INTERVISTA: LAURA SCHWARZ
A cura della redazione
– Come è arrivata alla scelta di questo mestiere?
Non mi sento di parlare di una vera e propria scelta, ma piuttosto di essere arrivata a questo mestiere attraverso un percorso un po’ casuale e a tentoni, fatto di varie esperienze, eventi e incontri.
Nata nel 1934, ricordo di aver scritto in un tema al liceo di essere affascinata dalla psicoanalisi, di cui avevo leggiucchiato qualcosa, anche se a quei tempi non era certo popolare in Italia. Mi sono iscritta alla facoltà di filosofia con la vaga intenzione di dedicarmi all’insegnamento, scegliendo poi una tesi in pedagogia. Subito dopo la laurea sono stata assistente del mio relatore per un periodo breve, ma sufficiente per capire di non essere adatta al mondo universitario. Nel frattempo ho conseguito un diploma come insegnante per bambini handicappati (allora si chiamavano subnormali), e ho insegnato un anno nelle scuole serali milanesi per studenti-lavoratori. Ottenuta una borsa di studio per un anno negli Stati Uniti, sono stata assegnata a una piccola e sconosciuta università del Middle West, dove l’unico corso che mi ha appassionata e in cui mi sono distinta è stato quello di counseling, e dove ho conseguito il “master in education”. Rientrata in Italia e restia ad affrontare i concorsi per insegnanti, ho preso tempo dedicandomi a traduzioni dall’inglese, dal francese e, in seguito, anche dal tedesco per diverse case editrici, una delle quali, la Feltrinelli, mi propose di assumermi come redattrice; proposta che immediatamente accettai. Fui destinata alla neonata collana di psicologia e psichiatria diretta da Pier Francesco Galli e Gaetano Benedetti; i testi di cui dovevo occuparmi mi interessavano, e così pure i contatti coi loro autori, esponenti delle tendenze allora dominanti della psicologia, della psichiatria e della psicoanalisi, in Italia così come in tutto il mondo occidentale. Passai poi alla neonata casa editrice Adelphi, aperta a panorami letterari e culturali internazionali.
Quando fu inaugurato, presso l’Università degli Studi di Milano, il corso di specializzazione in psicologia, la decisione di iscrivermi fu immediata e quasi istintiva. Durante gli anni del corso, le cui materie mi appassionarono come mai era avvenuto nei corsi di studio precedenti, mi mantenni con traduzioni e attività redazionali di testi di psicologia, psichiatria e psicoanalisi per le case editrici Feltrinelli, Boringhieri, Adelphi e FrancoAngeli. Nel frattempo fui accolta come tirocinante presso il centro medico psicopedagogico del Comune di Milano, inaugurato pochi anni prima sotto la direzione di Mariolina Berrini, la quale aveva dato fin dall’inizio a questo centro un’impostazione psicoanalitica.
Conseguita la specializzazione in psicologia, fui assunta come psicologa dal Comune di Milano e destinata a operare in uno dei nuovi centri, analoghi a quello in cui avevo svolto il tirocinio; ne divenni successivamente coordinatrice, mantenendo questo incarico fino al pensionamento.
Avevo nel frattempo iniziato l’analisi personale presso il centro milanese di psicoanalisi, dove in seguito fui accettata per il training, che percorsi fino a divenire socio ordinario. Aperto uno studio privato, vi esercitai attività di consultazione e trattamenti psicoterapici e psicoanalitici per bambini, adolescenti e adulti.
– La vede, per quanto la riguarda, solo come una professione, o…
La vedo anche come l’acquisizione di un modo di essere e di rapportarsi a sé e agli altri, del quale non ci si può mai più spogliare totalmente, neanche fuori dallo studio: ci si arricchisce, per così dire, di un terzo occhio, ma al contempo ci si carica di una nuova responsabilità.
– C’è mai stato un momento nella sua carriera in cui ha pensato di cambiare mestiere?
No, mai. Ho sempre avuto l’impressione di avere imboccato la strada giusta per me, persino nei momenti di maggior sconforto.
– Come si è modificato nel tempo il suo modo di operare nella stanza d’analisi?
Sono diventata più autentica, più attenta non solo alle comunicazioni del paziente, ma anche agli effetti emotivi che suscitano in me, e un po’ più flessibile nell’attenermi a regole e programmi prestabiliti.
– Il libro, o i libri, che più hanno contribuito alla sua formazione, e perché.
Non sono una gran divoratrice di libri. I Casi clinici di Freud mi sono rimasti particolarmente impressi per aver spalancato ai miei occhi il panorama della psicoanalisi. Pur avendo naturalmente, nel corso del tempo, letto e anche tradotto numerosi libri, vedo in seminari e supervisioni il contributo fondamentale alla mia formazione.
– I colleghi in carne e ossa che più hanno contribuito alla sua formazione.
Sono quelli che considero miei maestri: Mariolina Berrini, Tommaso Senise, Franco Ferradini, Irma Pick, Eric Brenman, Stefania Turillazzi Manfredi, Luciana Nissim, Giuseppe Di Chiara.
– Che cosa riconosce come un suo contributo personale, originale alla clinica e/o alla terapia?
Non ho dato alcun contributo scritto né alla clinica né alla teoria. Forse c’è stata una qualche originalità nei numerosi seminari di formazione che ho tenuto nel corso degli anni, nei quali ho sempre dedicato meticolosa attenzione ai primi contatti col paziente e alle modalità della presa in carico.
– Secondo lei vale ancora la distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia?
Oggi regna una gran confusione nell’uso di questi termini. La psicoanalisi è nata come costola della medicina e, partendo dall’esperienza clinica di Freud, si è poi sviluppata sia come metodo di cura che come teoria della personalità. Nei Casi clinici, Freud ci ha descritto sia uno splendido esempio di psicoterapia, non solo breve, ma addirittura brevissima, sia trattamenti più lunghi e più simili a quelli che, in seguito, sarebbero stati codificati come analisi nella scuola da lui fondata e nelle scuole fondate poi dai suoi discepoli dissidenti. Ogni scuola ha poi istituito per i propri discepoli un iter formativo che includeva un’analisi basata sulla teoria della personalità a cui si ispirava la scuola stessa. In questi percorsi analitici prevale l’aspetto autoconoscitivo, da cui possono anche scaturire effetti terapeutici secondari. Questo tipo di trattamento è in genere caratterizzato da una lunga durata e da un’alta frequenza di sedute.
Alcuni dei metodi di cura che oggi si definiscono “psicoterapia” hanno poco o nulla a che fare con la psicoanalisi, mentre altri, che si ispirano all’una o all’altra concezione psicoanalitica della personalità (o, anche, a un miscuglio di diverse concezioni), mirano primariamente alla riduzione dei sintomi o del disagio psichico. Queste terapie possono avere durata anche breve e richiedere una ridotta frequenza di sedute.
Oggi, tuttavia, solo chi è motivato a conseguire il titolo, ufficialmente riconosciuto, di psicoterapeuta o psicoanalista va alla ricerca di un trattamento che venga ufficialmente definito “analisi”, mentre chi soffre di sintomi o disagio psichico cerca perlopiù una qualche forma di cura da cui spera di trarre sollievo dalla propria sofferenza. Dipende dalla competenza e dalla coscienza del professionista (o del centro) a cui il paziente si rivolge in prima istanza indirizzare quest’ultimo all’uno o all’altro tipo di trattamento.
– Qual è, secondo la sua esperienza, il fattore essenziale d’efficacia della terapia?
Sono profondamente convinta che non esista un singolo fattore, bensì molteplici; fra questi contano molto la motivazione sia del paziente che del terapeuta, mentre possono essere di ostacolo certe incompatibilità tra le loro caratteristiche personali.
– Ritiene che esista uno scarto tra prassi e teoria in psicoanalisi?
Se questa domanda si riferisce a uno scarto fra la teoria a cui si ispira un determinato analista (ivi compresa la teoria della tecnica) e il suo modo pratico di operare, c’è sempre perlomeno un certo scarto; l’analista, se ne prende coscienza, dovrebbe difatti porsi questa domanda: “Ho predicato bene e razzolato male? O, forse, mi sono discostato dalla teoria, perché in fondo non ne sono veramente convinto?”.
– Che rapporto c’è, se ritiene che ci sia, tra la sua concezione della terapia e la sua concezione esistenziale.
Entrambe non sono statiche, ma in continua evoluzione, ed evolvendo si influenzano reciprocamente.
– Secondo lei qual è il rapporto tra etica e psicoanalisi?
Il percorso analitico amplifica e approfondisce nel paziente la conoscenza di sé, portandolo a prender coscienza di proprie caratteristiche e di propri contenuti psichici di cui in precedenza non aveva consapevolezza, perché senza rendersene conto li nascondeva a se stesso o li camuffava in vari modi ai propri occhi: si può quindi considerare il processo analitico come un percorso in direzione di una maggiore autenticità e sincerità, un percorso insomma verso il valore etico dell’onestà.
L’analista ha percorso in precedenza un tratto di questo cammino, dapprima con la propria analisi, in seguito educandosi giorno per giorno nel lavoro coi pazienti, attento a decifrare, monitorare e controllare le proprie reazioni emotive dinanzi alle comunicazioni del paziente. Quest’ultimo va aiutato a perseguire la massima, possibile autenticità, nel rapporto con se stesso e nel rapporto con l’analista, e a riconoscere in sé i movimenti e le aspirazioni anti-etiche, tra cui la sopraffazione o l’inganno del prossimo, analista compreso.
L’io del paziente così si rinforza, divenendo più capace di mediare fra le pulsioni istintuali e le pressioni mortifere di un super-io crudele e punitivo.
L’acquisizione di questi risultati comporta tuttavia fatica e dolore: la fatica a riconoscere aspetti di sé narcisisticamente sgradevoli e il dolore di rinunciare ad aspettative narcisistiche irrealizzabili.
La psicoanalisi è un percorso a ostacoli verso una meta che non sarà mai pienamente raggiunta.
– Secondo lei qual è il futuro della psicoanalisi?
Ritengo che la cosiddetta psicoanalisi classica non possa sopravvivere a lungo come metodo di cura: l’attuale stile di vita, con i suoi ritmi frenetici e la superficialità che inevitabilmente ne consegue, mi sembra incompatibile con la profondità a cui può spingersi il processo analitico, idealmente anche interminabile. La concezione psicoanalitica dell’uomo ha ampliamente fecondato e impregnato di sé tutti i settori della cultura, influenzando in particolare la medicina, la pedagogia, la psicologia e, in genere, tutte le cosiddette helping professions. È impossibile, e comunque poco rilevante, prevedere quali modalità di trattamento psicoterapico si autodefiniranno “analitiche” in futuro.
– La nostra visione/concezione del lavoro terapeutico prevede che si facciano entrare nella stanza gli aspetti filosofico-esistenziali dell’uomo. Lei cosa ne pensa?
Se per stanza si intende lo studio dove si svolge l’attività psicoterapeutica, essa deve naturalmente accogliere qualunque comunicazione del paziente. Ritengo, però, che l’analista dovrebbe attenersi alla propria funzione, concentrandosi sulla dinamica relazionale fra lui e il paziente, evitando di coinvolgersi in conversazioni o discussioni a sfondo teorico e/o ideologico ed evitando comunque di esporre proprie convinzioni personali.
– A chi si appresta a iniziare questo mestiere quale suggerimento darebbe?
Rispondo a questa domanda in modo intrinsecamente contraddittorio: benché una motivazione esclusivamente professionale non costituisca la più promettente porta di ingresso per il processo analitico, consiglierei di intraprendere una buona analisi personale finché la cosa è ancora possibile, per ampliare e approfondire la conoscenza di sé. Suggerirei, inoltre, di non trascurare l’arricchimento della propria cultura generale, specie di quella umanistica e di non sforzarsi di imitare meccanicamente alcun modello operativo, rispettando la propria autenticità.
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