Fulvia Ceccarelli, terapeuta del nostro centro clinico ed Ennio Mazzei, responsabile della comunicazione, raccontano le loro impressioni in merito al documentario “La memoria dell’acqua” del regista cileno Patricio Guzmàn.

Fulvia Ceccarelli

Ho visto questo film d’estate, con la canicola, in un cinema parrocchiale di periferia. Di quelli un po’ fané di una volta. Senza aria condizionata, ma con dei ventagli a disposizione in un barattolo di vetro poggiato sulla cassa. La forte sensazione di essere catapultata indietro nel tempo mi ha naturalmente ricondotta ai fatti e i luoghi della trama, che mi sono apparsi più vividi e vicini. La ricostruzione delle vicende travagliate del popolo cileno viene fatta attraverso lo sguardo grave dell’oceano Pacifico. Muto depositario di segreti. Testimone e non complice del dramma dei nativi e dei desaparecidos. Di certo si tratta di una lettura originale, poetica, che a tratti sconfina nell’animismo. Ma come sembra suggerire il regista, trattandosi dell’acqua, origine e custode della vita nell’universo, tutto è consentito. La voce narrante, in lingua originale sottotitolata in italiano, è di Patricio Guzman che, per il racconto, si avvale della testimonianza intensa e nostalgica di alcuni discendenti dei pochi nativi della Patagonia sopravvissuti. Di un poeta, di un antropologo, di uno storico. Oltre che di alcuni uomini e donne di mezza età, scampati al regime di Pinochet. Sui cui volti la telecamera si sofferma a lungo. In posa, come in una foto di gruppo di quelle che si fanno a scuola a fine anno, appaiono fieri, dignitosi, quieti. E soprattutto muti, perché non occorrono altre parole. Occorre mantenere vivo il ricordo. Inevitabilmente un pensiero mi balena in testa. Tra quei volti avrebbe potuto esserci il nostro.

La prima inquadratura del film ritrae un blocco traslucido di quarzo, di alcune migliaia di anni, la cui particolarità è aver inclusa una goccia d’acqua. Poi la macchina da presa si sposta sui recessi bui dell’universo. Popolato di corpi celesti costituiti di ghiaccio. Come alcuni pianeti e le comete, da cui si presume abbiano avuto origine i nostri oceani. Segue una carrellata sui bagliori azzurrini dei ghiacciai della Patagonia, il cui crepacciamento viene annunciato da un rombo sinistro e cavernoso. Poi è la volta dell’oceano Pacifico, sul quale si affacciano gli oltre quattromila chilometri di costa cilena. Mostrami qualcosa che non ho mai visto! – chiede il regista ad una sua amica pittrice. E lei gli srotola davanti agli occhi una sorta di “passatoia” costruita con cartoni da imballaggio, incollati insieme e sagomati in modo da riprodurre la superficie del Cile. Che è talmente sconfinato da non poter essere contenuto in un’unica carta geografica di scala accettabile. Guzman, infatti, ricorda che a scuola era spezzettato in tre parti: el Norte, el Centro, el Sur. E da un punto di vista simbolico, è significativo e profetico che questo paese non possa essere visualizzato nella sua interezza. Accennavo prima all’oceano Pacifico, che i cileni hanno sempre considerato un intruso più che un alleato naturale, come vorrebbe la conformazione geografica della loro terra. Solo i nativi della Patagonia lo hanno trattato con sacralità, approcciandolo come un gigante dall’umore mutevole, da cui dipendeva la loro vita. Infatti, da nomadi quali erano, si spostavano di isola in isola pagaiando con maestria e “indossando” istoriazioni ispirate alla volta celeste. L’idillio con l’oceano è durato fino all’arrivo dei coloni spagnoli. Che, avendo bisogno di braccia per dissodare i campi, li hanno deportati verso le zone interne, sradicandoli dal loro habitat naturale. Per tacere del commercio beffardo dei loro organi, svenduti come fossero scherzi della natura, a compratori dalla curiosità morbosa. Così succede che, costretti a indossare vesti sudice, si ammalano. Muoiono come mosche. Di fatica e di stenti. Alcuni dei sopravvissuti imboccano la strada dell’alcolismo, altri impazziscono per disperazione. Come testimoniano alcune foto di archivio che li ritraggono straniati, spaventati e laceri. Una barbarie che sembra ripetersi ciclicamente nella storia dell’umanità. Infatti, qualche centinaio di anni più tardi e precisamente negli anni settanta del secolo scorso, più di trentamila oppositori del regime di Pinochet vengono fatti sparire. Molti gettati in mare con i voli della morte. Avvolti in sacchi di plastica, con una traversina di binario legata al corpo per il lungo. Dissidenti e nativi, accomunati dall’aver affidato il proprio destino all’oceano. Che, per una sorta di nemesi storica, restituisce a futura memoria ora un corpo o quel che ne rimane. Ora un bottone. Ora una traversina arrugginita e vegetata. Testimoni eloquenti di un gigantesco grido di libertà, che qualcuno ha tentato di soffocare. Non riuscendoci.

Film profetico in questi tempi di purghe ed epurazioni di massa…

Ennio Mazzei

La memoria dell’acqua è un documentario. Un documentario, credo, nell’idea che ognuno di noi ha, è un racconto audiovisivo, senza attori, privo di una sceneggiatura che determini e organizzi le riprese, non ha l’intenzione di produrre una finzione e ha invece una funzione descrittiva o educativa. Ma soprattutto il documentario è tematico, specialistico. Almeno in genere così è. La memoria dell’acqua non lo è. E’ un documentario, sì, che ha in sé componenti diverse che lentamente scaturiscono l’una dall’altra come in un sapiente gioco di rimandi. C’è divulgazione, scienza, storia, antropologia, geografia, economia, poesia e politica. Per alcuni critici c’è troppo. Il mio parere invece è che il regista cileno Patricio Guzmàn abbia saputo, con tutti questi ingredienti, dar corpo a una storia affascinante.

Una storia che prende le mosse da un blocco di quarzo all’interno del quale oscilla una goccia d’acqua risalente a migliaia di anni fa. E’ da lì che parte uno straordinario viaggio poetico in terra cilena, in particolare nel Sud del Cile, nella Patagonia occidentale. L’assunto, scientificamente non dimostrato, è che l’acqua abbia la proprietà di mantenere un “ricordo” delle sostanze con cui è venuta in contatto. E nel documentario di Guzmàn di acqua ce n’è veramente tanta, quella dell’Oceano Pacifico prima di tutto in riva al quale la popolazione Selknam viveva da migliaia di anni, pur fra incredibili calamità climatiche e logistiche. Ma era la loro terra, era la loro acqua. Poi, nella seconda metà dell’Ottocento, dall’Europa arrivarono cercatori d’oro, avventurieri, allevatori e iniziò una vera e propria caccia all’indigeno che si concluse con l’estinzione di quel popolo fiero e pacifico. I volti e le parole degli ultimi discendenti di queste popolazioni, intervistati dal regista, ci danno il senso di un genocidio barbaramente voluto e consumato da uomini che consideravano altri uomini meno che animali, oggetti.

E qui il racconto, con naturalezza e coerenza, arriva al regime dittatoriale di Augusto Pinochet e alla sua pervicace volontà di distruggere ogni forma di dissenso attraverso l’assassinio sistematico di migliaia di oppositori. Prima torturati e uccisi a Villa Grimaldi a Santiago e poi gettati dagli elicotteri in mare perché di loro non rimanesse più alcuna traccia. E l’acqua ritorna. E torna il pensiero ad altre dittature, magari più economiche, magari di aspetto meno sgradevole, che costringono migliaia di esseri umani a salire su indecenti imbarcazioni e a trovare morte sicura nel Mediterraneo. E poi ci permettiamo anche di chiamarli “migranti”, insomma non proprio “turisti”, ma quasi “viaggiatori”.

Il titolo originale del documentario è El boton de nacar, il bottone di madreperla, stranamente modificato nella versione italiana. Ma di questo non dirò nulla, per non togliere a chi ancora non ha visto il documentario il piacere di scoprire ciò che lega una rotaia di treno trovata sul fondo marino ai giorni nostri con un indigeno strappato alla sua terra nel 1830 e deportato in Europa per diventare “civile”.

La memoria dell’acqua ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 2015.