Recensione del film Barbie
di Greta Gerwig
Sul concetto di maschile e femminile, sul ruolo di uomini e donne nella società, sugli stereotipi di genere mutevoli nel tempo si parla tanto, da tanto. Anche questo film vuol dire la sua. Lo fa in modo sicuramente originale e graffiante, attraverso un gioco di specchi tra finzione e realtà. E con uno sguardo satirico, a tratti demenziale. La regia è al femminile e si sente: la Gerwig strapazza impietosamente il sesso maschile, ridicolizzandolo. Ma lo fa in modo così smaccato e plateale da realizzare un divertissement benevolo, con qualche elemento di verità. Veniamo alla storia.
Barbieland è un luogo immaginario dove vivono le Barbie in carne ed ossa. Che, pur essendo diverse tra loro – ce n’è una per ogni professione – sono tutte omologate dallo stereotipo di femmes fatales. Hanno forme prorompenti, tacco dodici d’ordinanza – tanto che anche da scalze poggiano sugli avampiedi – e occupano posti chiave in qualsiasi settore sociale.
Gli uomini, invece, sono dei soprammobili sufficientemente decorativi. Piuttosto bellocci, con gli addominali scolpiti, vanesi e idioti quanto basta. Ken ne è il capofila. Con i capelli biondo platino, un sorriso stereotipato stampato sul volto e l’inseparabile surf sotto il braccio si occupa di piacere a Barbie, incassando fiaschi colossali. Questa scenografia architettata malignamente dalla regista sembra la nemesi del femminismo. A riprova di ciò, il film si apre burlescamente con una Margot Robbie, l’attrice che interpreta Barbie, gigantesca e simile al monolite di Odissea nello spazio. Alla cui comparsa, alcune bambine che stavano giocando tranquillamente a “mamme e figli”, si sbarazzano dei loro bambolotti, scagliandoli violentemente in aria come delle indemoniate, per fare largo alla rivoluzionaria bambola dalle forme procaci, che ha un outfit per ogni circostanza. Però qui le cose si complicano, perché il femminismo è favorevole alla liberazione sessuale, sdogana le donne in carriera, ma non mi risulta che veda di buon occhio le donne oggetto.
E che altro sarebbero Barbie e le sue colleghe? Ma… accade che Barbie cominci a sentire il peso della sua perfezione stereotipata e decida di andare a conoscere il mondo degli umani. Cioè di diventare umana: imperfetta ma autentica. Inutile dire che è tallonata da Ken. La sua decisione improvvisa getta nel panico i dirigenti della Mattel, tutti uomini e neanche particolarmente svegli, perché temono che Barbie si accorga dell’inganno: infatti l’hanno confinata in un mondo fatato che non esiste nella realtà. Se la passa meglio Ken che, scoprendo il maschilismo e tutto ciò che ne consegue in fatto di potere e visibilità, è ben deciso ad esportarlo a Barbieland.
Di qui in avanti il film diventa abbastanza retorico, perdendo in freschezza e ritmo. Barbie e le sue compagne comprendono che per poter riconquistare un posto nel mondo devono rimanere unite, accogliendo anche chi è bislacca o diversa. Contemporaneamente Ken, passata l’euforia del momento, non è poi così felice di aver spodestato Barbie per ripicca, vista la scarsa considerazione in cui lo tiene. E di cui peraltro è corresponsabile. Comprende che non si può piacere a tutti, che si ha il dovere di essere se stessi per autodeterminarsi. Anche Barbie fa progressi notevoli: diviene più consapevole di sé e accetta che si possa essere interessanti anche indossando delle Birkenstock. Purché rosa, naturalmente!
Fulvia Ceccarelli