IL LIBRO DELL’INCONTRO (a cura di G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato)
Daniela Federici
“L’oscurità non può eliminare l’oscurità.
Solo la luce può farlo.”
M.L. King
Quante volte un libro riesce a condurci fuori di noi espandendo dolorosamente i nostri contorni?
Questo libro raccoglie echi della lunga esperienza d’incontro fra vittime e responsabili della lotta armata degli anni di piombo, un Gruppo nato per la spinta volontaria a cercare un luogo dove fosse possibile essere ascoltati, dove provare insieme ad avvicinare il senso di tutto quel dolore provocato e subìto, mettendo in parole l’inenarrabile.
I curatori si sono offerti nella funzione di mediatori, e insieme a terzi rappresentanti della società civile e alcuni garanti delle istituzioni, hanno introdotto l’alterità nell’esperienza sofferta e incommensurabile del noi di un confronto. Un lavoro nato nel silenzio e in un lungo ascolto, tessitura policentrica molto attenta alle fragili parole che possono mettere in relazione senza nascondere le distanze ineliminabili. Quel farsi cavi di un luogo abitabile in cui albergare le tensioni e la sofferenza, tenendo i fili di tutto ciò che preme e lacera mentre va prendendo forma, emerge dalle pagine come un’esperienza umana profonda, un aver cura che non ha cercato di mettere d’accordo né sanare ma si è riproposta un’equa prossimità dove ognuno potesse riconoscere ciò che più intimamente porta dentro e dargli un nome.
È una lettura in cui si entra in punta di piedi, nel silenzioso rispetto per la fatica di chi continua a elaborare il male riattraversandolo e guardandolo riflesso nell’altro. Il racconto del Riccetto e della rondine dei Ragazzi di strada di Pasolini che fece da sfondo al primo degli incontri, immerge anche chi legge nell’apnea di quel buttarsi a rischio dell’ignoto, richiamo inspiegabile quanto irresistibile di un movimento verso l’altro, della speranza sospesa sul dischiudersi delle misteriose vie del riconoscimento reciproco. Un andirivieni di passi nelle nebbie fittissime di un andare incontro che riporta ciascuno indietro a chi si è stati, nella “tensione tragica tra la mutabilità dell’agire e l’eterna immutabilità dell’aver fatto, tra la responsabilità e il dramma dell’irreparabilità, tra la giustizia e l’arendtiana impossibilità di punire l’inespiabile.” Un atto di parresia, un reciproco affidarsi che nella tensione fra sospetto e fiducia gioca la partita di un’attingibile verità della testimonianza morale, verità dell’esperienza che entrambi, colpevoli e offesi, recano in sé. La dimensione portante è quella degli affetti, di vite trasformate fino alle persone “impigliate nella storia”, ai figli, al dolore innocente che si fa terreno di incontro di comunanze impensabili.
“Questo gruppo è stato importante, mi ha consentito di portare a un livello di realtà i mostri che popolavano la mia testa.”
La tragedia del terrorismo è stata anche la tragedia culturale dell’incapacità di comprenderlo ed elaborarne le conseguenze profonde, l’occasione perduta di un metodo pubblico per andare alla radice dei processi di delegittimazione del sistema democratico e risolverli, per ricostruire il legame sociale compromesso, il buco nero nel quale è precipitata un’intera fase storica con le sue domande senza risposta. L’immobilità di un dolore che si riapre alle commemorazioni, con la sua funzione di testimonianza e di monito morale, per poi riprecipitare nella smemoratezza pubblica, non ha consentito al corpo sociale di alleviare la solitudine delle vittime né di elaborare il lutto collettivo che quegli anni hanno rappresentato.
Il libro rende conto con estrema delicatezza e riserbo del percorso del Gruppo in questi anni, del tumultuoso emergere di una “comunità di memoria” che ha accolto le voci di tutti coloro che, investiti del male, si sono fatti dovere morale oltre che necessità profonda di raccontare, sgombri dall’illusione di una memoria condivisa, consegnandoci un prezioso lavoro di ricomposizione che ha consentito di umanizzare i dissidi senza nessuna pretesa di scioglierli.
Ci si trova di fronte a un’esperienza etica profonda, a un’assunzione di responsabilità che non è più quella penale per i crimini commessi ma una responsabilità più “intima: quella che nasce dentro le relazioni – di giorno in giorno più intense – e che non ha più (sol)tanto a che fare con l’essere “responsabili di” qualcosa e “per qualcosa”, ma che viene intesa come un percorso che conduce a essere “responsabili verso”, a rispondere – ex appartenenti alla lotta armata e vittime – l’uno verso l’altro. È un percorso che inizia con l’ascolto di se stessi e dell’altro, e che crea una graduale conoscenza di sé e del proprio interlocutore.”
Il lettore è chiamato alla promessa impegnativa di sospendere il giudizio per lasciarsi coinvolgere dalle voci dei testimoni di un’umanità colpita che siamo insieme, racconti che scavano varchi di risonanze costringendoci al doloroso travaglio delle nostre certezze, che ci chiamano a partecipare a quel doloroso processo di soggettivazione nello sforzo di elaborare un periodo tanto complesso e spaventoso della nostra storia. È una scrittura che consente a chi ha vissuto quegli anni di riattraversare i propri nodi e a chi non c’era una riflessione sulle condizioni di quegli avvenimenti, “un’eredità senza vittorie” eppure fondamentale anche per le generazioni future, non solo per quella terapeutica della memoria di cui parla Ricoeur, per costruire in foggia sana e robusta la relazione del presente con il futuro rispetto alla sua relazione con il passato, ma soprattutto per il richiamo che la soluzione violenta sempre esercita sugli esseri umani, per scongiurare le sue scorciatoie con una pratica di assunzione di responsabilità ed esercizio del pensiero.
Conosciamo l’importanza della storicizzazione per costruire lo psichico e il tessuto della nostra società, conosciamo ancora meglio le matrici inconsce e gli equilibri perversi dei meccanismi di scissione con i quali liquidiamo i conflitti, rispetto agli oneri dolorosi dei processi integrativi e trasformativi. Questo testo è un documento raro sulla fatica penosa per far spazio all’alterità, dentro e fuori di noi, senza scivolare nelle retoriche tollerantiste che svuotano di sostanza le differenze. Non abbandono del tragico ma abbandono nel tragico, nella consapevolezza che il significato di un simile itinerario non risiede nell’epilogo ma nella “zona di turbolenza” e nelle tortuosità che sono parte necessaria del percorso.
È un libro aperto su un futuro ancora da scrivere, uno spazio di possibilità che ciascuno è invitato a proseguire, attraverso quell’impegno riflessivo su di sé che è nutrimento della nostra responsabilità di trasformazione della Kultur ma soprattutto condizione della personale capacità di affrontare i nostri fantasmi a un tempo molto concreti e molto nascosti.
In qualsiasi cosa c’è una crepa
Ed è da lì che la luce entra.
Leonard Cohen, Anthem
Pubblicato su SPIWEB
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