Joker, tra male e follia
Fulvia Ceccarelli
Cosa tiene un nutrito manipolo di adolescenti, muniti di lattina di Coca-Cola e bidone di pop corn d’ordinanza, letteralmente inchiodati alle poltrone, senza fiatare, quasi trattenendo il respiro, per l’intera durata di un film di due ore? Quel che non possono gli adulti, ha potuto Joker, vincitore del Leone d’Oro a Venezia 2019, sul quale è stato già detto e scritto molto. Tornando per un attimo agli adolescenti, che rappresentano un’ottima cartina di tornasole per lo studio di certi fenomeni sociali, concorderete che il loro comportamento è piuttosto inusuale. Forse si erano illusi di assistere ad una trasposizione in carne e ossa dei fumetti della DC Comics, quelli che narrano le avventure di Batman e Joker, l’eroe e l’antieroe per eccellenza, che scorrazzano per le strade di Gotham city? Se così fosse, capita l’antifona, si sarebbero messi a schiamazzare in segno di protesta.
Trovo che Joker veicoli un messaggio potente, di grande attualità, certamente condivisibile ma, a dirla tutta, non particolarmente originale perché ampiamente dibattuto. In sintesi: la malattia mentale non nasce solo da una familiarità o predisposizione genetica, ammesso e non concesso che di questo si tratti, quanto piuttosto dal sistematico disconoscimento, dalla reiterata mancanza di cure, attenzioni, ascolto da parte delle figure parentali. Cioè degli adulti. Per non dire delle gravi inadempienze della società, giusto per deresponsabilizzarci un po’. Che poi siamo noi, con le nostre scelte quotidiane. Ora, che la malattia mentale abbia un’origine sociale si è cominciato a pensarlo già agli inizi del Novecento. Tanto che negli Anni Settanta, in Italia, un signore che di nome faceva Franco Basaglia ha tentato una riforma coraggiosa della Psichiatria. Propugnando la sostituzione della tetra istituzionalizzazione manicomiale con dei presidi territoriali. Purtroppo, non sempre adeguati, come sottolinea il regista del film. Basaglia, raccolta l’eredità di Husserl e Jaspers, riteneva che la follia non riguardasse solo il corpo ma anche l’anima del malato. E che lo psichiatra dovesse smettere i panni dell’asettico medico positivista e usare la propria umanità per accostarsi alle esperienze dolenti dei malati di mente. A questa lettura, oggi largamente maggioritaria, si oppone lo zoccolo duro degli psichiatri organicisti, tuttora convinti che umanità e professionalità siano mutuamente esclusive.
Il cuore del problema, ovvero ciò che ci sconcerta maggiormente e di cui subiamo in qualche modo il fascino perverso, è che il male non veste solo i panni del delinquente incallito. Che sembra avercelo cucito addosso. Ma tragicamente si insinua tra le pieghe dell’animo degli individui comuni, soprattutto se fragili, spauriti, stralunati. In una parola innocui. Trasfigurandoli. Per intenderci, quelli che più cercano di farsi piccoli e invisibili, più eccitano la bestialità dei bulli. Altro esempio di “fiori del male”, per usare un’espressione cara a Baudelaire. Converrete che è confondente vivere abitualmente sotto la lente di ingrandimento, per trasformarsi in creature invisibili solo nel momento del bisogno. È un’incongruenza che, vissuta quotidianamente, immagino porti all’ esasperazione.
Penso all’espressione “giustiziere della notte” entrata nel linguaggio comune dopo l’omonimo film degli Anni Settanta. Che narra di come anche le cosiddette “brave persone” possano diventare violente quando, stanche di subire soprusi, decidono di farsi giustizia da sé. E ricordo che in tempi non sospetti, parlo del 165 a. C., Publio Terenzio Afro sosteneva che nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Incluse le ombre di cui siamo fatti. Con buona pace di chi è a caccia di mostri da sbattere in prima pagina. Non per nulla, i vicini di casa di chi si macchia di crimini orrendi, intervistati dall’ineffabile giornalista di turno, puntualmente affermano che l’omicida sembrava una persona normale. E qui si apre un mondo sconfinato. Perché se è vero che possiamo imparare a discernere il bene dal male, a patto che ci sia qualcuno disposto a insegnarcelo con i fatti più che con le parole, per agire il bene dobbiamo in qualche modo averne fatta esperienza. Allora com’è che molti di coloro che hanno subito violenze fisiche o psicologiche non diventano dei criminali efferati? C’entra con gli incontri fortuiti e fortunati e con la responsabilità personale, immagino. Ma vale anche quando si ha a che fare con persone e famiglie fortemente disturbate?
Hannah Arendt sosteneva che il male è “banale”. Arriva a devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo, a differenza del pensiero che cerca la profondità e che rovistando alle radici, con grande frustrazione, non trova nulla.
Per puro caso, di questi tempi sto leggendo L’uomo che ride di Victor Hugo e scopro che il personaggio di Joker è ispirato a Gwynplaine, il protagonista principale di questo romanzo. Che, avendo subito un’orrenda mutilazione al volto, ha la rima labiale prolungata da parte a parte fino alle orecchie. Trasformato in un mostro, è costretto, suo malgrado, ad esibire al mondo un ghigno grottesco e perenne. Lo stesso che assume Joker quando, divaricando le labbra con l’aiuto delle mani, si cala nei panni del vendicatore. Effettivamente tra i due vi sono delle analogie. La più evidente è che, essendo stati entrambi bambini abusati, vivono una condizione di profonda solitudine interiore, che sembra allentarsi solo quando calcano il palcoscenico. Gwynplain, attore e saltimbanco, incantando il pubblico. Che, immancabilmente prorompe in una risata irrefrenabile, ostentata e isterica suggeritagli dal ghigno beffardo. Lo stesso che induce a distogliere lo sguardo nella vita reale. Joker invece, da comico fallito, cui non resta che fantasticare di sedurre le donne con l’ironia di un istrione consumato. Da ultimo Gwynplaine, apparentemente più fortunato del suo omologo, una donna ce l’ha, bellissima e cieca. Peccato che il suo tutore non manchi di ricordargli che solo una cieca può condividere la vita con un mostro. E non si faccia soverchie illusioni, la sua è la fama riservata ai fenomeni da baraccone.
Conrad Veidt nella parte di Gwynplaine ne L’Uomo che ride (di Paul Leni, 1928)
tratto dal romanzo di Hugo
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