LENTA MENTE
Dania Cappellini e Julie Cunningham
La natura non ha fretta,
eppure tutto si realizza.
[Lao Tze]

La scienza afferma che il pensiero è un impulso che viaggia lungo le fibre nervose del corpo alla velocità massima di circa 250 chilometri orari. Più di una utilitaria certo, ma anche meno di un Frecciarossa.
Non tutti ovviamente sono attrezzati allo stesso modo, anche se la società attuale ha fatto della rapidità un suo elemento portante. Tutto ormai è “fast”: le connessioni web, i messaggi che ci scambiamo, l’utilizzo dei social, i viaggi. E le risposte agli stimoli sia fisici che intellettuali sono considerate tanto più negative quanto più lente.
Ma è proprio così? Non ci troviamo di fronte a un falso mito del Terzo Millennio? Sono in molti a ritenerlo tale, contrapponendo all’aggettivo “fast” quello denominato “slow”, elaborando teorie e manifesti che elogiano al contrario la riflessione, la ponderatezza, la lentezza.
Circa 30 anni fa ad esempio, è nato in ambito culturale gastronomico il movimento “Slowfood”, per opporsi al dilagare del suo contrario. Nel 1995 Milan Kundera ha dato alle stampe il suo romanzo La lentezza.
Geir Berthelsen, attraverso l’Istituto Mondiale della Lentezza da lui creato, ha presentato nel 1999 un progetto per un intero “Slow Planet” dove ravvisava la necessità di insegnare a livello globale la via Slow e lo scrittore canadese Carl Honorè nel suo libro Elogio della lentezza ha per primo enunciato come la filosofia Slow possa essere applicata in ogni campo dell’attività umana e ha coniato la frase “Movimento Lento”.
«Si tratta di una rivoluzione culturale – scrisse – contro l’idea che più veloce è sempre meglio. La filosofia dello Slow non è di fare tutto al ritmo di una lumaca. Si tratta di fare tutto alla giusta velocità. Assaporare le ore e i minuti piuttosto che solo contarli. Fare tutto nel miglior modo possibile, invece che il più velocemente possibile. Si tratta di qualità sulla quantità in tutto, dal lavoro, al cibo, all’essere genitori».

Viviamo in un mondo veloce
Da un punto di vista più strettamente scientifico, lo stesso titolo Elogio della lentezza è stato scelto nel 2014 dal neurologo Lamberto Maffei, Direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR dal 1980 al 2008, e presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei. «Siamo davvero programmati per la velocità?» si chiede Maffei. « Viviamo in un mondo veloce, dove il tempo sembra via via contrarsi: continuamente connessi, chiamati a rispondere in tempi brevi a e-mail, tweet e sms, iper-sollecitati dalle immagini, in una frenesia visiva e cognitiva dai tratti patologici. Dimentichiamo così che il cervello è una macchina lenta e, nel tentativo di imitare le macchine veloci, andiamo incontro a frustrazioni e affanni». E le sue pagine esplorano i meccanismi cerebrali che guidano le reazioni rapide dell’organismo umano, di origine sia genetica sia culturale, con un invito a scoprire i vantaggi di una civiltà dedita alla riflessività e al pensiero lento.

Una storia straordinaria e vera
Il bel libro che prendiamo oggi in considerazione è invece un romanzo che ripercorre tuttavia una straordinaria esperienza vera: La scoperta delle lentezza. È del tedesco Sten Nadolny, narratore e produttore cinematografico, pubblicato nel 1983 e tradotto a suo tempo da Garzanti, che ora lo ha fatto uscire nella collana Narratori Moderni. Sandro Veronesi lo ha definito una volta un «libro leggendario» – e di certo un romanzo notevole e leggendario fu la vita del suo protagonista, l’esploratore inglese John Franklin (1786-1847).
A dieci anni John Franklin, colui che sarà destinato a diventare uno dei più grandi esploratori artici inglesi, non riesce ancora ad afferrare la palla che gli lanciano i compagni. Capisce, non capisce. Rimugina parole. Stenta a esprimersi. Un disadattato, si direbbe. Eppure John riflette, accumula nella memoria, costruisce dentro di sé, lentissimamente, una sicurezza incrollabile. A quattordici anni è pronto per iniziare l’inarrestabile ascesa che lo vedrà ufficiale di marina sulle prestigiose navi da guerra britanniche, poi al seguito di spedizioni scientifiche nell’Artico canadese; quindi per sei anni pacato governatore della colonia penale della Tasmania ed esploratore del leggendario passaggio a nord-ovest…
Dall’infanzia alla sua irresistibile ascesa nella Marina Imperiale britannica, ai tempi leggendari di Nelson, Franklin presenta tratti di personalità e d’intelligenza che oggi potremmo definire autistica, o caratteristica della sindrome di Asperger o ancora del Savant, che ricorda moltissimo (per chi l’ha seguita in tv insieme con altri 12 milioni di spettatori) la figura di Shawn Murphy, lo straordinario giovane chirurgo di The Good Doctor.

Da emarginato a eroe
Le pagine del romanzo, così come del resto la vera vita di Franklin, sono appunto il riscontro della lentezza intesa come uno sguardo sulle cose del tutto speciale: nell’imbarazzante collezione di handicap in cui vive, spicca l’eccessiva, paralizzante lentezza che ne fa all’inizio un emarginato deriso da tutti.
Come ha scritto come meglio non si potrebbe in una sua recensione il giornalista Michele Lupi, «ciò che più accende l’interesse del romanzo (di una bellezza a tratti voluttuosa, piena di humour) non è tanto il fatto che trattandosi di John Franklin conterrebbe in sé una biografia eccezionale (romanzesca appunto la serie di avventure che consentono all’uomo di ricavarsi un suo spazio nelle enciclopedie potendosi leggere ovunque, tant’è che il bizzarro inglese ha ispirato altre opere letterarie), ma che la lentezza (viste le premesse: a dieci anni non afferra la palla che gli tirano i compagni, non sa infilare un bottone nell’asola, si rassegna a dire sì per evitare la figuraccia di chi non capisce cosa gli si dice) invece di paralizzarlo non solo gli fu d’aiuto nella sua vita, ma soprattutto gli concesse la capacità di percepire in un modo singolare cose, persone, situazioni. Di imparare a guardare, e a misurare, col tempo che ci voleva, nevvero, la nequizie di un mondo che cominciava invece a soccombere all’isteria della frenesia cieca».
Abbiamo scelto il libro di Nadolny per curiosità intorno alla storia di una persona vera con una personalità e un percorso di vita eccezionale in grado di insegnarci qualcosa sullo spirito umano. Questo esploratore dell’Artico era in grado di osservare e applicare un analisi lunga e lenta a situazioni che altri non erano in grado di percepire. Forse ci riusciva perché in quei momenti cruciali sembrava saper mettere da parte completamente le emozioni sue e quelle degli altri e fidarsi della propria lentezza, forse meglio dire del buon uso della propria lentezza, che aveva imparato a capire e valorizzare.

Anche la mia funziona
Ci ha fatto pensare molto alla lentezza nella vita, a osservarla intorno a noi e a darle il giusto peso. Ci sto pensando anche mentre scrivo questa mia aggiunta alla bella recensione di Dania: quanto mi serve un pensiero lento in questo momento che sto iniziando di nuovo la mia parte dello scritto dopo aver cancellato per sbaglio due pagine di lavoro quasi pronte due giorni fa! Dopo un attimo (o due) di disperazione e un buon caffè ho deciso di ricominciare con lentezza e senza il tentativo di ritrovare nella mia povera memoria le stesse parole, sequenze, ecc. La lentezza mi ha permesso di ricominciare da capo. Non sarà lo stesso testo di prima, ma con la scoperta della mia lentezza mi fa quasi piacere continuare a pensare a questo strano libro che mi ha dato tanto. La lentezza mi serve bene, e la sua accettazione mi toglie l’ansia.
La lentezza di Franklin, invece, è descritta da un suo insegnante come una necessità di dover guardare per molto tempo tutto quello che guardava. L’immagine percepita dall’occhio rimaneva al suo posto per essere esplorata; immagini successive passavano senza essere esaminate. Franklin sacrificava la completezza per il dettaglio, non riusciva a seguire degli sviluppi veloci ma riusciva a comprendere meglio avvenimenti unici e sviluppi lenti.

Una relazione stretta
Nel suo libro, Narrative of a journey to the shores of the polar sea, (Racconto di un viaggio sulle rive del mare polare) Franklin scrive: “Quanto tempo qualcosa dura e quanto può cambiare improvvisamente. Queste cose non sono mai fisse ma piuttosto dipendono da ogni persona. Ho avuto molto difficoltà nell’accettare questo fatto: la mia velocità e il modo in cui il mondo si muove intorno a me”.
Nadolny nomina spesso la stretta relazione tra Franklin e gli elementi naturali, particolarmente quando si trova sul mare. Abbiamo pensato al libro di Harold Searles, L’ambiente non-umano, quando Franklin descrive quei momenti nella vita in cui avrebbe voluto essere un pezzo di spiaggia o un grande sasso, perché nella sua ricerca per le certezze aveva notato che “quelli che potevano mantenere la certezza erano loro stessi di grande permanenza – come le stelle, le montagne e il mare”. Quest’uomo sembrava cercare le certezze come fanno i nostri pazienti autistici con la loro concentrazione assoluta sulle attività sensoriali: le biglie infilate nei tubi di plastica trasparenti, i tappi delle bottiglie fatti girare come delle trottole, i salti e le piroette nelle nostre stanze e noi a partecipare insieme a loro. Franklin, però, andava oltre: all’attività lentamente e intensamente osservata lui aggiungeva la percezione e poi il pensiero che veniva elaborato e sviluppato.
Per esempio, era in grado di osservare dei dettagli che altri non riuscivano a vedere, come la volta in cui con grande calma era riuscito a vedere un’insenatura in un muro di ghiaccio con il mare in tempesta e l’intero equipaggio paralizzato dalla paura e convinto che la fine fosse arrivata. Franklin ha portato nave e uomini al salvo convincendoli con la sua calma certezza di riprendere i loro posti e fare delle manovre da lui ordinate che a loro sembravano pazze.

Le persone della sua vita
È molto curioso come descrive le sue osservazioni delle persone nella sua vita e come guardandole riusciva ad imparare come comportarsi in compagnia. Provava emozioni, ma era in grado di ignorarle quando aveva bisogno di affrontare problemi che considerava più importanti.
Noi lettori del libro siamo diventati compagni di John Franklin nei suoi viaggi interni e nel mondo intero. Ci siamo sentiti vicini a un personaggio strano e buono anche se non sempre del tutto simpatico.
E ovviamente abbiamo guardato bene la lentezza nel percorso analitico, diversa da quella di Franklin, perché non contiene una ricerca della certezza ma piuttosto un’accettazione delle possibilità vitali dell’imprevedibilità. Ma tutti e due si somigliano nella creazione di uno spazio per riflettere a lungo e con grande attenzione in un viaggio che sia in nave o dentro di sé nella stanza dell’analista.

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Lenta Mente

 

Lentezza

*** La scoperta della lentezza, di Sten Nadolny, Garzanti, Neri Pozza, € 12