La vendetta del perdono di Eric Emmanuel Schmitt
Non conoscevo questo autore. Mi ci sono imbattuta grazie a un amico. Ho trovato la sua prosa ruvida, irriverente, imprevedibile. L’effetto è di uno schiaffo in pieno viso.
Il tema trattato nei quattro racconti di cui si compone il libro è quello del perdono. Ciò che mi ha davvero spiazzata è il modo in cui Schmitt sceglie di farlo; rifuggendo dalla retorica buonista, impastata di melassa, che vorrebbe l’artefice del perdono solo pieno di amore e buoni sentimenti. Il titolo dovrebbe mettere il lettore sull’avviso. Infatti, l’autore sembra suggerire che essere solidali con le vittime è abbastanza facile. Mentre interrogarsi su cosa somigli in noi a un abusante è sicuramente più difficile. Ma ben più utile, soprattutto di questi tempi. Per questo invita a esplorare lo spazio che separa i buoni dai cattivi. Che non è affatto vuoto, come vorrebbe una retorica semplicistica, ma piuttosto è una zona grigia, densamente popolata di figure spesso ambigue.
Attraverso i suoi racconti Schmitt esorta a porsi alcune domande scomode. Che dire, ad esempio, dell’attitudine al perdono tout court? Il perdono può essere molto umiliante per chi ne viene fatto oggetto senza averlo richiesto. Come nel caso di Lily e Mosetta, le due gemelle con disparità di trattamento dalla nascita; diventate l’una buona e l’altra, quella bistrattata, molto rancorosa. La costante benevolenza di Lily nei confronti della sorella non ha permesso a Mosetta di mettere in parole la sua rabbia. Ma paradossalmente ha contribuito a radicalizzarla. E ancora, perché taluni hanno un bisogno insopprimibile di sentirsi sempre buoni o essere definiti tali? Forse ne ricavano dei vantaggi secondari: uno tra tutti, l’ammirazione altrui.
Inoltre, sempre a proposito di zone grigie, la figura di Élise è emblematica. Che senso ha infatti perdonare un assassino e aiutarlo a fargli recuperare la sua umanità, come auspica la giustizia riparativa, per poi abbandonarlo sadicamente al suo destino proprio quando, entrato in contatto con la sua ombra, prova dolore per il male che ha commesso? É pur vero che quando la morte naturale irrompe nella vita sembra comunque più accettabile della morte violenta. Che invece è irrazionale, impensabile e costringe alla ricerca ossessiva di un perché che non esiste. Capita allora che il rancore e il sottile desiderio di vendetta vengano visti come l’unica ragione di vita. Purtroppo, però il dolore che nasce dall’offesa subita trova solo illusoriamente soddisfazione nell’attimo bruciante della vendetta.
Di certo il passato non si può eliminare. Né si può cancellare il dolore. Tuttavia, l’esperienza di alcune vittime suggerisce come lo si possa faticosamente trasformare nel tempo, uscendo dalla prigionia dei ricordi per recuperare il senso della vita. In che modo? Comprendendo le ragioni dell’altro, pur senza giustificarle. Non va dimenticato che “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”, come sosteneva Publio Terenzio Afro. Ciò implica incontrare chi ci ha oltraggiati proprio là dove la sua umanità ha fallito. Cioè su un piano di reciprocità. Non certo da una posizione di magnanima superiorità. Per questo talvolta mi chiedo se il perdono sia umano o solo divino.
Da ultimo, riusciamo a perdonarci il male commesso accollandoci colpe altrui oppure riscattandoci con un gesto clamoroso, come hanno fatto Werner e William. nei rimanenti due racconti. Questo è un tema più facile da affrontare. Meno dissacrante e più improntato ai buoni sentimenti. I colpevoli si ravvedono, cosa di cui tengono conto i giudici nel comminare una pena, e fanno ammenda dei loro peccati. Come nelle fiabe.
Fulvia Ceccarelli