di Luciano Manicardi, monaco di Bose
Mentire: un fenomeno universale
Per quanto sia normalmente esecrato e stigmatizzato, il mentire è un fenomeno trasversale a ogni tempo e a ogni cultura. Mentiamo a tutti, alle persone più care e agli estranei, e anche a noi stessi. Dunque, il mentire e anche la costellazione ad esso connessa dell’ingannare, dell’imbrogliare, del dissimulare, del fingere, è fenomeno universalmente umano. Possiamo dire che “a differenza del rubare, commettere abusi sessuali o uccidere, quello di mentire è un crimine morale che commettiamo tutti e regolarmente”[i]. Un libro che analizza da un punto di vista cognitivo-sociale il problema della menzogna riporta questo dato: “In una inchiesta fatta in un liceo di ragazze, alla prima domanda: ‘lei mente?’ il 50% ha risposto spesso, il 20% molto spesso, il 20% qualche volta, il 10% mai. Alla seconda domanda: ‘Bisogna condannare la menzogna?’ il 95% ha risposto Sì“[ii].
Una questione oscura
Se il fenomeno è diffuso e universale, il suo studio e la sua analisi sono tutt’altro che semplici. Anzi, affrontare la questione della menzogna è impresa ardua. Lo sapeva Agostino, quando, nel suo trattato De mendacio (395 d.C.), affermava che si tratta di una “questione straordinariamente oscura” (latebrosa nimis), questione che “spesso elude tramite nascondigli cavernosi l’intento di chi indaga, come se sfuggisse dalle mani ciò che si era trovato, che ora riappare e ora sparisce di nuovo”[iii]. E lo sa chi ancora oggi esamina questo argomento da un determinato punto di vista (filosofico, psicologico, pedagogico, giuridico, linguistico, politico…), nella coscienza che solo un approccio interdisciplinare può darne una visione sufficientemente completa, o almeno non troppo lacunosa[iv]. A questi problemi si affiancano poi quelli di etica, qualora si affronti la menzogna come “figura del male”[v]. Occorre allora distinguere la menzogna dalla bugia innocente, dalla finzione che struttura una persona, dall’imitazione e identificazione con altro da sé, dalla sperimentazione linguistica che consente creatività, protesta e trasgressione, come ha scritto George Steiner: “Il linguaggio è il principale strumento del rifiuto dell’uomo di accettare il mondo per come è”[vi]. Ora, se non può essere considerata menzogna una cosa non vera detta per ignoranza o per errore o per convinzione che sia vera mentre non lo è, si deve cercare nella volontà, nella intenzionalità di ingannare, il nucleo decisivo che rende menzognera un’affermazione. Per Agostino, alla base della menzogna c’è la voluntas fallendi, la volontà deliberata di ingannare l’altro. Mentre non è affatto detto che della menzogna faccia necessariamente parte la voluntas nocendi, cioè l’intenzione di nuocere all’altro e di danneggiarlo. Ci sono menzogne che sono un’autodifesa, una protezione di sé, ma che non intendono minimamente fare del male agli altri. Jean Jacques Rousseau afferma: “Asserire il falso è mentire soltanto se esiste l’intenzione d’ingannare; e perfino l’intenzione d’ingannare, lungi dall’essere sempre unita con quella di nuocere, qualche volta ha un fine addirittura contrario”[vii].
Potere e piacere del mentire
La potenza della menzogna è evidente e andrebbe semplicemente riconosciuta. Spesso invece noi ci aggrappiamo alla menzogna della “forza della verità” e ci rifiutiamo di ammettere la verità della “forza della menzogna”. La forza della menzogna risiede nel suo potere di ricreare la realtà, di plasmarla a piacimento, di manipolare altre persone inducendole a credere e a fare ciò che noi vogliamo in base alle nostre menzogne. L’uomo sente il proprio potere molto più mentendo che dicendo la verità, che attenendosi alla faticosa e opaca adesione e corrispondenza tra le parole e i fatti. La definizione di verità di stampo tomista parla di adaequatio rei et intellectus, “corrispondenza tra realtà e intelletto”, ovvero di corrispondenza tra la “cosa”, la realtà, e la sua rappresentazione linguistica e concettuale. La menzogna spezza intenzionalmente questa corrispondenza al fine di ingannare altri. Vi è qualcosa di perversamente divino nella menzogna, cioè nella manipolazione e distorsione della realtà che scimmiotta l’azione creatrice del Dio che parlò e ciò che disse “fu”, venne all’esistenza[viii]. Il menzognero fa esistere ciò che lui dice o, meglio, induce altri a credere vero ciò che lui dice e che dice sapendolo falso. È una forma di seduzione che esprime la dimensione anche erotica del mentire. Inducendo l’altro a credere le mie menzogne, penetro in lui e lo possiedo, lo determino, ma l’unica soddisfazione è del mio ego. Dunque, una dimensione della menzogna è il piacere che essa dona a chi “mente sapendo di mentire” per ottenere i risultati che si è prefisso. Faccio notare che l’espressione “mentire sapendo di mentire” è ridondante e tautologica perché mentire implica già l’intenzione di ingannare e dunque implica sapere che ciò che si dice è falso. Sapere, piacere, potere si trovano perversamente intrecciati nell’atto menzognero.
Menzogna e politica
Parlando di potere della menzogna non possiamo dimenticare che sul piano politico la menzogna si presenta come straordinario strumento di potere, come un’arma. Sono tante le forme del mentire politico: occultamento della verità, distorsione del significato degli eventi, presentazione come veri di fatti non veri. Ormai tutti sappiamo che erano false le notizie che affermavano che l’Iraq era in possesso di armi di distruzione di massa[ix]. Ma quelle menzogne hanno avuto il potere di scatenare una guerra grazie alla diffusione che i media hanno dato loro. Infatti, il successo di una menzogna dipende dalla sua accettazione sociale. Per questo il politico ha bisogno di controllare i mezzi di informazione. Un articolo del New York Times del 30 maggio 2004, in cui l’articolista definiva “fallimento istituzionale e non individuale” l’informazione data a suo tempo dal suo giornale sulle armi possedute dall’Iraq, portava come titolo: “Armi di distruzione di massa o di distrazione di massa?” (Weapons of Mass Destruction? Or Mass Destraction?)[x].
Etica della parola
Dietro alla mia scelta di parlare della potenza della menzogna, e di un certo uso e abuso della parola, vi è la convinzione dell’urgente necessità che la nostra società oggi ha di recuperare un’etica della parola. Di riscoprire il potere della parola per non cadere succubi della parola del potere il quale tale parola manipola e distorce per i propri fini. Vi è la convinzione della necessità di riscoprire lo statuto della parola, la dimensione etica di ogni atto di parola, in riferimento a se stessi, il locutore, all’altro, il destinatario della parola, e, infine, alla parola stessa[xi].
Menzogna e psicoanalisi
In psicoanalisi la menzogna detta dal paziente all’analista è un sintomo che va anzitutto riconosciuto, rispettato e accolto. L’analista ha a che fare quotidianamente con le bugie del paziente ed esse sono importanti per il paziente in quanto gli servono come barriera difensiva contro affermazioni che lo condurrebbero a una condizione di tumulto o confusione psicologica[xii]. Quando per contenuto, funzione, significato e frequenza, la menzogna coinvolge la personalità e l’esistenza intera di una persona, ci si può trovare di fronte a bugiardi patologici. Ovvero, i bugiardi che fanno della menzogna un habitus, che mentono per manipolare, per ottenere vantaggi senza preoccuparsi delle conseguenze emotive e relazionali che il loro comportamento può produrre negli altri. Normalmente il bugiardo patologico è poco attento alla dimensione emotiva e psicologica degli altri, è autocentrato e narcisista: egli ha talmente interiorizzato il meccanismo menzognero che ci convive in maniera egosintonica e non riesce a percepire il suo modo di fare come patologico. Più analiticamente, il bugiardo patologico ha come elementi caratterizzanti della sua personalità questi atteggiamenti: mente gratuitamente anche se non è necessario; è impaziente; tende a essere manipolativo nei confronti degli altri; è seduttivo e disinibito; è intollerante alle critiche; pretende, perché ritiene che tutto gli sia dovuto; non prova rimorsi; è incapace di instaurare relazioni affettive mature. Nell’ambito patologico, per esempio nel quadro dei disturbi di personalità, certamente occorrerebbe andare più nello specifico e vedere come le bugie svolgono funzioni differenti e assolvono compiti diversi a secondo del quadro patologico dell’individuo al cui interno la menzogna appare come sintomo. La tipologia di menzogne che il paziente mette in atto è normalmente riflesso della sua sintomatologia. Si possono notare differenziazioni significative in pazienti con disturbo narcisistico, in pazienti borderline, in pazienti afflitti da disturbo ossessivo compulsivo[xiii]. Di certo, in analisi, la bugia – quale che sia la sua gravità – è materiale che chiede di essere interrogato ed elaborato all’interno di quel lavoro psicoterapeutico che ha anche una valenza etica “perché ogni guarigione psicoterapeutica è un’attività morale, e ogni attività morale è indirettamente terapeutica”[xiv]. Così, si esprime lo psicoanalista Luigi Zoja, secondo il quale la dimensione etica assume la forma di un’attenzione coltivata all’ascolto delle urgenze oscure dell’umano per elaborarne una più acuta consapevolezza. Infatti, il discernimento delle ombre può scoprire tesori. Sempre Zoja inizia così un suo libro tutto teso ad affermare lo statuto etico della pratica analitica e dunque anche del comportamento dell’analista stesso: “Il cuore dell’analisi è etico: si propone di combattere la menzogna, prima di tutto quella che raccontiamo a noi stessi. L’etica dell’analisi non è dunque un espediente per dare rispettabilità alla professione. È una presenza originaria. Non ci affaccendiamo per anni con i sogni e le fantasie inconsce di qualcuno perché è stimolante. Siamo alla ricerca di una maggiore sincerità. […] L’analisi è una conoscenza umanistica”[xv]. E più avanti enuclea tre principi etici basilari per psicoanalisti e analisti: “La psicoterapia si occupa dell’intero essere umano… non di una parte specifica del suo corpo o della sua psiche. Anche il soggetto professionale (il terapeuta) opera con tutto il suo essere, non usando solo le sue capacità professionali o un segmento specialistico della sua personalità. La personalità del professionista è, come quella di ogni altro essere umano, una individualità: qualcosa di non divisibile”[xvi]. Il richiamo è all’integrità personale. Quindi propone un’etica della responsabilità, nel senso di Max Weber (che la distingue dall’etica della convinzione), ovvero attenta alle conseguenze delle proprie parole e azioni, e non solo alle conseguenze intenzionali ma anche alle conseguenze inconsce. Qui occorre una conoscenza e un rispetto dei limiti non solo deontologici, ma anche personali, uscendo dal nefasto atteggiamento del “salvatore”[xvii]. Infine egli propone di considerare il problema psichico non solo malattia perché “dietro alla sofferenza mentale si trova quasi sempre una spinta costruttiva o un bisogno che non riesce a trovare il suo sbocco”[xviii]. Il problema della veridicità e del mentire andrebbe dunque collocato in una più vasta riflessione di tipo etico[xix].
L’uomo: l’animale che mente
Se forme di inganno sono messe in atto anche da animali, possiamo dire che l’uomo è l’animale che mente. Mentire non è solo una perversione della nostra natura umana, ma un suo aspetto fondamentale. “La capacità di ingannare consapevolmente e di riconoscere l’inganno è esclusivamente umana e svolge un ruolo in tutti i nostri rapporti. È impossibile comprendere la società umana e persino capire noi stessi senza prima comprendere cosa significa mentire”[xx]. In genere i comportamenti ingannevoli degli animali sono volti alla sopravvivenza, a difendere la nidiata, il cibo, dunque dovuti all’istinto che l’animale ha sviluppato. Questi comportamenti sono presenti soprattutto in quegli animali che vivono in gruppi sociali: l’inganno permette loro di avvantaggiarsi rispetto a possibili concorrenti nell’accesso a risorse alimentari o in vista della ricerca di partner e dell’accoppiamento. Gli umani ricorrono al medesimo comportamento ingannevole, ma in più rispetto agli animali gli umani mettono in atto certi tipi di menzogna che sono legati a bisogni di tipo egocentrico che gli animali non presentano. È l’intelligenza sociale, quella cioè che si è dovuta sviluppare vivendo insieme ad altri, che ha portato l’uomo a raffinare la propria immaginazione, la capacità di preveggenza, di comprendere cosa l’altro abbia in animo, di immaginarne e prevenirne le mosse, elementi tutti essenziali per attuare un comportamento menzognero. L’evoluzione dice che la menzogna costituisce una strategia, di natura squisitamente sociale, essenziale per la sopravvivenza. Capacità di inganno comporta capacità di prevedere gli effetti del proprio agire sugli altri, capacità di immaginazione del futuro, buona memoria. Negli umani, poi, questa capacità è particolarmente sviluppata grazie a quello straordinario mezzo simbolico che è il linguaggio. Insomma, la menzogna, intesa come falsa affermazione fatta con l’intenzione di trarre altri in errore sembra una competenza che gli umani hanno sviluppato in modo speciale e che li caratterizza. Indipendentemente da ogni giudizio morale, la menzogna è opera di ingegno. Solo l’idiota, colui che è totalmente trasparente, non può mentire.
Iniziare a comunicare, iniziare a mentire
Il poeta e scrittore russo Josif Brodskij, rievocando in un suo racconto[xxi] la sua infanzia a Leningrado, ricorda la sua prima bugia. O almeno, la prima bugia di cui ha ricordo. E apre il ricordo con questa affermazione: “La vera storia della coscienza comincia con la prima bugia”[xxii]. Scrive: “la mia prima bugia ebbe a che fare con la mia identità. Niente male come inizio”[xxiii]. All’età di sette anni dice di non conoscere la sua nazionalità all’impiegata di una biblioteca pubblica in cui doveva comporre un modulo di iscrizione. A quindici anni lascia la scuola e si mette a lavorare in una fabbrica come fresatore. Lo fa dicendosi che la sua famiglia aveva bisogno del suo lavoro, il che non era vero. “Era quasi una bugia, ma così sembrava meglio, e ormai avevo imparato ad amare le bugie proprio per questa ‘quasità’ che rende più netti i contorni della verità: dopo tutto, la verità finisce dove cominciano le bugie. […] Qualunque cosa fosse – una bugia, la verità o, assai probabile, un miscuglio dell’una e dell’altra – all’origine di quella decisione, io le sono immensamente grato per avermi indotto a quello che si può considerare il mio primo atto libero”[xxiv]. La bugia appare qui nella sua valenza positiva di atto di libertà, di autocoscienza, di indipendenza, di emancipazione. Qual è stata la nostra prima bugia? Probabilmente non lo sappiamo perché gli studi di psicologia ci dicono che iniziamo a dire bugie a quattro anni. Ma in realtà anche prima. Possiamo dire che i bambini cominciano a dire bugie più o meno nello stesso momento in cui imparano a parlare. Certo, i bambini piccoli tendono a essere mentitori non molto bravi: le loro bugie sono pensate per raggiungere obiettivi semplici, di difesa, e sono confessate con facilità. Quando mente, un bambino di tre anni lo fa in modo istintivo e spontaneo, senza metodo. Poi, intorno ai quattro anni, cambia qualcosa. Si inizia da allora a mentire meglio e più spesso. Cosa succede ai bambini di quattro anni? A quell’età capiscono compiutamente che esistono delle altre persone a cui mentire. È allora che nasce nei bambini la capacità di lettura del pensiero altrui, quindi la cosiddetta ‘funzione esecutiva‘, cioè un complesso di capacità mentali che rimandano alla possibilità di immaginare il futuro e di produrre strategie e ragionamenti, e infine, il cosiddetto intelletto creativo, cioè la capacità di immaginare versioni alternative della realtà. “Mentire è difficile. I bambini che dicono bugie devono essere in grado di distinguere la verità, concepire una storia alternativa falsa ma coerente e giostrare le due versioni nella propria testa mentre spacciano la realtà alternativa a un’altra persona, senza mai scordare ciò che l’altro potrebbe con maggiore probabilità pensare o provare. È straordinario che un bambino di quattro anni sia in grado di fare tutto questo”[xxv]. Lo psicologo Michael F. Hoyt scrive: “La prima bugia riuscita del bambino infrange la tirannia dell’onniscienza genitoriale, cioè il bambino comincia a sentire di possedere una mente propria, un’identità privata ignota ai genitori. […] Il possesso (da parte del bambino) di un segreto dà il senso di avere qualcosa di esclusivamente proprio, di essere un individuo a se stante”[xxvi].
Se questo è il lato positivo, va anche detto però che la bugia può divenire sintomo di disagi più o meno gravi. La bugia è una difesa contro chi è più forte e fa sentire al bambino la sua debolezza e inferiorità: “le persone deboli non possono essere sincere”[xxvii]. La menzogna diviene così un momento significativo in una pratica di resilienza. A volte, anche in persone adulte è l’unica maniera per sopravvivere a un rapporto schiacciante, per trovare scampo da un carattere dominante, per scavarsi una nicchia di respiro in un rapporto asfissiante. Come sintomo di disagio, la bugia del bambino può essere una reazione di difesa rispetto a sensazioni di pericolo e di attacco del mondo esterno, ma può arrivare a costituire una corazza protettiva contro la realtà e divenire un habitus da cui è difficile liberarsi. Una bugia, poi, spesso ne richiama un’altra: per stare a galla il bambino può arrivare ad aver bisogno di moltiplicare le bugie. “Se l’intero senso di sé di un bambino giunge a fondarsi sulle bugie, smettere di usarle è molto difficile … Di solito nei bambini più grandi mentire con regolarità è il segnale di un disagio profondo, un modo per sfogare le frustrazioni, ottenere attenzione o tenere a bada un’insicurezza profonda. I bambini di una coppia che sta per divorziare, per esempio, ricorrono spesso a bugie manipolatorie per esercitare un qualche livello di controllo su una situazione di fronte alla quale si sentirebbero impotenti”[xxviii]. Paul Ekman, che ha studiato per decenni la menzogna e ha dedicato un libro alle bugie dei ragazzi afferma che due sono le età critiche. Quella intorno ai tre-quattro anni e l’adolescenza. Le bugie raggiungono il culmine nella prima adolescenza, per ridursi normalmente in seguito. Molto dipende dalla capacità dei genitori di far fronte ai bisogni di privacy e autonomia dell’adolescente e dal fatto che riescano ad accordargli un crescente margine di potere e responsabilità in campi nuovi della sua vita. In particolare Ekman mette in guardia da un fattore: la frequenza delle bugie, l’abitudine alle bugie da parte del figlio, del bambino o dell’adolescente. “Le menzogne abituali sono un problema da prendere sul serio”[xxix]. E prosegue: “I ragazzi che dicono abitualmente bugie sono più disadattati degli altri e la tendenza precoce alla menzogna è effettivamente predittiva di una maggiore probabilità di comportamenti antisociali in età adulta”[xxx]. Sul piano pedagogico, Ekman afferma che intorno ai tre-quattro anni è il momento buono per cominciare a educare i bambini alla sincerità. Quello che il bambino può capire sull’argomento a questa età è ben diverso da quello che sarà possibile spiegargli più avanti. Prima un bambino impara che le bugie possono essere controproducenti, meglio è. Occorre insegnare ai bambini il piacere della sincerità, anziché instillare in loro la paura di essere smascherati. Il modo più affidabile per crescere bambini affidabili è fidarsi di loro, agire sui loro istinti migliori anziché tentare di estirpare quelli peggiori, insomma creare un ambiente in cui essere sinceri e onesti appaia come la linea politica migliore.
Ambivalenza e ambiguità del mentire
La menzogna è fenomeno ambivalente e ambiguo. È manipolazione della realtà, ma è anche espressione della creatività dell’uomo, risorsa vitale e perfino salvifica. Hannah Arendt ha potuto affermare: “La nostra capacità di mentire… appartiene a pochi chiari e dimostrabili dati che confermano l’esistenza della libertà umana”[xxxi]. Ma è anche vero che, se la menzogna diviene consuetudine incontrastata, si apre la strada a una società totalitaria e a comportamenti distruttivi. In particolare, se si diffonde una pratica menzognera e di inganno si prepara il campo ad abusi e alla perdita della fiducia, che è il legame che tiene insieme i rapporti interpersonali e le società: “La struttura della fiducia sociale è spesso sottile e non appena le menzogne si diffondono… questa fiducia è danneggiata. Tuttavia la fiducia è un bene sociale da proteggere quanto l’aria che respiriamo o l’acqua che beviamo: se è danneggiata, la comunità nel suo insieme ne soffre e se viene distrutta le società vacillano e crollano”[xxxii]. Forse niente meglio di questa espressione del genitore verso il figlio esprime l’ambivalenza della bugia: “Non si devono dire le bugie. Se dici le bugie ti si allunga il naso come quello di Pinocchio”. Si ingiunge di non dire bugie dicendo una bugia. Probabilmente è la migliore introduzione per il bambino alla scoperta della doppiezza, del doppio ruolo e della doppia morale della menzogna che attraverserà tutta la sua vita relazionale futura. L’ambivalenza del mentire risiede nel fatto che le abilità da esso richieste – memoria, previsione, cambiamento di prospettiva, rapidità di pensiero e di parola, controllo delle emozioni, capacità di leggere le intenzioni e di tener conto del punto di vista dell’altro – sono anche le competenze necessarie per diventare adulti e maturi. Non stupisce pertanto che la menzogna abbia sempre suscitato riprovazione ed elogio, condanna e ammirazione. Alla posizione di chi afferma che la menzogna va evitata nel modo più assoluto, si oppone la posizione decisamente più flessibile e sfumata, che fa maggiormente i conti con la realtà e le sue infinite sfaccettature, di altri pensatori. Esemplare è il dibattito che ha opposto Kant a Constant. Scrive Kant: “La maggiore infrazione del dovere dell’uomo verso se stesso, considerato unicamente come essere morale (riguardo all’umanità che risiede nella sua persona), è l’opposto della sincerità, vale a dire la menzogna. […] Il disonore infatti… segue la menzogna e accompagna anche il mentitore come la sua ombra. La menzogna può essere esterna (mendacium externum) o anche interna. Con la prima l’uomo si rende oggetto di disprezzo agli occhi degli altri, con la seconda, ed è ancora peggio, agli occhi propri, e offende la dignità dell’umanità nella sua propria persona. […] La menzogna è l’avvilimento, anzi l’annientamento della dignità umana”[xxxiii]. E Benjamin Constant scrive nel capitolo VIII (Sui principi) del suo saggio Sulle relazioni politiche (1797): “Il principio morale che dire la verità sia un dovere, se fosse preso in modo assoluto e isolato, renderebbe impossibile ogni tipo di società… Dire la verità è un dovere in rapporto a coloro che hanno diritto alla verità. Ora, nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia agli altri”[xxxiv]. Siamo sempre all’interno dell’inaggirabile ambivalenza della menzogna. Con humour e realismo conclude Ian Leslie: “I nostri obblighi verso gli altri finiranno prima o poi col confliggere con il nostro desiderio di dire sempre la verità. Un teologo o un filosofo metafisico possono proporre imperativi morali universali, noi altri desideriamo restare in buoni rapporti con la suocera, o salvare un amico dai guai”[xxxv].
Una storia incredibile
Affrontiamo ora un aspetto dell’ambivalenza della menzogna, ovvero la sua intrinseca polarità potenza – banalità. E lo facciamo esaminando un romanzo che ha proposto in chiave letteraria un inquietante caso di cronaca. Anzi, quella che potremmo chiamare “una storia incredibile”. La potenza della menzogna non si manifesta solo nell’atto verbale, ma anche nei gesti, nei comportamenti, negli atti quotidiani, in una vita[xxxvi]. E tocca abissi di oscurità che vanno ben oltre ciò che intendeva Agostino parlandone come di questione oscura. Evoca qualcosa di infero che è in noi, nell’uomo. Cercherò di evocare la potenza della menzogna evocando una storia incredibile. Storia incredibile che ha per protagonista un uomo totalmente incredibile. Assolutamente non-credibile. Ma che per anni e anni è parso alle persone vicine (moglie, figli, amici, parenti, conoscenti) la persona più affidabile e credibile di questo mondo. Parlerò della potenza della menzogna rifacendomi alla storia vera di un impostore. E la prima domanda che sorge è: come può essere vera la storia di un uomo che ha fatto della sua intera vita un’impostura? Non solo. Ma questa storia vera la accosterò attraverso un romanzo. E tutti sappiamo come i rapporti tra romanzo, verità e menzogna siano quantomeno problematici[xxxvii]. Ma noi crediamo che la menzogna romanzesca, o meglio, la finzione romanzesca, sia in grado di dire verità profonde sull’argomento che più ci interessa: l’umano, la condizione umana. Condizione umana che affrontiamo a partire da un caso particolare, la vicenda di un uomo, Jean-Claude Romand. Non ci inibisce né ci frena il fatto che si tratti di uno solo, di un caso unico, perché noi sappiamo che, come scrive Montaigne, “ogni uomo porta la forma intera dell’umana condizione”[xxxviii]. E affronterò dunque il tema che mi sono proposto in maniera narrativa più che argomentativa, perché la sensazione è che anche le più sofisticate argomentazioni razionali e logiche cedano il passo di fronte a un enigma, a un incomprensibile, a un assurdo che può perfino spaventarci. Un assurdo che, in questo caso, sconfina nel criminale, e in un criminale tra i più atroci che possano esistere. Un assurdo che ci atterrisce e ci affascina morbosamente. E questo perché oscuramente percepiamo che dice qualcosa di umano, qualcosa che è anche potenzialmente nostro. Ha scritto il poeta Wystan Hugh Auden: “Il Male non è spettacolare ed è sempre umano, e divide il nostro letto, mangia alla nostra mensa”[xxxix]. Evocando la vicenda di Jean-Claude Romand non parliamo di quel che si dice “un mostro”, ma di una persona normale, quotidiana, rispettabile, che, cominciando a mentire, ha visto la sua vita trasformata dalla menzogna. La menzogna è divenuta una potenza che ha dominato e guidato la sua intera vita. Fino all’epilogo tragico.
La vicenda di Jean-Claude Romand
Il sabato 9 gennaio 1993 il trentottenne Jean-Claude Romand ha ucciso sua moglie Florence e i suoi figli, Antoine e Caroline, quindi si è recato a casa dei suoi genitori anziani e ha ucciso anche loro, insieme al cane. Poi ha cercato di strangolare l’amante. Rientrato a casa, dove giacevano i corpi della moglie e dei figli, ha dato fuoco alla casa verso le 4 del mattino, ha ingerito dei barbiturici scaduti da diversi anni. È stato salvato dal rapido intervento dei pompieri allertati dai netturbini che proprio a quell’ora del mattino passavano lungo la strada. Ciò che tuttavia è stupefacente è che dopo, e in tempi anche piuttosto rapidi, si è scoperto il motivo di tale carneficina: Jean-Claude mentiva da quasi vent’anni su se stesso e su tutto. Si diceva medico e non lo era, si diceva funzionario dell’OMS a Ginevra, impegnato spesso in convegni internazionali, ricercatore stimato, amico di personalità importanti, e non lo era. Era tutto inventato. Jean-Claude era uomo capace di relazioni amicali semplici, di amicizie vere con altre coppie del paese nella Francia Orientale in cui viveva, padre esemplare di un bimbo e una bambina entrambi sotto i dieci anni. L’omicidio plurimo era avvenuto perché ormai la struttura di bugie che aveva retto per almeno diciotto anni stava per crollare. I soldi fattisi dare in prestito da suoceri, genitori, perfino dall’amante, con promesse di investimenti e alti tassi di rendita, ma in realtà sottratti e usati per mantenere uno status di vita degno di un medico di tale levatura internazionale, ormai avrebbero svelato la loro vera fine. E tutta la sua vita si sarebbe rivelata un’impostura.
L’intera sua vita, ogni ora della sua vita era scandita e segnata dalla menzogna. Egli partiva in auto al mattino per andare al lavoro ma non è mai andato alla sede dell’OMS, bensì passava ore in auto a leggere giornali, o faceva passeggiate nei boschi, o andava in bar in paesi dove nessuno lo conosceva e passava lì le ore prima di rientrare a casa alla sera dopo il lavoro. E quando diceva di partire per convegni per esempio in Brasile o in Russia, ecco che studiava i posti, il clima del luogo dove diceva di andare, andava all’aeroporto, affittava una stanza di hotel in cui si rinchiudeva per i giorni di durata del convegno, portava ai bambini regali acquistati in qualche grande magazzino, e poi si metteva a riposare perché era stanco per il fuso orario. Al processo Jean-Claude Romand è stato condannato all’ergastolo.
“L’Avversario”, di Emmanuel Carrère
Una storia come questa non poteva non sedurre lo scrittore Emmanuel Carrère, uno dei maggiori romanzieri francesi, affascinato com’è sempre da uomini che hanno vissuto molte vite o che se ne sono inventate diverse[xl]. Carrère riesce a entrare in contatto con Jean-Claude, ad avere colloqui con lui, segue le sedute del processo, si informa presso gli amici di Jean-Claude, visita i luoghi dove Jean-Claude viveva, prova a rifare i suoi percorsi, a rivivere le giornate fatte di niente in cui obbediva all’imperativo della sua menzogna, un’obbedienza ascetica, pervasiva, che ormai strutturava e dava forma a ogni ora delle sue giornate, a ogni gesto delle sue relazioni, a ogni parola dei suoi discorsi. Carrère prova a immaginare a cosa potesse mai pensare in quelle ore in cui “andava a perdersi, da solo, tra le foreste del Giura”[xli], raccoglie i faldoni del processo, pur sapendo che ciò che sta cercando e che lo affascina, lo intriga, e lo fa anche vergognare di interessarsene tanto (in fondo si interessa dell’assassino, non delle vittime), non troverà lì la risposta.
Dopo l’evento tragico, le reazioni degli amici, soprattutto del miglior amico di Jean-Claude, Luc Ladmiral, sono di stupore e incredulità, di rifiuto di credervi per diversi giorni anche di fronte all’evidenza. Scrive Carrère parlando della loro amicizia: “Ognuno di loro [l’amico Luc e Jean-Claude] conosceva tutto della vita dell’altro, la facciata ma anche i segreti, segreti di uomini onesti, di persone perbene, e quindi ancor più vulnerabili alle tentazioni. Quando Jean-Claude gli aveva confidato che aveva una relazione, e voleva mollare tutto, Luc era riuscito a farlo ragionare: ‘Mi restituirai il favore quando sarò io a essere in vena di cazzate'”[xlii]. Eppure l’impalcatura di impostura regge poche ore alle prime indagini e ai primi riscontri della polizia. “Con il trascorrere delle ore la realtà è diventata sempre più simile a un incubo. Convocato alla polizia nel pomeriggio, nel giro di cinque minuti Luc ha scoperto che nella macchina di Jean-Claude avevano trovato un biglietto in cui si accusava dei delitti, e che tutto ciò che credevano di sapere sulla sua carriera e sul suo lavoro era pura invenzione. Erano bastate quattro telefonate e qualche semplice verifica per smascherarlo. All’OMS nessuno lo conosceva. All’ordine dei medici non era nemmeno iscritto. Il suo nome non figurava nelle liste degli ospedali parigini in cui sosteneva di aver fatto il tirocinio, né in quelle della Facoltà di Medicina di Lione, benché lo stesso Luc e molti altri giurassero di essere stati suoi compagni di università. Aveva cominciato gli studi, è vero, ma aveva smesso di dare esami alla fine del secondo anno, e da quel momento in poi era tutto falso”[xliii]. “Sono bastate poche telefonate, il giorno dopo l’incendio, per far crollare l’intero castello di carte”[xliv]. La domanda che tutti si sono posti e che chi mi ascolta ora si sta ponendo è: ma come è possibile? “Durante tutta l’istruttoria il giudice non riusciva a capacitarsi che quelle telefonate non fossero state fatte prima, non con malizia o sospetto, ma solo perché è assurdo che uno, per quanto sia un tipo ‘a compartimenti stagni’, lavori dieci anni senza che sua moglie o i suoi amici lo chiamino mai in ufficio, roba da non credere. Impossibile pensare a questa storia senza immaginare che sotto ci sia un mistero, una spiegazione nascosta. Il mistero, però, è che non esistono spiegazioni, e che, per quanto inverosimile possa sembrare, questo è ciò che è accaduto”[xlv]. Un uomo a compartimenti stagni: la fatica ascetica della menzogna di Jean-Claude è stata quella di tenere insieme questi scomparti, ogni santo e benedetto giorno.
Non entro nei dettagli dell’organizzazione e della pianificazione quotidiana della menzogna: del sistema messo a punto per le telefonate della moglie, le modalità di conquistare la fiducia di tutti e di farsi dare somme da investire con un alto tasso e che invece lui sottraeva, ma anche questo fa parte della fatica estrema che la menzogna ha comportato per Jean-Claude. È stata una vera ascesi mantenersi fedele a quella menzogna che è divenuta la strutturazione dell’intera sua vita. Scrive Carrère: “Fingere di fare Medicina gli richiedeva uno zelo e un’energia pari a quelli di cui avrebbe avuto bisogno per farla davvero”[xlvi]. Seguiva le lezioni, studiava anche con amici, ma poi non dava gli esami. Perché? All’esame di ammissione al terzo anno di Medicina J.C. non si era presentato e quando i genitori gli telefonano per sapere com’è andata, egli risponde che l’esame è andato bene. Nelle tre settimane che separavano il giorno dell’esame e l’affissione dei risultati egli avrebbe potuto ancora confessare la menzogna, ma: “Si vergognava troppo a confessare una bugia tanto puerile ai suoi genitori, poteva sempre raccontare di essere stato bocciato. […] Non sostenere un esame e affermare di averlo passato non è un bluff audace, il rilancio azzardato di un giocatore, che può funzionare o no: il risultato in questo caso è uno solo, essere smascherati e cacciati dall’Università coprendosi d’infamia e di ridicolo, le due cose al mondo che più lo spaventavano. Ma come poteva immaginare che esisteva un’ipotesi peggiore, quella di non essere smascherato, e che quella bugia puerile lo avrebbe portato diciott’anni dopo a massacrare i suoi genitori, Florence e i figli che ancora non aveva?”[xlvii].
Qui si situa la straordinaria e mortale potenza della menzogna, che ha colpito Carrère e che l’ha portato a intitolare il libro L’Adversaire, con la A maiuscola[xlviii]. Descrivendo l’assassinio degli anziani genitori scrive Carrère: “Per i credenti l’ora della morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola della propria vita, finalmente intelligibile. Per i vecchi Romand, questa visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario”[xlix]. In una lettera scritta da Carrère (il 30 agosto 1993) a Jean-Claude in carcere in cui gli presenta il progetto di scrivere un libro su di lui, gli specifica anche il suo interesse: “Ai miei occhi ciò che lei ha fatto non è il gesto di un comune criminale, né di un pazzo, ma di un uomo spinto agli estremi da forze che non controlla, e vorrei mostrare all’opera proprio queste terribili forze”[l]. Egli dirà di aver visto in lui “non un uomo che ha fatto qualcosa di agghiacciante, ma un uomo al quale è accaduto qualcosa di agghiacciante, vittima sventurata di forze demoniache”[li]. Nella Bibbia, in particolare nel IV Vangelo, il Satana, l’Avversario, il Diavolo, riceve nome di Menzognero: “Il diavolo… quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Giovanni 8,44). La metafora diabolica appare a Carrère come la più adatta per esprimere la potenza della menzogna, che si manifesta come forza irresistibile a cui Jean-Claude non è riuscito a opporre resistenza.
Storia di una menzogna
Se il bambino è il padre dell’adulto, che ne fu del bambino Jean-Claude? “I Romand sono grandi lavoratori, timorati di Dio, e la loro parola vale quanto un impegno scritto”[lii]. “Racconta [Jean-Claude] che sua madre si angustiava per qualsiasi cosa, e lui ha imparato presto a nascondere la verità per evitarle ulteriori preoccupazioni. Ammirava suo padre perché non lasciava mai trasparire le proprie emozioni, e si è sforzato di imitarlo. Bisognava che andasse sempre tutto bene se non voleva che sua madre peggiorasse, e lui sarebbe stato davvero un ingrato a farla peggiorare per delle sciocchezze, piccoli dispiaceri da bambini. Era meglio nasconderli”[liii]. “Era consueta la pratica della bugia a fin di bene in quella famiglia dove vigeva il divieto assoluto di mentire”[liv]. “Da piccolo non potevo parlare [delle mie sofferenze di bambino] perché i miei genitori non avrebbero capito, li avrei delusi. […] A quei tempi non mentivo, ma non confidavo mai le mie vere emozioni, se non al mio cane. […] Ero sempre sorridente e credo che i miei genitori non abbiano mai sospettato che ero triste. […] Non avevo nient’altro da nascondere allora, ma nascondevo questo: la mia angoscia, la mia tristezza. […] Magari sarebbero stati pronti ad ascoltarmi, come Florence del resto, eppure non sono mai riuscito a parlare … E quando rimani incastrato in questo ingranaggio, per non deludere, la prima bugia chiama la seconda, e poi vai avanti tutta la vita…”[lv].
La potenza della menzogna si manifesta non solo nei confronti degli ingannati, ma anche e soprattutto del mentitore stesso. La menzogna diviene la sua prigione. Emergono i momenti in cui egli avrebbe voluto finalmente dire all’amico o a un’altra persona la verità, ma non ce l’ha mai fatta. La vergogna glielo impediva. C’è un rapporto stretto fra vergogna e menzogna: entrambe sono caratterizzate dal nascondimento del volto[lvi]. Chi si vergogna vuole sparire, nasconde il proprio volto, chi mente indossa una maschera e nasconde il proprio volto dietro di essa. Nascondendo il volto il mentitore si sottrae allo sguardo dell’altro e diviene senza volto. Diviene aprosopos, “senza volto”, “senza identità”, termine che nell’antichità designava gli schiavi. “Nessuna donna poteva amarlo per quello che lui era veramente. Si chiedeva se esistesse al mondo verità più inconfessabile, se mai un uomo si fosse vergognato tanto di se stesso. Forse certi maniaci sessuali, quelli che in carcere sono disprezzati e maltrattati dagli altri detenuti”[lvii].
Vi sono qui il narcisismo e la cecità di chi è chiuso ormai su di sé, e non riesce più a distinguere il vero dal falso, non riesce più a riconoscere la realtà. Lui stesso rievocando altre menzogne inventate durante la sua vita passata (una falsa aggressione subita mentre era andato in discoteca con amici), non riesce più a sapere con certezza ciò che gli è avvenuto. La menzogna che lui stesso pratica lo espropria della sua verità, della sua vita, del suo passato, dei suoi ricordi, della sua storia, se mai ne ha una. “‘Dopo aver raccontato ai miei amici l’aggressione non sapevo più se quell’episodio era vero o falso. Ovviamente non ricordo di aver subito una reale aggressione, so che non si è mai verificata, però non ricordo neppure di averla simulata, di essermi strappato la camicia o graffiato con le mie mani. Se ci penso, mi dico che devo averlo fatto per forza, eppure non me lo ricordo. Così alla fine mi sono convinto di essere stato davvero aggredito'”[lviii]. La potenza della menzogna diviene la potenza di una forza che espropria il mentitore della sua stessa vita. Jean-Claude soggiace al potere che lui stesso ha dato alla menzogna e ne viene oppresso, imprigionato. Paradossalmente, quando si trova realmente in carcere è più libero. “Non sono mai stato così libero, la mia vita non è mai stata così bella. Sono un assassino. La mia immagine agli occhi della società è la peggiore che possa esistere, ma è più facile da sopportare che i miei vent’anni di menzogne”[lix] confessa Jean-Claude. O almeno, questo è ciò che dice. Ma è credibile?
Di fronte alle accuse argomentate di una parente che al processo ricorda a Jean-Claude la promessa di un farmaco in via di sperimentazione, non ancora in commercio ma di cui lui avrebbe potuto fornire qualche dose, ovviamente a un prezzo esorbitante, e che si rivelò inutile, visto che dopo l’assunzione di diverse dosi, il marito malato di cancro morì, “di fronte all’evidenza, si è difeso come l’uomo che aveva preso a prestito un paiolo nella storia cara a Freud: al proprietario che lo rimprovera di averlo restituito bucato, lui prima ribatte che quando l’ha riportato, il paiolo non era ancora bucato, poi che lo era già quando glielo aveva prestato e infine di non aver mai preso a prestito un paiolo in vita sua”[lx]. Su tutto ciò che Jean-Claude dirà dal processo in poi scende un inesorabile velo di diffidenza e incredulità da parte di chiunque. Quando si scopriranno sempre più menzogne, quando si arriverà a sospettare che abbia anche commesso un altro omicidio, perché suo suocero morì cadendo da una scala mentre era solo in casa con lui, Jean-Claude, e il suocero vantava crediti nei suoi confronti, da allora in poi ogni sua parola, ogni sua rivelazione è necessariamente sospetta, non getta luce ma opacizza. Come credervi? La potenza della menzogna è tale che disgrega l’identità del menzognero, o almeno distrugge l’immagine che gli altri avevano di lui e ora se ne distanziano atterriti: chi è costui? Lui che si è nascosto agli altri facendo credere loro di tutto e di più, ora vive un contrappasso per cui tutto ciò che dice, magari anche il vero, non è creduto, non può essere creduto. Una relazione degli psichiatri che lo hanno seguito dice: “Romand si rende conto che qualsiasi sforzo di comprensione dell’accaduto da parte sua verrà visto come un accomodante tentativo di recupero. I dadi sono truccati. ‘Non gli sarà mai possibile’, conclude il rapporto ‘essere considerato una persona sincera, e teme che nemmeno lui riuscirà mai a ritenersi tale. Prima tutti credevano a tutto ciò che diceva, adesso nessuno crede più a niente, e lui stesso non sa cosa credere, perché non ha accesso alla propria verità, ma la ricostruisce con l’aiuto delle interpretazioni che gli offrono gli psichiatri, il giudice e i media. Poiché attualmente non si può affermare che si trovi in uno stato di grave sofferenza psichica, risulta difficile imporgli un trattamento psicoterapeutico che lui non richiede, limitandosi ad avere dei colloqui con una volontaria. Si può solo auspicare che giunga, anche a costo di una depressione endogena il cui rischio resta alto, a difese meno sistematiche, a una maggiore ambivalenza e autenticità'”[lxi]. “Gli psichiatri incaricati di esaminarlo sono rimasti colpiti dalla precisione con cui si esprimeva e dalla sua costante preoccupazione di dare di sé un’immagine positiva”[lxii]. Gli psichiatri “durante i colloqui successivi, l’hanno visto singhiozzare e mostrare segni palesi di sofferenza, ma non sono stati in grado di dire se fosse sincero o simulasse. Avevano la sconcertante impressione di trovarsi davanti a un robot, totalmente incapace di provare sentimenti, ma programmato per analizzare gli stimoli esterni e adeguare a quelli le proprie reazioni. Abituato com’era a funzionare secondo il programma ‘dottor Romand’, gli ci è voluto un periodo di adattamento per elaborare un nuovo programma, ‘Romand l’assassino’, e imparare a usarlo”[lxiii].
La potenza della menzogna che lui ha spinto fino a quel punto estremo, fino al crimine, è anche la potenza della distruzione della fiducia, cioè di quel legame che consente di vivere, che è la matrice della vita. I Ladmiral, la coppia degli amici di Jean-Claude, “avrebbero dovuto fare i conti con la realtà: non soltanto con la perdita di chi non c’era più, ma con la morte della fiducia, con una vita interamente corrosa dalla menzogna”[lxiv]. Il terrore dell’infamia e del ridicolo lo paralizzano. Nemmeno la storia di amore con una donna da cui arriva ad avere due figli lo conduce a un cambiamento. Ed egli rivendica durante il processo: “‘Il lato sociale era falso, ma il lato affettivo era autentico’. Dice Romand. Dice di essere stato un finto medico, ma un vero marito e un vero padre, di aver amato con tutto il cuore moglie e figli, i quali lo ricambiavano”[lxv]. È mai credibile? Il rapporto del primo caso clinico di impostura studiato da uno psicoanalista, Karl Abraham, agli inizi del secolo scorso, narra la vicenda di un uomo impostore, truffatore, che si inventava identità, mestieri e vite, che ebbe continui guai con la giustizia, ma che, grazie alla storia d’amore con una donna, riuscì, almeno per diversi anni, a essere una persona responsabile, con un lavoro stabile, una residenza fissa, una vita, come si dice, normale. Il tutto connesso al rapporto con la moglie[lxvi].
Jean-Claude ha sempre vissuto con la moglie fingendosi ciò che non era. O forse la sua verità, ormai, era la sua menzogna? Scrive Carrère: “Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand”[lxvii]. Se l’uomo è l’essere parlato dal linguaggio, la parola menzognera che ha avvolto totalmente la vita di Jean-Claude che cosa ha reso la sua vita? Jean-Claude ha forse salvato la sua vita mentendo? La menzogna come forma di difesa di sé, di sopravvivenza, è comprensibile. Ma qui forse altro non c’era che lo strascico e l’ingigantimento di una banale bugia originaria, un vero e proprio peccato originale: una bugia banale e frequente come quella di ragazzi che dicono di aver dato un esame all’Università ed essere stati promossi quando non è vero. Custodire quella doppiezza diviene allora il compito di chi deve salvaguardare a ogni costo l’immagine buona di sé, pena la propria squalifica umana, ed effettivamente Jean-Claude aveva costruito un’immagine di sé molto migliore di quella che egli avrebbe avuto se avesse detto la verità. Non sarebbe più stato il ricercatore importante amico di ministri e scienziati. Nel chiuso di una mente paurosa e narcisista, ecco che la morte è preferibile alla scoperta e alla vergogna che ne deriva. Ecco che Jean-Claude a un certo punto si inventa malato di cancro per suscitare la compassione di coloro che gli stanno vicino, e per continuare a giostrare con i loro soldi.
In Jean-Claude non c’è la menzogna come dimostrazione di disprezzo verso l’altro e come considerazione dell’altro come uno stupido[lxviii]. Questa riflessione di Adorno (“La menzogna mostra di considerare l’altro a cui si mente come uno stupido e serve all’espressione del disprezzo”) esula dal meccanismo vissuto da Jean-Claude. Egli vive della sua menzogna, non può non mentire. E deve anzitutto mentire a se stesso. Uno dei giorni precedenti la strage compra pallottole e un silenziatore per carabine calibro 22 a canna lunga. Gli chiede la presidente del tribunale durante il processo: “‘Quindi lei non pensava soltanto al suicidio. Viveva con sua moglie e i suoi figli pensando che li avrebbe uccisi’. ‘L’idea mi ha sfiorato. […] Ma veniva subito nascosta da altri falsi progetti, altre idee fittizie. Era come se non esistesse. […] Facevo finta di ignorarla. […] Mi dicevo che non era quello che volevo fare, che lo scopo era un altro, però intanto… intanto compravo le pallottole che avrebbero trafitto il cuore dei miei figli”[lxix]. “‘Perché ha preso la carabina di suo padre impacchettata con cura, prima di partire per Clairvaux [dove abitavano i genitori di Jean-Claude]? ‘ ‘Per ucciderli, ovviamente, ma continuavo a dire a me stesso che volevo semplicemente restituirla a mio padre'”[lxx]. La potenza della menzogna consiste anche in questa disumanizzazione di Jean-Claude. La menzogna l’ha distaccato da sentimenti di pietà verso i figli, verso gli anziani genitori, verso la moglie. E gli ha fatto inscenare un tentativo di suicidio in modo tale che potesse essere facilmente scoperto e lui potesse venire rapidamente messo in salvo.
La banalità della menzogna
E ora, in carcere, adattatosi al nuovo ruolo di assassino riprovevole, ma toccato dalla grazia di Dio, divenuto un fervente orante, ecco che ha indossato il nuovo ruolo di abietto peccatore in via di redenzione mistica. Scrive Carrère: “Il romanzo narcisistico continua in carcere”[lxxi]. E prosegue: “Mentre tornavo a Parigi per rimettermi al lavoro, non vedevo più ombra di mistero nella sua lunga impostura, ma solo una misera commistione di cecità, disperazione e vigliaccheria”[lxxii]. E dopo aver parlato della conversione mistica di Jean-Claude e del suo impegno come intercessore che prega tutte le notti fra le due e le quattro del mattino, Carrère termina dicendo: “Sono sicuro che non stia recitando per ingannare gli altri, mi chiedo però se il bugiardo che c’è in lui non lo stia ingannando. Quando Cristo entra nel suo cuore, quando la certezza di essere amato nonostante tutto gli fa scorrere sulle guance lacrime di gioia, non sarà caduto ancora una volta nella rete dell’Avversario? Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera”[lxxiii].
Ho iniziato questa riflessione parlando della potenza della menzogna. Posso terminarla parlando della banalità della menzogna. Una banalità di potenza mortifera, una potenza di una banalità sconcertante. La “banalità del male” di cui ha parlato Hanna Arendt[lxxiv].
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Note
[i] I. Leslie, Bugiardi nati. Perché non possiamo vivere senza mentire, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 11.
[ii] C. Castelfranchi – I. Poggi, Bugie, finzioni, sotterfugi. Per una scienza dell’inganno, Carocci, Roma 1998, p. 253.
[iii] Agostino, De mendacio 1,1; cf. Agostino, Sulla bugia, Testo latino a fronte, a cura di Maria Bettetini, Rusconi, Milano 1994, p. 29.
[iv] Segnalo qualche titolo fra i tantissimi: Cf. D. Goleman, Bugie, bugie, Milano 1987; R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Laterza, Roma-Bari 1987; Frassinelli, F. Cardini (a cura di), La menzogna, Ponte alle Grazie, Firenze 1989; M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino1992; F. Di Trocchio, Le bugie della scienza. Perché e come gli scienziati imbrogliano, Mondadori, Milano 1993; T. Accetto, Della dissimulazione onesta, Einaudi, Torino 1997; V. Sommer, Elogio della menzogna. Per una storia naturale dell’inganno, Bollati Boringhieri, Torino1999; M. Bettetini, Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio, Raffaello Cortina, Milano 2001; A. Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2001; J. Campbell, La grande bugia. La necessità e l’utilità della menzogna in natura, nella storia, nella politica, in amore e nelle arti, Garzanti, Milano 2002; S. Tisseron, Vérité et mensonges de nos émotions, Albin Michel, Paris 2005; F. Nietzsche, Su verità e menzogna, Bompiani, Milano 2006; G. Lecuppre, L’impostura politica nel Medioevo, Dedalo, Bari 2007; M. G. Profeti (a cura di), La menzogna, Alinea Editrice, Firenze 2008; F. D’Agostini, Menzogna, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
[v] Cf. M. A. Pranteda, «Menzogna», in P. P. Portinaro (a cura di), I concetti del male, Einaudi, Torino 2002, pp.184-210.
[vi] G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano 1994, p. 266. Più estesamente dice il passo di Steiner: “Sono convinto che non faremo molti progressi nel comprendere l’evoluzione del linguaggio e i rapporti tra parola e atto umano, finché considereremo la ‘falsità’ come fondamentalmente negativa, finché giudicheremo la controfattualità, la contraddizione e le numerose sfumature della condizionalità come modi specialistici, spesso spuri sul piano logico. Il linguaggio è lo strumento principale del rifiuto dell’uomo di accettare il mondo com’è. Senza tale rifiuto, senza l’ininterrotta generazione da parte della mente di ‘anti-mondi’… noi saremmo imprigionati per sempre nel presente. La realtà sarebbe… ‘tutte le cose come stanno’ e niente di più. Nostra è la capacità, l’esigenza, di contraddire o di dis-dire il mondo, di immaginarlo e di parlarlo altrimenti”.
[vii] J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Bompiani, Milano 1998, p. 241 (corsivo nostro).
[viii] Si pensi alla pagina iniziale della Bibbia, il capitolo primo della Genesi.
[ix] L. Violante, Politica e menzogna, Einaudi, Torino 2013. Cf. H. Arendt, Politica e menzogna, SugarCo Edizioni, Milano 1985; Eadem, Verità e politica. Seguito da La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1995. Una ricostruzione degli eventi che hanno condotto all’esplosione del conflitto tra Iraq e Usa, visto dall’angolatura delle reciproche menzogne, si trova in Leslie, Bugiardi nati, pp. 174-182.
[x] Cf. anche V. Giacché, «La fabbrica del falso sulla guerra in Libia», in OltreConfine, 14 maggio 2011: http://www.comunisti-italiani-trentinoaltoadige.it/PdciTAAHOME_file/news_file/news628.htm.
[xi] Cf. L. Manicardi, Verso un’etica della parola, Qiqajon, Bose 2015.
[xii] M. Scarnecchia (a cura di), Il paziente che mente. Psicoanalisi e malafede, Franco Angeli, Milano 2004.
[xiii] Cf. S. Mastroberardino, Psicologia della menzogna, Carocci, Roma 2012, pp. 46-60.
[xiv] L. Zoja, Giustizia e bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 9.
[xv] L. Zoja, Al di là delle intenzioni. Etica e analisi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 7.
[xvi] Ivi, p. 115.
[xvii] Ivi, pp. 128-130.
[xviii] Ivi, pp. 130-131.
[xix] Cf. L. Manicardi, «Per un’etica dell’integrità in un’azienda», in Recenti Progressi in Medicina 4 (2015), pp. 155-160.
[xx] Leslie, Bugiardi nati, p. 13.
[xxi] Si tratta del racconto Meno di uno contenuto in J. Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987, pp. 13-43.
[xxii] Ivi, p. 17.
[xxiii] Ivi, p. 18.
[xxiv] Ivi, pp. 22-23.
[xxv] Leslie, Bugiardi nati, p. 37.
[xxvi] Citato in P. Ekman, Le bugie dei ragazzi, Giunti, Firenze 1993, p. 98.
[xxvii] F. de La Rochefoucauld, Massime, Newton, Roma 1993, p. 48 (è la massima 316).
[xxviii] Leslie, Bugiardi nati, p. 39.
[xxix] Ekman, Le bugie dei ragazzi, p. 83.
[xxx] Ivi, p. 69.
[xxxi] H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 60.
[xxxii] S. Bok, Mentire. Una scelta morale nella vita pubblica e privata, Armando, Roma 2003, pp. 34-35.
[xxxiii] I. Kant, La metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1970, pp. 287-288.
[xxxiv] I. Kant – B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 209.210.212.
[xxxv] Leslie, Bugiardi nati, p. 244.
[xxxvi] Già Aristotele annota che si può mentire “sia nelle parole sia nelle azioni sia in ciò che uno pretende di essere” (Etica nicomachea IV,7,1127a).
[xxxvii] Cf. G. Gramigna, La menzogna del romanzo, Garzanti, Milano 1980; G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 1985; M. Vargas Llosa, La verità delle menzogne. Saggi sulla letteratura, Rizzoli, Milano 1992; U. Eco, Tra menzogna e ironia, Bompiani, Milano 1998.
[xxxviii] M. de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini e André Tournon, Bompiani, Milano 2012, p. 1487 (Saggi III,II, Del pentirsi).
[xxxix] W. H. Auden, Un altro tempo, Adelphi, Milano 1997, p. 49. Si tratta della poesia Herman Melville.
[xl] E. Carrère, Limonov, Adelphi, Milano 2012; Idem, «L’uomo dei dadi», in Internazionale 1113-1114-1115, 31 luglio 2015, pp. 63-76.
[xli] E. Carrère, L’Avversario, Adelphi, Milano 2013, p. 29. Citerò sempre da questa edizione.
[xlii] Ivi, p. 12.
[xliii] Ivi, p. 15.
[xliv] Ivi, p. 73.
[xlv] Ivi, p. 74.
[xlvi] Ivi, p. 67.
[xlvii] Ivi, pp. 60-61 (corsivi miei).
[xlviii] E. Carrère, L’Adversaire, P.O.L., Paris 2000.
[xlix] Carrère, L’Avversario, p. 24.
[l] Ivi, p. 30.
[li] Ivi, p. 33.
[lii] Ivi, p. 40.
[liii] Ivi, p. 42.
[liv] Ivi, p. 45.
[lv] Ivi, p. 45.
[lvi] M. Lewis, Il sé a nudo. Alle origini della vergogna, Giunti, 1995; C. L. Cazzullo, C. Peccarisi, Le ferite dell’anima. I meandri della vergogna, Frassinelli, Milano 2003; B. Kilborne, Persone che scompaiono. Vergogna e apparire, Borla, Roma 2005.
[lvii] Carrère, L’Avversario, p. 93.
[lviii] Ivi, p. 55.
[lix] Ivi, p. 142.
[lx] Ivi, p. 86.
[lxi] Ivi, p. 142.
[lxii] Ivi, p. 139.
[lxiii] Ivi, pp. 139-140.
[lxiv] Ivi, p. 16.
[lxv] Ivi, p. 71.
[lxvi] K. Abraham, «La storia di un impostore alla luce della conoscenza psicoanalitica», in K. Abraham, H. Deutsch, Ph. Greenacre, H. Kohut, E. Jacobson, Bugiardi e traditori, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 43-62. Il caso era stato trattato da Abraham nel 1916 nell’Ospedale militare di Allensten (Prussia orientale) e la relazione presentata con il titolo Die Geschichte eines Hochstaplers im Lichte Psychoanalytischer Erkenntnis alla Società Psicoanalitica di Berlino il 13 novembre 1925 e in seguito pubblicata su Imago, vol. 11, n. 4, pp. 355-370.
[lxvii] Carrère, L’Avversario, p. 78.
[lxviii] T. W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994, pp. 22-23.
[lxix] Carrère, L’Avversario, p. 120.
[lxx] Ivi, p. 127.
[lxxi] Ivi, p. 142.
[lxxii] Ivi, p. 168.
[lxxiii] Ivi, p. 169.
[lxxiv] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2013.
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