TERAPEUTI IN FORMAZIONE
Gli allievi della Scuola di specializzazione del Ruolo Terapeutico sono tenuti a presentare, al termine di ogni anno accademico, un elaborato riferito alla propria esperienza formativa. All’interno di questo spazio ne ospiteremo alcuni.
LA SINFONIA DI L.
Beatrice Armenzoni
Ultimo anno, ultima tesina, probabilmente sarò l’ultima a scriverla e a consegnarla, sicuramente l’ultima a discuterla… e la domanda che ho in testa adesso è “Come inizio?”.
Inizierò dal vero inizio, dall’origine della relazione. In questo caso, come in tanti altri, l’inizio non è la telefonata del paziente (probabilmente nemmeno questo è veramente l’inizio) che chiede un appuntamento, ma è l’invio fatto da un collega. L’inizio origina nella mente di un’altra persona che pensa, riflette e decide che proprio tu e proprio quel paziente avrete la possibilità di creare una buona relazione terapeutica.
L’invio
Nelle diverse supervisioni che ho avuto quest’anno sono riuscita a individuare delle difficoltà riguardanti gli invii o, per essere più precisi, gli invianti. Mi verrebbe da definirla una scoperta, non nel senso di una novità inaspettata ma di qualcosa che è stato di-svelato; ero consapevole del fatto che nella stanza della terapia oltre a me e al paziente ci fosse un’altra figura, cioè l’inviante, ma non avevo mai dato molta importanza alla cosa, liquidandola come normale, passeggera e innocua. Fino a quando inizio una collaborazione con uno psichiatra, che diviene un importante e molto ingombrante inviante per le sue modalità relazionali estremamente fuori dalla norma, per la storia che caratterizzava e caratterizza il nostro rapporto (mi ha aiutato in un periodo molto difficile della mia vita) e la grande stima professionale che ho per lui. Tutto questo andava a inquinare le terapie che iniziavo con i pazienti da lui inviati. Sentivo il dovere di essere brava, di non deluderlo, di fare ciò che lui mi chiedeva, ero arrivata a un certo punto a sentirmi una sua “dipendente”; quindi se il capo ti dice di fare una cosa tu la fai.
Credevo che il problema fosse legato unicamente alla sua persona e al nostro rapporto. Tutto così estremo e saturante da non farmi vedere altro. Durante una supervisione di una collega si stava discutendo sul fatto che osservare, guardare, stare o sentire solo a un livello “alto”, che non volge lo sguardo verso il basso ma lo mantiene ad altezza “occhi”, non permetteva di vedere bene cosa accade giù, nello specifico, vicino a noi. Quando si fanno scampagnate in montagna non si può non guardare il panorama, sarebbe sciocco e limitante, ma è anche necessario e altrettanto interessante guardare in basso per vedere dove si mettono i piedi per non cadere, inciampare, ma anche per scoprire cose belle vicino a noi. Questa osservazione è stata per me illuminante. Il carico di responsabilità, il desiderio di non deludere l’altro, il rispondere alle aspettative che credo l’altro abbia su di me, la mia impossibilità a dire di no, il mio forte senso del dovere erano attivati con tutti gli invianti. Lo psichiatra, nel suo essere “tanto”, copriva tutto il resto o forse mi permetteva di tenere coperti tutti questi sentimenti relegandoli al nostro rapporto e non ad un mio modo di essere e sentire.
L. ha un primo colloquio con la dottoressa Roberta Giampietri, viene da lei inviato, attraverso il Ruolo Terapeutico di Parma, a me. Avevo appena iniziato a collaborare ufficialmente con il Ruolo e avevo appena “perso” la prima paziente che mi avevano affidato. Credo non sia difficile intuire come stessi…
Roberta mi chiama e mi avvisa che verrò contattata da L. per un primo colloquio. Mi accenna che è un ragazzo, che aveva avuto con lui un primo colloquio conoscitivo e che lo aveva sentito molto sofferente. In questo passaggio, molto breve, io ho sentito una preoccupazione da parte di Roberta, molto profonda, molto materna. Mi ero immaginata un ragazzino, un po’ “sfigato”, magrolino, insomma il classico nerd. Questa mia sensazione da una parte mi faceva desiderare che L. non chiamasse, non volevo deludere nessuno, dall’altra parte invece volevo che chiamasse per dimostrare che ce la potevo fare. Semplicemente ero combattuta tra il giocare sul sicuro (“non ha chiamato”, per me era deresponsabilizzante e molto rasserenante) e il desiderio di riscatto: accetto il rischio, che è implicito in ogni relazione, di fallire per poter avere la possibilità di una buona riuscita. La paura del fallimento, della critica, della delusione data, mi portava a sperare nell’immobilità, con l’illusione che, se non succede niente, niente può succedere.
L. mi chiama esattamente tre settimane dopo. Fisso il primo incontro.
Successivamente durante una supervisione a Parma, il confronto con Roberta è stato particolare: ciò che avevo sentito di materno e protettivo non era quello che realmente Roberta aveva provato. Questo mi aveva lasciata stranita; in quella telefonata io cosa avevo sentito?
L’inizio della sinfonia di L.
Arriva in ritardo. Vado in corridoio a prenderlo e mi dice che deve andare in bagno e specifica: “Mi è venuto in mente mentre ero per strada”. Penso che è strano, se scappa scappa, non è una cosa che si dimentica. Il bisogno era dovere? Era prassi? Penso poi al suo aspetto che non coincide assolutamente con l’immagine che si era creata dentro di me, scardinata in modo improvviso dall’immagine del mio paziente reale. Continua la mia sensazione di “stranità”. L. ha 25 anni, è poco più alto di me, capelli lunghi dietro al capo e raccolti con un codino (penso sia un look un po’ datato), ben piazzato ma non grasso, vestito semplicemente, occhiali da vista, ha la pelle rovinata dall’acne. L’essere nerd è stato confermato, ma l’aspetto fisico mi lascia interdetta, non appare indifeso e certo non attiva un senso di protezione. Durante il colloquio è molto agitato, resta per lungo tempo in silenzio, si muove tantissimo, pulisce la scrivania, prende i pennarelli e li usa come bacchette di una batteria, poi li mette nel contenitore con il tappo verso l’alto. Pulisce, fa ordine. Continua a muoversi sulla sedia e a muovere la sedia che ha di fianco. Afferma poi di essere arrabbiato, “esco e riempio di botte il primo barbone che incontro”, poi mi dice che ha chiamato “solo perché erano due giorni che volevo spaccare la casa”. Lo sento aggressivo nei modi, nei toni, nell’espressione del viso. Un’altra cosa mi colpisce molto: l’uso di accenti, non li mette dove dovrebbero stare, quindi il suo eloquio è bizzarro, sembra anche un’insalata di parole ma c’è logicità, c’è senso. L’impressione immediata è: tutto è incomprensibile.
Io ho paura, la sento bene ed è la prima volta che la sento così forte. È una paura fisica, di essere aggredita e mi trovo a pensare a vie di fuga, a modi per difendermi, mi tranquillizza il sapere che c’è un collega uomo in uno studio vicino e che quindi se urlassi verrebbe in mio aiuto. Anche questa sensazione per me era strana, le mie paure non sono mai state legate ad aggressioni fisiche, ho sempre avuto la convinzione (fortunatamente mai messa alla prova) di potermi difendere da sola, in fondo mio padre mi aveva cresciuto da maschiaccio, insegnandomi a tirare di destro. In quella situazione questa convinzione non valeva nulla, avevo paura che mi potesse fare male. Mi sentivo debole, in balia di qualcun altro, sensazioni assolutamente non piacevoli e poco conosciute.
Ciò che mi era stato rimandato in una supervisione era la probabilità che tutta quella paura che io sentivo ma che non sentivo in sintonia con il mio essere forse era tutta di L. Era la sua paura, il suo sentirsi indifeso, in balia dell’altro. Tesi che attualmente posso dire vera. L. è pieno di paure, ha provato paura anche fisica. Ha ancora tanta paura dell’altro, di essere rifiutato, di essere attaccato nel suo profondo, di essere frainteso. Ha anche paura di se stesso, delle sue emozioni, di poter essere ciò che è.
In questo colloquio mi spiega che durante le scuole medie è stato vittima di bullismo, veniva chiamato “ciccione”. Dopo le medie si iscrive al Conservatorio, dopo un anno lascia, il suo percorso scolastico sarà un po’ travagliato ma alla infine si diploma in una scuola professionale. Ricorda l’unica esperienza lavorativa come molto negativa.
Ricorda e descrive tutto come esperienze negative, che lo hanno segnato.
Racconta che, qualche anno prima, aveva avuto alcuni colloqui con una collega e che quel percorso era iniziato solo per volere della madre. Mi dice subito che con la madre ha un rapporto difficile, d’impulso afferma “lavora sempre non mi ha mai voluto bene”. Questa volta la richiesta di aiuto viene da lui ma è la madre che si muove per trovare uno psicologo e sarà sempre lei poi a pagare le sedute.
Questa prima fase, che dura diversi mesi, non può essere definita una “sinfonia” ma sono le prime stesure, i primi tentativi, le cosiddette “brutte” che verranno modificate pian piano per renderle sempre più vicine a ciò che si desidera creare.
La grande difficoltà dell’inizio era la totale incomprensione da parte mia di ciò che lui diceva. Era un ammasso di parole, concetti, paroloni, citazioni, salti temporali. Era un continuo cercare, da parte mia, di trovare un senso a tutto questo ammasso di “cose” ma dovevo anche arginare tutti i suoni, i rumori che L. usava per calmarsi. Era difficile lasciare sullo sfondo tutto questo “casino” sia uditivo che visivo, il suo continuo movimento, il suo continuo toccare tutto ciò che era sulla scrivania, i suoi automatismi (pulire la scrivania, giocare con i pennarelli, giocare con la sedia): era impossibile concentrarsi su ciò che diceva. Ero veramente infastidita, avevo l’impulso di prenderlo per le spalle e bloccarlo, contenerlo come si fa con i bambini agitati, avrei anche voluto sgridarlo… Un giorno mi si accese una lampadina: per comunicare con lui decisi di usare il disegno. L. in quel periodo frequentava le scuole serali, aveva deciso di intraprendere studi d’arte, parlava di prospettiva, linee, punti di osservazione, colori e sfumature. Finalmente forse potevamo comunicare. Avevo messo un foglio bianco tra di noi, ci spiegavamo o più precisamente traducevamo le nostre parole in segni, io così lo comprendevo e lui comprendeva me. Si usava la metafora della prospettiva per capire il suo essere e il suo stare con gli altri. L. voleva comunicare, ma nonostante parlassimo la stessa lingua ciò non era possibile, dovevo cercare una tipologia di comunicazione che facesse da mediatore tra il mio linguaggio e il suo. Formulavo una frase, la “disegnavo”, poi lui formulava la sua frase e la “disegnava”, il foglio bianco era la stanza nella stanza, era il nostro luogo di comunicazione che condividevamo, rispettando le regole della comunicazione verbale.
Quando mi sembrava di aver capito come poter “parlare” con lui, lui decide di cambiare tipo di comunicazione! Come i bambini. Quando mio figlio era piccolo ho sempre sperato che iniziasse a parlare presto, come la maggior parte degli adulti, forse ero convinta che il miglior modo di comunicare fosse attraverso la parola. Avevo sempre paura di non capire i suoi bisogni, poi fortunatamente il bambino ti riporta in luoghi che non visiti da tanto tempo e c’è una parte di te che li riconosce e può rispolverare queste conoscenze lasciate lì. Poi quando ti tranquillizzi e pensi: “bene ho capito come funziona!” il bambino è già a un altro gradino e tu, di nuovo, devi ricominciare da capo! Con L. ho avuto la stessa sensazione, lo stesso pensiero. Devo trovare un altro modo, devo ricominciare. L. decide che si doveva comunicare attraverso l’uso di citazioni, libri che lui leggeva tra una seduta e l’altra. Problema: libri che io non avevo letto o libri di cui non ricordavo la trama perfettamente o neanche lontanamente. Decido di giocare a carte scoperte, anche se il suo atteggiamento da saccente mi era abbastanza insopportabile, sapevo che stava cercando di dimostrare che lui era superiore; decisi di essere sincera, lui conosceva cose che io non sapevo. Volevo passargli il messaggio ma soprattutto fargli sentire che io potevo accettare questa situazione, accettare che lui sapesse alcune cose a me sconosciute, che questo per me era una possibilità di apprendere attraverso di lui. La concezione che avevo della mia persona non sarebbe cambiata nonostante la consapevolezza dei miei limiti, quindi, se non conoscevo o ricordavo il libro da lui letto, chiedevo di spiegarmelo. Siamo passati attraverso libri di psicologia, libri sul buddismo, libri sull’utopia ma quello che mi ha colpito di più è stato L’inconveniente di essere nati. Non ho fatto una ricerca, non l’ho letto. Il titolo era emblematico della sua sofferenza. Mi bastava quel titolo.
In quel periodo eravamo riusciti a instaurare un rapporto di maggior confidenza (forse è dire troppo) o meglio ero diventata parte della sua routine, lui mi aveva inserito in questa routine. Avevo deciso di provare a comunicare con lui a un altro livello. Pensavo che la citazione di libri fosse anche un modo per stare lontano, c’era sempre qualcosa tra me e lui, prima i miei appunti, poi il foglio bianco, adesso i libri; dovevo cercare di spostare anche questi. All’inizio delle sedute, quando iniziava a parlare, capivo subito se stava parlando di se stesso o stava seguendo dei filoni legati al libro che aveva letto quella settimana. Decisi di avvicinarmi un po’ di più a lui attraverso l’ironia, gli chiedevo appunto ironicamente: “Ecco! Che ti sei letto questa settimana?”. Sì, a L. do del tu. Il lei è sempre stato molto difficile, all’inizio ho cercato di sforzarmi ma con risultati alquanto deludenti e ridicoli. Mi resi conto che il tu mi permetteva di essere più vicina a lui. Il lei sarebbe stato l’ennesima “cosa” tra di noi. Anche lui mi da del tu, ogni tanto del lei e mi chiama Beatrice. Non lo sento invasivo o livellante; nessuno mi chiama Beatrice se non le persone che conosco poco. Quando lavoro sono la dottoressa Armenzoni, con i miei amici e parenti sono la Bea (con articolo annesso fondamentale). Beatrice è legato a relazioni formali, a volte è il passaggio da Armenzoni a Bea. Con lui mi sembra il giusto compromesso tra una relazione molto formale (dottoressa) che lo avrebbe tenuto lontano e una relazione troppo vicina (Bea), forse troppo vicina anche per me. Questo compromesso è stato deciso da lui, ma dopo avermi chiesto se poteva darmi del tu, decisione che ho lasciato a lui, passa da dottoressa a Beatrice. Passerà a Bea? Non lo so. In questo momento mi verrebbe da dire no ma non lo posso sapere, se verrà quel momento dovrò sicuramente ri-centrare la relazione. In questo momento, per come lo sento, Bea sarebbe eccessivo ma anche dottoressa sarebbe troppo lontano. Credo fermamente che il rapporto terapeutico, con un certo tipo di pazienti, abbia bisogno di ricalibrazione a seconda delle fasi che si attraversano. Con altri pazienti sento che il rapporto può o deve rimanere maggiormente stabile in ogni fase.
Gli accordi di una sinfonia
Con il termine accordi mi riferisco al significato utilizzato nella composizione musicale. La sinfonia è “un complesso armonico di suoni e di voci” (cit. Treccani). Quando si parla di armonia si parla di suoni simultanei, appunto accordi, che creano “un’impressione piacevole all’orecchio e all’anima” (cit. Treccani).
Se vogliamo vedere la vita come una sinfonia, qualcuno all’inizio la scrive per noi. Se gli accordi non vengono combinati in un modo sufficientemente buono, si ha disarmonia, sofferenza, dolore per l’anima. A un certo punto della vita però possiamo essere noi stessi i compositori della nostra sinfonia e quindi della nostra vita.
La sinfonia che L. si trovava a suonare con me, all’inizio, era determinata da accordi non armonici, quindi non potevano essere piacevoli.
L. mi ha messo alla prova dall’inizio, ha cercato di capire se potevo e volevo ascoltarlo, comprenderlo. Credo che abbia veramente misurato la mia volontà di stare con lui, di poter reggere, di sopportare, ha misurato la mia tenacia. Quando ha capito che, secondo lui, potevo farcela ha deciso che poteva affidarsi, aprirsi e appoggiarsi.
La rabbia lascia il posto al suo sentirsi “scialbo”, rassegnato, si definisce come un bambino che si trova nel lettino con le sbarre e cerca di uscire.
All’inizio parla unicamente di una madre vissuta come tirannica, vigliacca, manipolatoria e asfissiante. Del padre non dice mai niente. Quando racconta della sua famiglia i ricordi sono confusi. I suoi genitori sono separati ma non ricorda da quando, ogni volta riferisce un periodo diverso. Lui vive con la madre e una sorella. Della madre parla sempre in modo dicotomico, con una rabbia violenta e poi con un amore vitale.
Come posso descrivere la sinfonia che i suoi genitori hanno scritto per lui? L. non descrive mai episodi della sua vita all’interno della sua famiglia. Riferisce solo stati d’animo e pensieri, ragionamenti. Il suo modo di pensare è estremamente complesso, difficile da comprendere, parla spesso di due L., uno dice all’altro come deve essere per piacere agli altri, alla madre prevalentemente. C’è un L. nascosto e uno che viene mostrato agli altri. Altri che sono visti come alieni, quindi incomprensibili, strani, molto diversi da lui.
Decide ad un certo punto di “portarmi” i suoi genitori, prima la madre e poi il padre. Credo che volesse da me un ruolo da testimone, voleva raccontare loro quello che aveva passato durante l’adolescenza, gli episodi di bullismo, il suo non essere in grado di difendersi. Li accusa di non avergli mai insegnato niente. La sua difficoltà nelle relazioni con gli altri, il suo non sapere mai cosa dire e come comportarsi sono riconducibili a mancanze, trascuratezze e superficialità dei suoi genitori. Queste sono le sue verità.
Nel colloquio con la madre le dice che l’ha sempre sentita lontana, è molto duro nei suoi confronti ma nello stesso momento si attivano sensi di colpa molto automatici, è bastato uno sguardo della madre a renderlo di nuovo “innocuo”. Forse questa è una modalità emotiva che questa madre utilizza per tenersi vicino il “suo bambino”. L. ha fatto accuse molto feroci: “vivevi alla giornata… chi ti teneva dietro?”, “il tuo volermi bene è come lenire le tue ferite”, “la tua vita è stata lenire le tue ferite e traumi, ci hai sacrificato”. La madre sembra non reagire ma solo giustificarsi, anche il pianto mi sembra finalizzato solamente a fermare L.
L. afferma, riferendosi alla madre e alla sorella, “siamo tutti e tre malati, nessuno è in equilibrio”.
Dopo questo primo colloquio con la madre, che rimarrà anche l’unico, decide di venire insieme al padre. Gli incontri all’inizio sembrano più equilibrati. Il padre cerca di aiutare L. a ripulire i suoi ricordi ridimensionandoli, rendendoli maggiormente reali. Non attacca mai l’ex moglie, cerca di giustificarla agli occhi di L. Il padre, apparentemente, sembra più in grado di gestire un rapporto equilibrato con L., sembra aver voglia di confrontarsi senza bisogno di difendersi, riesce a raccontarsi e non a giustificarsi. Poi però la relazione cambia bruscamente, fa affermazioni molto forti riguardanti la sua storia personale. Il tutto in una situazione che diventa come irreale, le sue comunicazioni cadono nel vuoto. Anche io le lascio cadere, queste comunicazioni sembravano aver colpito solo me, ero gelata. Con il senno di poi mi rendo conto che avrei potuto affrontarle in modo diverso chiedendo come L. le stesse vivendo ma c’era anche una parte di me che aveva avuto l’impressione che fosse un tentativo di spostare l’attenzione dalla sofferenza di L. Ho avuto l’impressione che il padre e la madre si fossero mossi per spostare su di loro l’attenzione. L. non era visto, di nuovo. Ho avuto chiaro che il suo non sentirsi visto da sempre fosse un’esperienza reale. Questi due genitori così presi dalle loro sofferenze avrebbero mai visto il loro “bambino”? C’era spazio per L.? Era quindi vera la sensazione di L. di essere vissuto solo nella sua funzione consolatoria e di sostegno a questi genitori?
L. dopo questa fase, nella quale ha cercato di farmi conoscere i suoi genitori nella realtà, ha voluto che io fossi testimone del suo tentativo di farsi vedere o meglio di farsi riconoscere nella sua essenza, nel suo essere dolorante. Ha riproposto l’unico modo che conosceva per comunicare con loro, cioè attraverso il linguaggio della sofferenza.
Intorno a lui non ci sono altre figure importanti e positive ma persone vissute come tiranniche o deboli o aggressive.
Non racconta mai di esperienze positive né a scuola né a casa. Non ha bei ricordi, le scuole elementari sono l’inizio delle difficoltà nelle relazioni con gli altri. In questo periodo i suoi genitori si separano e da questo punto in avanti la sua vita sembra divenire un incubo. Riferisce difficoltà nel capire gli altri, nel sentirli. I suoi racconti sembrano fatti da un robot che non ha nessuna esperienza di sentimenti, emozioni, comportamenti. Non riesce a decifrare l’altro.
L. dice di essere andato in tilt nel momento in cui i suoi genitori gli comunicano che avevano deciso di separarsi, afferma che la comunicazione è stata asettica, razionale, “come se fosse una cosa normale”. Penso a quel bambino consapevole che quello che stava accadendo fosse qualcosa di triste, doloroso, ma non lo vedeva nei suoi genitori. Forse L. non si sentiva autorizzato a stare male. I genitori, probabilmente, erano così preoccupati per questa realtà dolorosa che i figli dovevano affrontare che, per proteggerli, hanno tentato di edulcorare/normalizzare questo evento mascherando la loro parte sofferente, fino a rendere tutto irreale. L. crede che ciò che sente sia sbagliato. Perché sento dolore se nei miei genitori non c’è sofferenza? Eppure sta succedendo qualcosa di terribile, la famiglia si sta sgretolando. Non trova corrispondenza tra i suoi sentimenti, le sue emozioni e ciò che lo circonda. Afferma di essersi sentito preso in giro dai suoi genitori, gli hanno fatto credere che non ci fossero problemi poi invece arriva la separazione. Quindi la sua domanda perenne è: “Cos’è vero? Cos’è falso?”. Il bambino non era in grado di dare una risposta sua, ha cercato di capirlo osservando gli altri, ma anche questo non ha prodotto una risposta soddisfacente, fino a quando non è diventato lui la domanda: “Qual è l’L. vero? Qual è quello falso?”.
La composizione
Dopo gli incontri con i genitori ricominciamo i nostri colloqui. L. è sempre puntuale, non manca mai una seduta e se non può mi chiede di spostarla. Le sue paure diventano il fulcro degli incontri. Ha paura di tutto, di stare male ma anche di stare bene, ha paura degli altri ma anche di stare da solo, ha paura della dipendenza ma anche dell’indipendenza. Però nello stesso tempo si apre sempre di più a ciò che gli piace. Decide di tornare a studiare al Conservatorio, fa l’esame di ammissione ma lo fallisce. Il suo pensiero ancora lontano dalla realtà e il suo essere ancora molto autocentrato non avevano considerato il fatto che senza un’adeguata preparazione, e quindi sforzo e fatica, non sarebbe mai passato. Una doccia fredda ma di cui si può parlare. Inizia ad andare in piscina per ritornare in forma. Modifica la sua quotidianità, riesce a organizzarsi le giornate, compra un’agenda. Esce di casa ma sempre facendo attività solitarie.
La rabbia che prova verso i suoi genitori è altalenante, ci sono momenti nei quali la giustificazione prevale e momenti in cui la rabbia esplode, a casa diventa aggressivo verbalmente e rompe oggetti. Queste esplosioni mi fanno spesso tornare alla paura iniziale, che possa succedere qualcosa di irreparabile. Nel percorso terapeutico si nota un rapporto inversamente proporzionale tra le crisi di rabbia e la sua capacità di parlare del suo malessere. Più si fida, più apre su se stesso, meno ha scatti di ira. L. sta cercando di individuarsi e separarsi dalla madre. La rabbia è spesso legata a conflitti con lei che sembra non riesca ad abbandonare il loro “equilibrio” disfunzionale. L. non ci sta più, ma non sa come poter rompere questo circolo vizioso se non scoppiando in modo violento.
Il rapporto con la madre è il canovaccio su cui crea tutti gli altri rapporti. In alcuni momenti L. è molto giudicante, sente la madre come una persona che non ha mai capito i suoi bisogni e alla quale ha dovuto adeguarsi per poter essere amato. Parla sempre del fatto che non conosce i suoi genitori, che non li conosce come persone. Sente che gli hanno mentito da sempre. Si è creato un personaggio, credendo che quel personaggio potesse essere amato, lo ha creato in base a quello che pensava sua madre desiderasse. Ancora oggi funziona così, mi chiede: ”Ma io sono il paziente che ti piacerebbe avere? A volte penso cosa dovrei dirti in base a quello che credo tu voglia sentirti dire”.
Quando mi riferisce questa frase, ho un tuffo al cuore, penso che mi ha sempre mentito (come i suoi genitori hanno fatto con lui?) e che i passi avanti siano solo un modo per compiacermi. Rimando a lui questa mia sensazione, l’idea che mi abbia imbrogliato, anche se in buona fede, gli chiedo chiaramente come posso adesso capire se mi sta dicendo la verità o se sta “recitando” un ruolo. Sembra ferito dalle mie parole, spesso non riesce a mettersi nei panni dell’altro e quando se ne rende conto rimane molto sorpreso, sorpreso di non tenere mai in considerazione che i suoi agiti, le sue parole possano avere un impatto sugli altri. Mi spiega che non è vero quello che mi ha detto, cade sempre nel suo stesso tranello. Non sa come le persone possono reagire a certe sue affermazioni, non è mai preparato poi a sopportare la loro reazione. Con me aveva messo in scena il suo coming out verso i genitori, avrebbe voluto dire loro che ha sempre fatto ciò che volevano o credeva che volessero, avrebbe voluto conoscere la loro reazione ma ha avuto la mia, non si aspettava che reagissi come diretta interessata. Ero i suoi genitori, imbrogliati da lui, ma ero anche lui, infatti anche lui vorrebbe dire ai suoi genitori di essersi sentito preso in giro. “Non mi hanno preso sul serio”. La confusione che ha nell’individuarsi, nell’individuare l’altro, lo porta a muoversi come se le persone fossero tutte uguali, intercambiabili. Invece no. Questa scoperta lentamente gli sta permettendo di vedersi staccato dalla madre. Io sono io e tu sei tu.
Questo processo è lento e doloroso.
L. non ha un lavoro, non ha un progetto di vita, non ha amici, non ha una relazione sentimentale, non ha una camera da letto, non ha la patente. Apparentemente non ha stimoli all’indipendenza, non ha desideri di indipendenza. Ha un rapporto morboso di odio e amore con la madre. Ha un padre che ha sentito assente fisicamente e che ha abdicato al suo ruolo. L. non conosce una figura maschile padre, che contenga, che autorizzi all’autonomia, che riesca ad arginare il materno.
L. è un ragazzo di 25 anni, è vergine, è solo, è un bambino.
Sento che L. sta crescendo, a volte mi sento investita del ruolo di madre “desiderata” (“tu mi hai ascoltato anche se dicevo sciocchezze”), del ruolo del padre che autorizza l’indipendenza e a volte mi sento vista come donna.
L. ha iniziato a salutarmi cercando un bacio sulla guancia, all’inizio questo mi metteva molto a disagio, il mio spazio vitale era stato invaso. Avevo attivato un metodo di allontanamento, quando lo salutavo gli stringevo la mano e con l’altra gli davo una pacca sulla spalla. Lo sentivo invadente. Con il tempo ho modificato questo mio comportamento, adesso il bacio può esserci. Non mi sento invasa.
L. sta cercando la sua autonomia, sta cercando un affetto, affetto che si lega al nostro rapporto terapeutico e non ad un rapporto diverso.
L. ha toccato e sta toccando parti estremamente profonde di se stesso, ha un’importante capacità di autoanalisi. Le sue paure legate al non essere visto, non essere amato, al dover essere qualcun altro, al portare tutto all’estremo, pur di sentire, viene da lui stesso definita come “una paura primordiale che abbiamo tutti, quella di non esistere” ma allo stesso tempo una “paura di perdersi dentro”.
Un passaggio importante avviene quando la sua presa di coscienza gli permette di spostare anche su di sé una certa quota di responsabilità “mi sono fatto male da solo”, vittima e carnefice, “ho sguazzato in questa melma”. L. ha individuato il lato vantaggioso di questa melma: vedersi come vittima, senza alcuna responsabilità ma soprattutto senza il dover vivere la sua vita, per non incontrare fallimenti e rifiuti.
Oggi riesce a ridere di sé, quando capisce che si sta riattivando un suo vecchio modo di muoversi, relazionarsi e interpretare gli altri, quando il suo essere vittima ricompare si scoccia di se stesso e mi ferma dicendo: “Lo so cosa stai per dire, uffa ci ricasco”. La sua è la paura di cadere di nuovo nella paura.
Riesce a individuare quella che lui chiama la sua parte fasulla, il suo vivere per inerzia, e lo fa con rabbia verso se stesso, una rabbia non autodistruttiva ma stimolante.
Quando ha lasciato il conservatorio si è autodistrutto, si è danneggiato. Era un modo per “mandare a quel paese tutti”, invece si è punito da solo per punire gli altri. In quel periodo afferma di essere stato “tra la cera e il pavimento”. La sua relazione con il mondo era come al solito quella di comunicare la sua sofferenza nel modo più distruttivo che conosceva. “Attraverso il dolore io c’ero”. Ha cercato di mostrarlo in ogni modo, facendosi “bullizzare”, creando lo ”sfigato”, vestendosi e comportandosi da sfigato, non lavandosi, non curandosi. L’autodistruzione. Il percorso poi si è arrestato, quando la sua rabbia stava diventando incontrollabile (“esco e riempio di botte il primo barbone che incontro”).
Ripeto: il percorso è lungo e altalenante. Ci sono periodi in cui afferma di stare bene ma nel contempo ne è terrorizzato perché non è capace di gestire le emozioni positive. Ha sempre la sensazione che il suo stare bene possa essere così intenso da trasformarsi nel suo contrario, “posso essere così euforico da perdere la bussola”. Deve trattenersi per non esondare, ha paura di essere frainteso, di fare figuracce. È in continuo conflitto tra il buttarsi e il restare fermo. A volte si percepisce come una persona senza valore e poi afferma di idolatrarsi. Deve fare i conti con il suo essere adulto. Deve fare i conti con i suoi genitori, la tentazione di buttare loro addosso tutta la responsabilità della sua sofferenza e del suo essere fuori tempo è sempre dietro l’angolo.
C’è sempre il pericolo che ritorni al suo rimuginare intellettualizzante, perverso, il pensiero sul pensiero: “io sono, perché c’è qualcuno che dice che sono, se fossi da solo sarei niente? sono ciò che vedono gli altri”.
A volte mi sembra che stia vivendo le fasi della crescita tutte in una volta, infanzia, pubertà, adolescenza. La sua ingenuità mi fa tenerezza e spesso mi sento di proteggerlo, come una mamma che guarda il suo bambino esplorare, con il desiderio che faccia esperienze ma nello stesso tempo non si faccia troppo male, che non venga deluso dalle persone perché troppo fiducioso, ma anche che non sia sospettoso e troppo difeso. La ricerca della giusta dose, della via di mezzo, del compromesso. Sta cercando di capire come farsi degli amici, non sa come comportarsi con i suoi coetanei. Si chiede spesso qual è il limite. Se si autorizzasse ad essere felice, se si lasciasse andare potrebbe davvero fidarsi di tutti e farsi molto male. A volte mi sembra senza pelle, senza difese.
Poi c’è l’adolescente che chiede di affrontare il problema: “rapporto con l’altro sesso”. Odia le donne, ne è spaventato ma allo stesso tempo attratto. Chiede “Qual è il segreto per fare colpo su una ragazza?” ma alla domanda se si riferisce a qualcuna in particolare risponde che vanno bene tutte, lo incuriosiscono tutte essendo del sesso opposto. Intercambiabilità delle persone? Donne, queste sconosciute! O con l’idea di conoscerle già tutte perché sono tutte uguali alla madre? Donne bisognose, che devono appoggiarsi, che fingono sicurezza. Donne vampiro, che fanno paura. Non esiste ancora per L. il concetto di condivisione e di reciprocità. L’amore è unidirezionale e non è mai gratuito.
Può però prendere contatto con questa sua curiosità, questo suo bisogno di avere qualcun altro vicino (anche se il dirlo è ancora molto lontano).
L. adulto ha trovato un lavoro. Ha deciso di prepararsi al nuovo esame per il conservatorio, studiando e frequentando da uditore. Ha deciso di andare al pub con i compagni della scuola serale. Ha deciso di entrare a far parte di un coro di canto gregoriano e polifonia rinascimentale, barocco e medioevale. Certo un po’ lontano dai venticinquenni del ventunesimo secolo ma lui è lui.
Ogni seduta con L. è un punto interrogativo, anche se c’è alla base un copione. Può arrivare e dire che va tutto bene, “wow”, oppure demolire tutto. Può essere molto gentile o essere tagliente. Il silenzio iniziale e il suo movimento continuo sono sempre presenti. Può aver voglia di attaccarmi per poi iniziare a parlare di sé. Credo che abbia bisogno di attaccarmi per non ammettere che si può avere una relazione con l’altro, per esorcizzare la paura che tutto finisca; ti tratto male prima che lo faccia tu. Ogni seduta però finisce con affetto, come se in quell’ora potesse accadere di tutto ma senza conseguenze mortali. Soprattutto se si pensa che per lui l’errore rimane per sempre, non esiste riparazione, se fai un errore sei marchiato. La sua convinzione che non si possa cambiare il proprio destino lo ha portato ad affidarsi totalmente al volere dell’altro.
L’ultima seduta è stata molto pregnante di significati. Dice di stare bene, poi riconosce che ci sono ancora alcune cose da affrontare, lui le ha definite “esigenze che devono essere soddisfatte”. Poi si nasconde dietro l’autoironia “adesso tiro fuori le solite cose”. Mi annullo per essere accettato, per non essere frainteso, eppure vorrei essere padrone di me stesso ma lo posso fare solo andando contro me stesso, quello che si modella sugli altri?
“Quando esco di qua mi sento un uomo diverso, poi ricado quando sono fuori”; ha quindi un senso venire?
“Non c’è equilibrio in quella casa!”.
“Cosa sono le emozioni? Entità astratte con vita propria?”.
“Vorrei avere una mia personalità”, “sono freddo, distaccato e calcolatore, mi permette di non rischiare troppo”; il rischio del rifiuto.
Si definisce un dietrologo, stanco di esserlo. È preoccupato del fatto che vive i momenti, non sente la processualità, non vede l’inizio e la fine ma vive come dilatato nel tempo, in un blocco spazio-temporale.
Riferendosi alla terapia mi chiede come farà quando decideremo che sarà finita, ha paura che non riuscirà a farcela da solo. Crede che sarà una terapia perenne visto che “il cambiamento è immutabile”, nel senso che ci sarà sempre. Non lo dice con preoccupazione, ma come un dato di fatto, essendo il cambiamento sempre in divenire dovrà sempre venire in terapia. Ho sentito la sua paura di potercela fare da solo. Il bisogno di essere rassicurato, “ci sarai sempre?”. Ma questa è un’ipotesi.
Ipotesi che oggi voglio fare. Che domani verificherò.
Intanto io e L. continueremo nel nostro percorso, difficile, pericoloso, vitale e mortale.

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La Sinfonia di L