenti di condivisione per aiutarli a crescere.
L’impressione che ci è rimasta è quella di aver lavorato con ragazzi con bisogni nuovi, arrabbiati e risentiti, ma come assopiti, pieni di energia, ma incapaci di incanalarla verso direzioni specifiche al punto da venir dispersa nel caos o impiegata in attività, come stare sui social, che risultano monotone e noiose e da cui faticano a staccarsi. Questo avviene probabilmente proprio perché stiamo parlando di persone che hanno ancora bisogno di figure di riferimento attente e competenti e noi, che come professionisti conosciamo l’importanza delle relazioni con i pari, non possiamo non allarmarci di fronte alla solitudine e alle difficoltà a cui le circostanze attuali espongono. Non dimentichiamo, infine, l’estrema capacità di adattamento e di flessibilità di questi ragazzi che sono risultati capaci, a volte più degli adulti, di vivere questa condizione con soluzioni originali e creative in un clima di totale incertezza. Dare fiducia a questo significa essere in grado di sostenere la volontà dei ragazzi di costituirsi come gruppo e supportare la loro spinta innovativa, oltre che le nuove sensibilità e possibilità che essi incarnano.
In generale, è importante trasmettere il messaggio che ciò che è accaduto ha avuto ripercussioni su tutti, su ciascuno di noi, ma ancor di più su coloro che si trovano in una fase critica dello sviluppo fisico, identitario, sociale. L’ambiente culturale adulto è chiamato a rispondere alle esigenze evolutive dell’adolescente e l’unica via per affrontare una situazione potenzialmente traumatica è accettarla come tale, dapprima in se stessi, per poi riconoscerla negli altri, poiché la sofferenza è vera, è reale, nel momento in cui lo è per chi la prova.
Spesso le interruzioni, i momenti di passaggio e i lutti sono cose che ci cascano un po’ addosso e che molte volte, anche quando sono previsti, innescano l’agire di una serie di difese che non ci permettono di vivere fino in fondo la perdita. A volte si ha paura di muoversi negli affetti, perché questi creano delle situazioni poco visibili pervase da una componente misteriosa, densa, impetuosa, non controllabile. Capita poi nella nostra società che non vi sia rispetto per gli affetti, per tutto ciò che riguarda la sfera emotiva: fa bene legittimare la tristezza, parlare delle paure e coloro che, come noi, operano nei contesti di cura, hanno un po’ il privilegio di far sì che questo diventi parte del lavoro.
Abbiamo avuto la possibilità di entrare a far parte, una piccola parte, del delicato contesto di crescita di questi ragazzi e più volte siamo usciti dall’aula col cruccio di non aver lasciato loro niente di utile. Il punto è che probabilmente non avranno parlato con noi delle loro preoccupazioni più profonde, ma quello che si porteranno dentro, o almeno ce lo auguriamo, è la disponibilità di un luogo in cui gli aspetti emotivi trovano spazio per poter essere contenuti, elaborati ed alleviati e in cui tutto ciò che ha a che fare con il benessere psicologico può essere accolto, espresso ed affrontato.
Il compito dello psicologo e dello psicoterapeuta, del resto, non sta nel ricercare la verità o nel prevedere gli effetti di una vicenda personale, ma nell’accogliere gli affetti e rimaneggiarli, digerirli per renderli più accettabili e gestibili da parte di chi li vive: il fatto di essere noi stessi strumenti di lavoro significa essere un po’ come una cassa che riceve le frequenze e le fa diventare musica.
Quello che poi ci permette in qualche modo di trascendere le chiusure, questa chiusura, e tutto ciò che finisce, è la memoria: dopo che ci siamo incontrati non possiamo davvero lasciarci, soprattutto nel tipo di lavoro che facciamo, nelle relazioni d’aiuto, rimane la funzione che abbiamo svolto e trasmesso, nel senso di funzione affettiva. Quella ce la portiamo dentro noi e loro.