Il miraggio del perfetto analista

di Dania Cappellini e Julie Cunningham

E Stravinskij replicò: certo, certo. Lo so che lei non può suonarlo.

Io volevo proprio ottenere il suono di qualcuno che tentava di suonarlo.

Stephen Mitchell

 

“Nel corso dei suoi cento anni di storia la psicoanalisi ha generato numerose spiegazioni psicologiche del funzionamento della mente umana. Due di esse sono molto importanti e sono alla base dell’intera impresa psicoanalitica. La prima la dobbiamo alle investigazioni cliniche iniziali di Freud, ed è che la mente di un individuo è straordinariamente complessa (…). La seconda, ampiamente sviluppata soprattutto nell’opera di Harry Strack Sullivan, è che le frontiere tra gli individui sono molto più permeabili di quanto sembra, e che ciascuno affronta frammenti disturbanti e minacciosi della propria complessità mentale collocandoli e vivendoli negli altri”.

Si apre con queste parole, semplici e chiare, Influenza e autonomia in psicoanalisi, uno degli ultimi libri di Stephen A. Mitchell, spentosi ormai 17 anni fa, che per primo introdusse in psicoanalisi (insieme a Jay Greenberg) il termine “relazionale”, diventando così uno dei primi cinque docenti (Philip Bromberg, Bernard Friedland, James Fosshage, Emmanuel Ghent e Stephen Mitchell appunto) che contribuì alla nascita, nel 1988, dell’indirizzo relazionale alla New York University.

La psicoanalisi relazionale come è noto enfatizza il ruolo delle relazioni dell’individuo con gli altri, siano esse reali o immaginarie, nei disturbi mentali e in psicoterapia. È una scuola in continua evoluzione, benché i suoi fondatori la considerino un cambiamento epocale in psicoanalisi perché le relazioni con gli altri costituiscono gli elementi strutturanti fondamentali per la costruzione della vita mentale. Tanto da affermare, forsanche in modo un po’ drastico, che ciò che viene percepito in qualunque luogo esterno all’individuo in realtà ha luogo al suo interno.

La formulazione di questa “scuola di pensiero” è della fine degli Anni Ottanta, come si diceva. Successivamente ripresa, ampliata e “codificata”, come in questo libro che è del ’93 ma è arrivato in Italia alla fine del decennio.

Scrive Mitchell che se il grande valore della tecnica psicoanalitica classica stava nel semplice fatto di aiutare l’analista nel suo lavoro, oggi l’interrogativo più frequente è: “Come faccio a sapere cosa devo fare?”. Domanda alla quale anche molti psicoanalisti relazionali hanno difficoltà a rispondere. In passato – diciamo così – o almeno prima dell’affermazione della scuola newyorkese, l’approccio tecnico tradizionale comportava alcuni precetti del tipo “Mantieni la cornice psicoanalitica”, “Non fare mai domande”, “Non rispondere mai alle domande”. Regole che notoriamente oggi non funzionano più: si parte dall’idea infatti che spesso il paziente si rende conto di quello che sta “dietro” l’atteggiamento dell’analista e si aspetta che egli si comporti con lui in modo più autentico e meno rigido. Basta aver seguito qualche episodio di “In treatment”, encomiabilmente interpretato da Sergio Castellitto, per rendersene conto e pretendere poi nei propri tre quarti d’ora comportamenti analoghi.

Lo scopo dunque di Mitchell in Influenza e autonomia in psicoanalisi è quello di mostrare che concetti psicoanalitici attuali, quali l’interazione, partono da una lunga storia, hanno avuto sviluppi ampi e differenziati all’interno di differenti tradizioni teoriche e vengono applicati in modo altrettanto vario dagli analisti. Di qui, sempre nel libro, una sorta di “manuale di comportamento” di atteggiamento relazionale, che aiuti a rispondere alla domanda primitiva: come faccio a saper cosa devo fare? Perché – sempre secondo Mitchell – non è vero che si “possa fare qualunque cosa” ma è necessario padroneggiare una tecnica. Perché se è vero che i grandi artisti e i grandi atleti (ma leggi anche “analisti”) che si limitano ad essere ottimi tecnici restano mediocri e limitano le loro possibilità, è altrettanto vero che non potrebbero ottenere i risultati che ottengono senza essere padroni di una tecnica.

In otto capitoli così strutturati l’Autore tocca tutti gli argomenti “tecnici” (ma ovviamente non solo) necessari: dall’insight al transfert, dai momenti di impasse a quelli di nervosismo, dall’interazione vera e propria all’esercizio dell’autorità. Per concludere con queste testuali parole: “Una buona tecnica psicoanalitica significa non tanto azioni corrette, quanto piuttosto un pensiero rigoroso in un continuo processo di riflessione e riconsiderazione” perché se è vero che ”non esistono singole azioni cliniche corrette è altrettanto vero che esistono singole azioni cliniche scorrette”.

Per capirci: un analista che ritiene di essere caldo e rassicurante per esempio “potrebbe” essere vissuto certamente in questo modo, ma ”potrebbe” anche essere vissuto come orribilmente servile. Il “manuale”, così come lo chiamiamo ovviamente in modo riduttivo, è ricco in oltre duecento pagine di esempi, relazioni terapeutiche vissute, errori commessi e da non commettere, proprio allo scopo di fornire un’ampia casistica non solo teorica di “regole” da recepire. Fatti salvi un’autonomia relazionale fondamentale e un personale stile nel prendere decisioni.

L’onestà di Mitchell in questo libro è straordinariamente utile al lettore, proprio perché il manuale non è un manuale con risposta, ma un “manuale” con una serie di domande che portano ogni lettore a riflettere sul proprio lavoro. Menziona diverse volte la posizione delle proprie scelte nel formare la base per un senso della vita: “I risultati delle nostre scelte hanno molto a che fare con come definiamo maturità e immaturità, realismo e idealismo, salute e patologia, valore e significato. Quello che è realismo per un analista è resa masochistica per un altro; quello che è vitalità robusta e sfidante per uno è avvicinamento all’onnipotenza o trionfo edipico e disastro per un altro”. Entra poi facilmente nella propria storia per cercare di capire come le proprie scelte influiscano sulla sua comprensione di quello che gli portano i suoi pazienti. E descrive due paradigmi clinici con due semplici domande. Da “relazionalista” chiede: “Che cosa sta succedendo qui e ora?” mentre l’altro paradigma, più tradizionale, chiede: “Che cosa significa?”.

Anche con i sogni Mitchell non si concentra sul significato o nel decodificare il sogno ma piuttosto nel “coinvolgere il paziente nel sogno in un modo che accende e arricchisce il proprio interesse analitico in se stesso”.

Per una di noi questo concetto ha riportato in mente un episodio con la propria madre molto anziana, un momento di gioco della fantasia, una specie di sogno condiviso, felice e divertente in un momento doloroso. L’anziana signora, ormai completamente cieca, è sdraiata sul divano nella sua camera della residenza dove abita. Degli imbianchini hanno appena fatto vedere alla figlia il loro lavoro finito nel bagno attaccato alla camera. La signora ascolta attentamente quello che dice sua figlia: “Mamma, ti descrivo una cosa incredibilmente bella che ho appena visto nel tuo bagno. I pittori hanno finito adesso e sulla parete di fronte alla porta hanno dipinto una fontana schizzante con vicino una donna giovane e molto bella con i capelli biondi, lunghi e ricci”. Man mano che racconta, la figlia si anima sempre di più, e la mamma sorride e ascolta: “Nel cielo azzurro ci sono uccelli di diversi colori e per terra fiori di tanti tipi che si estendono intorno a tutta la stanza. Sembrano crescere mentre li guardo…”. Il sorriso della vecchia è di piacere e connivenza e tutte e due si sentono bene insieme.

All’inizio del libro Mitchell porta una citazione di Loewald del 1960: “Sembra essere la paura di modellare il paziente alla propria immagine che ha impedito agli analisti di affrontare la dimensione del futuro nella teoria e nella pratica analitica, un’omissione strana considerato il fatto che crescita e sviluppo sono al centro dell’interesse psicoanalitico”. Il messaggio di Mitchell sembra essere proprio quello di voler rispettare sempre la forza del paziente, le sue capacità creative e di crescita, il suo contributo a un uso dell’equilibrio giusto tra “influenza e autonomia” nella relazione psicoanalitica. “Le comprensioni che emergono nella mente dell’analista riguardo al paziente sono impiantate nel miscuglio fluido e interpenetrante del loro incontro, con il loro impatto perpetuo l’uno sull’altro”.

Stephen A. Mitchell, Influenza e autonomia in psicoanalisi, Bollati Boringhieri Ed., pagg.246, € 27,20

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