L’EMOZIONE DI TORNARE A SCUOLA
Tania Farris
Entrare in una scuola da educatore, insegnante, psicologo, è un’esperienza fisica e psicologica forte; per quanto la quotidianità permetta di abituarsi e corazzarsi in qualsiasi ambiente, è innegabile che si tratti di uno di quei luoghi ancestrali appartenenti all’esperienza di vita di tutti, carico dei più disparati significati. I colori, i suoni, le immagini rimandano inevitabilmente alla nostra storia di ex allievi e agli anni più o meno lontani in cui quel luogo lo abbiamo frequentato, bambini pieni di speranza magari.
Così è stato anche per me quando a novembre dell’anno scorso ho iniziato un anno di lavoro, con l’incarico di svolgere attività psicoeducative in una scuola primaria di Milano. La mia partenza ad anno scolastico già avviato per gli altri è stata positiva e piena di speranza, direi persino che ero desiderosa di rivivere l’ambiente scolastico, dopo il completamento della formazione psicoanalitica.
Sentivo qualche strano movimento interno, ora posso dire sottovalutato, per cui ero già in sfida con non so bene chi. Quello che è certo, riflettendoci ora, a lavoro concluso, è che la campanella non era ancora suonata per me e io avevo già un transfert grande come una casa con tutta l’istituzione scolastica.
L’anno è iniziato; il mio intervento si divideva in due plessi distinti, mi occupavo in un caso dell’educativa con un piccolo bimbo affetto da sindrome di Down, e in un altro di diversi allievi con disturbi dell’apprendimento e lievi ritardi cognitivi. Tutto ciò in mezzo a un mare in tempesta di bisogni educativi speciali. Scelgo di utilizzare questa metafora per provare a descrivere un ambiente umano estremamente complesso, turbolento ma vivo in cui mi sono sentita letteralmente immersa. La prima cosa che ho sentito l’urgenza di fare è stata abbandonare qualche altisonante categoria psicoanalitica; ammetto di amare molto la scrittura di Massimo Recalcati, ma dopo tre ore pomeridiane passate a contenere ragazzini incontenibili insieme a insegnanti provati almeno quanto me dalla “relazione educativa”, più che al fascino dell’“erotica dell’insegnamento” ho pensato seriamente alla fuga a gambe levate.
Prima di iniziare a scrivere queste brevi riflessioni ho anche pensato al livello di auto-svelamento con cui provare a immettere un po’ di pensiero nell’anno di lavoro trascorso, a quanto potesse essere utile per costruire un senso rispetto ai mesi frenetici passati e per capire se le attività portate avanti insieme agli insegnanti siano state o meno effettivamente azioni educative. E mi sono anche chiesta quanto svelare del quadro amaro che mi si è prospettato davanti rispetto alle condizioni generali della scuola; non dico certo delle novità, ma per chi si trovasse a leggere questo scritto e non frequentasse l’ambiente, quest’esperienza purtroppo a me ha confermato quanto si sa già da tempo e che scrivono sia giornali sia riviste di settore. La disabilità, per esempio, è un tema totalmente a carico di educatori e insegnanti di sostegno, quindi ben lontana dall’essere affrontata nella prassi con un approccio collegiale. L’altissima presenza di alunni di origine straniera è affrontata perlopiù grazie all’intelligenza e alla lungimiranza di qualche bravo docente e non certo grazie a un progetto condiviso di inclusività. In uno dei due plessi in cui ho lavorato, il 99,9% degli alunni era di origine straniera, e sto parlando di scuole che si trovano nel cuore di Milano non nell’estrema periferia di una grande città; l’eterogeneità del gruppo classe è un fatto di per sé arricchente, favorisce l’apprendimento, come ci ricorda anche un recente rapporto della Fondazione Agnelli, ma tale non può essere se si tratta solo di mettere insieme diverse provenienze geografiche con l’omogeneità di fondo però della stessa bassa estrazione socio-economica!
La ragione per cui alla fine ho deciso di condividere pubblicamente emozioni e sentimenti provati, argomentandoli nel merito, è che penso che i mestieri dell’insegnante, dell’educatore, del terapeuta, abbiano una dimensione squisitamente pubblica, siano socialmente connotati ed, essendo tali, chi li svolge ha il dovere di introdurre nella narrazione collettiva ciò che di eclatante osserva.
Ed è sicuramente degna di nota l’impotenza che si prova a operare con un ruolo educativo in molte scuole. Sono completamente saltati alcuni basilari capisaldi delle relazioni inter-generazionali e fra adulti in genere; l’alleanza fra genitori e insegnanti è uno di questi. Così come è saltata la condivisione autentica del lavoro fra colleghi coinvolti a vario titolo nel processo educativo, mentre è aumentato lo scarto fra saperi che teorizzano sulla scuola e le prassi degli operatori che di fatto sono soli. È la fine dell’utopia veramente mi chiedo?
Forse urlerebbero di no tutte quelle donne e tutti quegli uomini che soprattutto negli anni ‘70 hanno immaginato la scuola, e altri preziosi luoghi formativi e di cura, come un ambiente politicizzato e chi ci lavorava come un intellettuale impegnato. Francamente io non sono un’ottimista per partito preso; quello che però mi è chiaro alla fine di questo memoir dell’anno scolastico trascorso e che spero mi serva per il prossimo, appena iniziato, è ciò che mi ha aiutato a stare bene con me stessa e a esercitare il mio ruolo in quella scuola così transferale.
Purtroppo non ho una magia con cui stupire chi mi sta leggendo, ma solo una buona prassi da condividere, questa sì derivante da antiche categorie psicoanalitiche con cui in genere veniamo formati al lavoro terapeutico: il continuo, quotidiano, costante, instancabile lavoro introspettivo. Il tentativo di stare sempre con uno sguardo aperto verso gli altri, mantenendo però un contatto profondo con se stessi, con tutte le vibrazioni e associazioni che ogni ambiente vivo suscita. Come a dire che, dove non arriva la speranza, forse ce la fa la perseveranza.
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