Spesso, del nostro mestiere, vengono raccontati i successi, le esperienze positive, ciò che ci pare abbia promosso e facilitato la cura che volgiamo ai nostri pazienti. Troppo poco spesso vengono raccontati, del nostro mestiere, l’altra faccia della medaglia e tutto ciò che riguarda questa altra faccia così carica di domande, perplessità, dubbi, dolore. Questo scritto del collega di redazione Claudio Crialesi ci pare vada in quest’altra direzione.

 

RICORDANDO MATILDE

Claudio Crialesi

Avevi chiesto dei colloqui con lo psicologo, non volevi solo gli psicofarmaci che prendevi da anni per tenere a freno deliri e altri affanni.

Una donna di mezza età vestita in modo semplice, ma sempre curata.

Ora vivevi da sola in un appartamento e riuscivi a lavorare part-time. Che fatica quelle ”bolle di consegna” da registrare e poi i colleghi!

Nel primo incontro avevi parlato di un padre malato e di una madre assente. ”Un giorno mi sono gettata nel fiume” questa la tua frase drammatica pronunciata come un’asettica notizia.

Ci incontravamo ogni quindici giorni… non potevo di più. La presenza costante e puntuale, il tuo incedere maldestro e poi quel tic forse effetto collaterale di un farmaco. E la domanda: o lei pensa che potrebbe essere qualcosa di psicologico? Me lo faccio venire io?

Ponevi molte domande impossibili. Erano rompi-capo per eliminare problemi. Io convinto di aiutare nella comprensione di te stessa per un giorno scegliere una soluzione possibile e umana: la tua.

Avevi bisogno di star sola e le visite di tua madre o altri legami erano equazioni con troppe incognite. Volevi rinforzare la tua auto-stima e avevi acquistato un libro per questo scopo. Io non ti davo indicazioni… Eppure c’erano momenti divertenti. Riuscivamo a ridere. Non restavo in enigmatico silenzio per indagare episodi di vita che presentavi in modo laconico.

Quando un giorno non ti sei presentata sono rimasto sorpreso e dispiaciuto.

Cosa sarà successo? – la mia domanda immediata.

Trascorsa una settimana ho pensato: attendo il tempo necessario poi tenterò una telefonata per sapere se intenzionata a continuare.

Un medico del centro psicosociale mi telefona e mi rende noto che ti hanno trovata morta in casa. Suicidio.

Rimasto senza parole… stupore, rammarico, silenzio. Dovevo intuire un pericolo? Nessun indizio di idee autolesioniste. Nel dispiacere solitario ho pensato ad alcuni maestri, presenze interiori benevole; resta un nudo fatto: la responsabilità di Matilde nell’aver deciso la morte volontaria. Questo atto violento – l’omicidio di te stessa – induce sconforto, sottomissione all’imponderabile. Lacera le illusorie certezze di uomini e professionisti.

Triste l’apparizione di un’idea insidiosa: la psichiatra o altri colleghi o i familiari potrebbero rimproverarmi, anzi accusarmi di mal-pratica! E allora inseguire spiegazioni e racconti per giustificarsi.

Se è scomparso il nostro interlocutore cosa dire? La morte volontaria, scelta titanica di un’esistenza non vissuta, sfida l’oscura spinta ad esistere. Porta disordine e lascia impotenti i sopravvissuti: noi.

Eppure ho percepito affannosi anche questi pensieri. Parole, parole… e ho cercato di accettare questa vedovanza. Nel tempo sorgeranno idee per dar forma a questa esperienza. Una sera le ho dedicato la canzone di un artista americano che ha perso la moglie in modo tragico.

Dopo quindici giorni dalla notizia ho ricevuto al mattino presto la telefonata della sorella di Matilde: “non so se ha saputo… visto che lei l’ha conosciuta se possibile mi piacerebbe incontrarla”. Sarà il caso o le vie del determinismo psichico, ma il primo spazio libero era quello che riservavo a Matilde. Mi sentivo cauto, in attesa dell’imprevisto… E arriva una signora magra alle prese con importanti problemi di salute. Mi racconterà di aver sentito la sorella per telefono pochi giorni prima della sua morte, voleva iniziare un corso di gastronomia e aveva fatto la spesa per tutta la settimana. Allora perché quella decisione!? Sgorgano sensi di colpa e rammarico. Siamo uniti in questo travaglio, ma non credo sia giusto “lavarmi” la coscienza verbalizzando i miei pensieri. Il ruolo mi impone di essere “per lei” e di ascoltare e confortare in una condivisione. Sono colpito dalle sue parole: Matilde mi ha parlato bene di lei allora… Mi ha consegnato la foto scelta per la funzione funebre.

E io ho trovato parole semplici per parlare della colpa come risposta prevedibile, ma ingiusta. Estremo tentativo di rendere non accaduto quanto è accaduto. Sono riuscito a ringraziarla per avermi testimoniato fiducia e affetto. Nel nostro dialogo un commovente e ruvido rito laico. Poche illusioni e molta verità!

Farewell Matilde.

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