Tra i molti spunti di riflessione suggeriti da quest’ultima opera di Almodovar, due mi hanno colpita in particolar modo perché strettamente legati al nostro presente. Il primo è che l’identità ha una duplice dimensione: storica e biologica. Il secondo è il ruolo del maschile oggi.
Dico questo perché il regista sembra posare lo sguardo non solo sulle vicende di uomini e donne ma anche sulla storia dei luoghi che abitano, sottolineando come esse siano inestricabilmente intrecciate. La nostra formazione umana, infatti, avviene sotto l’influsso di una certa cultura dominante. Che si è consolidata nel tempo e che esprime dei valori più o meno condivisibili. Scegliere se accettarli o rifiutarli ci caratterizza e ci differenzia come persone e contribuisce a plasmare la nostra identità. Che poggia su un altro pilastro: le nostre origini. Non per nulla – la mia esperienza lavorativa me lo conferma – ragazze e ragazzi adottivi o dati in affido rivendicano con fierezza e ben prima dei tempi consentiti dalla legge, il diritto di sapere da dove provengono e chi sono i loro genitori naturali. L’esigenza di radicamento riguarda tutti indistintamente e soprattutto chi ha un percorso di vita accidentato. Ho infatti toccato con mano quanto certi segreti familiari che ruotano intorno al tema della nascita, mai svelati neanche in punto di morte, continuino ad aleggiare tra le mura domestiche, corrompendone l’atmosfera. Questo per ribadire che un’identità costruita sulla menzogna o sul non detto ha basi fragilissime.
Almodovar affida il tema della ricerca delle origini ad una galleria di ritratti femminili tanto coraggiosi quanto imperfetti. Tanto che a un primo sguardo potremmo definire Madres paralelas una storia tutta al femminile, di amori e di amicizie. In cui spicca Janis, fotografa quarantenne, orfana di entrambi i genitori, che promette alla nonna che l’ha cresciuta di dare degna sepoltura al bisnonno. Questi giace da decenni in una fossa comune con altri valorosi compatrioti ammazzati dai falangisti. Janis è convinta che la memoria non riguardi solo il passato, ma estenda la sua ombra sul presente e sul futuro. E lotta per lasciare a sua figlia un mondo in cui ricordare e restituire dignità a chi ha combattuto perché godessimo di un futuro migliore, è il passaggio del testimone che rinsalda e suggella il patto intergenerazionale.
Per realizzare il suo sogno, Janis chiede aiuto ad Arturo, antropologo forense e padre di sua figlia. Curiosamente Arturo è l’unico personaggio maschile positivo del film, se si escludono le vittime della guerra civile. Di altri uomini si sente accennare fugacemente. E si tratta di figure inconsistenti se non decisamente squallide. Che sia un invito del regista a certa parte dell’universo maschile a recuperare il proprio ruolo nel mondo? Che ovviamente non è né quello sbiadito o assente né quello pericolosamente machista, di cui le donne pagano un prezzo altissimo.
Mi piace molto l’esortazione di Almodovar ad una ricomposizione del femminile e del maschile. Senza squilibri né egemonie. Soprattutto in questi tempi bui. Perché ridà dignità a tanti uomini che non si riconoscono nel ruolo di aggressori. E impedisce la diffusione dell’idea pericolosa oltre che banale che il maschile sia male a prescindere.
Fulvia Ceccarelli