Sono solo parole
di Dania Cappellini e Julie Cunningham
Uno è padrone di ciò che tace
e schiavo di ciò di cui parla.
[Sigmund Freud]
Comunicazione. Una parola dal vasto significato. Dal latino “communico” (mettere in comune, far partecipe, costruire insieme) in linea generale indica la condivisione d’informazioni. In psicologia ha un significato più approfondito perché comporta la presenza di un’interazione tra soggetti diversi: si tratta in altri termini di un’attività che presuppone un certo grado di cooperazione, lo scambio di stimoli e risposte in entrambe le direzioni.
È incredibile come nell’era della comunicazione fatta di smartphone, tweet, sms, e-mail, blog, social network di ogni genere sia così difficile “comunicare”. Scrive Lelio Demichelis sulla rivista Alfabeta2: “Siamo una società che parla molto, ma che non ascolta. Ed è un parlare compulsivo e veloce, dove tutti dicono tutto, tutti vogliono dire qualcosa e non importa cosa. Ma se tutti dicono, anzi gridano, bisogna infine dire gridando più forte per superare il rumore di fondo di grida senza comunicazione. Tutti futuristicamente sedotti dal mito della velocità delle parole mentre in realtà comunichiamo monologhi, stimolati dalla potenza facile del mezzo tecnico che sembra offrire a tutti una tribuna immensa di potenziali ascoltatori”.
Per Eugenio Borgna, autore di un interessantissimo ancorché breve saggio (Parlarsi-La comunicazione perduta) comunicazione è una “parola valigia” che ci accompagna in un viaggio con la nostra interiorità e con quella degli altri. Tanto da preferire l’etimo “munus” (dono) a quello di “munire”cioè edificare, costruire appunto.
D’altro canto, come è possibile non essere d’accordo con l’autore sul fatto che saper comunicare sia un dono, e preziosissimo?
Borgna, luminare della psichiatria dal volto umano, è stato libero docente alla Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università degli Studi di Milano ed è primario emerito di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara. È autore di numerosi saggi – tra i quali ricordiamo Elogio della depressione e La fragilità che è in noi – nei quali alterna una produzione più specialistica a libri maggiormente divulgativi.
“Parlarsi – come osserva acutamente Michele Lauro in una bellissima recensione apparsa giusto un anno fa su Panorama – è un’ode alla comunicazione fondata sul linguaggio delle parole e del volto: le lacrime e i sorrisi, i gesti e gli sguardi, i silenzi e le attese. Una comunicazione diversa dalla chiacchiera quotidiana, dalla somma di istanti che ci connettono abitualmente al presente: una comunicazione-solidarietà che smorza le differenze (con l’amico, con il malato, con il profugo) e accompagna verso i valori autentici della vita”.
Secondo Borgna, noi siamo anche ciò che doniamo agli altri: la realizzazione profonda di noi stessi passa attraverso la com-passione, la sintonia con chi ci circonda. E per esprimere le emozioni che sgorgano dalle sorgenti della condizione umana, la psichiatria e la filosofia hanno bisogno delle parole della poesia.
Ci sono parole che hanno un loro destino, quelle che una volta dette non ci appartengono più ma aprono altri cuori ad altre speranze. Ci sono le parole che fanno del bene, se nascono dal cuore e sono leggere e profonde, semplici e naturali come l’acqua che sgorga da una sorgente. Ci sono le parole che cambiano la vita, se testimoniano vicinanza umana e solidarietà. Ci sono le parole che curano, quelle che noi tutti dovremmo imparare a usare per entrare in sintonia con i nostri pazienti. E infine ci sono quelle del silenzio, ancora più arcane nelle loro suggestioni.
“Le parole-antenne di Eugenio Borgna – osserva ancora Lauro – si spingono fino all’orlo ancora dell’invisibile e dell’indicibile. Se le esperienze fondamentali della vita si sostanziano per tutti di attese e speranze, dolore e malattia, malinconie e angosce, insomma del vivere e del morire, talora lasciano filtrare il riflesso arcano della solitudine e della comunicazione esistenziale. È la conoscenza mistica, prerogativa di chi ha provato a rompere le sbarre della gabbia che ci inchioda a terra, il cui riflesso a sua volta si riverbera misteriosamente nelle parole della malattia”.
Dalle bellissime pagine di questo piccolo grande libro possiamo apprendere soprattutto una lezione: quando ci incontriamo con esistenze nevrotiche o psicotiche, constatiamo in esse non tanto disturbi del pensiero quanto “emozioni ferite dalla tristezza e dall’angoscia, dall’inquietudine e dalla disperazione, dal dolore del corpo e dal dolore dell’anima”. Ma non comunicheremo mai con coloro che stanno male e con le loro “emozioni ferite” finché non le riconosceremo come appartenenti anche a noi, al nostro comune destino.
Una psicoterapeuta infantile ci racconta che ha scelto di lavorare con i bambini per non dover parlare, nel senso di non dover conversare come avrebbe dovuto fare con gli adulti. Con i bambini “parla” il gioco. Le comunicazioni sono più semplici ma non meno profonde. Le emozioni vengono espresse con soldatini, animali feroci, macchinine, bambole, costruzioni e casette che raccontano storie. Lei, come terapeuta, trasmette l’ascolto giocando “con” invece che parlando “di”. E si ricorda la volta che in una supervisione di gruppo viene incoraggiata a usare di più la parola nel suo lavoro, di mettere parola alle emozioni che giravano nelle sedute per aiutare il bambino a conoscersi meglio, a usare la parola come spazio di pensiero.
Decide di provare le idee delle colleghe con un ragazzino psicotico che lei sapeva avere molta paura di tutte le relazioni umane, ma di essere tranquillo nel giocare con le cose. Durante una seduta la terapeuta dà voce alla parola “paura” in modo tranquillo e dolce (almeno così sembrava a lei). Il suo paziente reagisce in modo spaventato e spaventoso con uno sguardo terrorizzato da piccolo animale affrontato da una leonessa feroce.
La parola “paura” aveva ingrandito l’emozione stessa portandola lì come enorme, quasi palpabile ostacolo tra di loro. Per lei è stata una grande lezione sulla fiducia nel proprio intuito, sulla grande difficoltà nell’entrare nel mondo psicotico e sul fatto che in questo caso la parola era diventata un oggetto pericoloso. Forse Borgna avrebbe suggerito di “parlarsi” prima di parlare.
La terapista continua la sua storia raccontando di un piccolo gruppo seguito molti anni dopo in cui un altro ragazzino psicotico, parlando con i suoi genitori insieme alla terapeuta, a terapia terminata, ha detto: “Questa terapia mi ha aiutato a mettere le mie emozioni insieme con quelle dei miei compagni”. Erano parole mai dette dal terapeuta, ma i ragazzi le avevano imparate e capite attraverso tante forme di comunicazione e tanti anni di esperienze insieme.
Borgna lo dice a proposito di malattie tumorali, ma vale sempre il concetto: “Scrivo queste cose con timore e tremore ben sapendo che, solo quando si sia nella situazione della malattia, si conoscano le parole giuste nel parlarne, quelle che si desidera ascoltare, e non quelle che non si desidera ascoltare”.
E nel libro ci parla anche delle diverse età della vita con un occhio particolare alla anzianità: “Ma nelle età estreme dell’esistenza le parole, che comunicano qualcosa di essenziale della nostra vita, si possono ancora ritrovare se non si perdono i contatti con una vita intessuta di ascolto e di riflessione, di solidarietà e di generosità, di passione della interiorità e della speranza”.
Parlarsi-La comunicazione perduta, di Eugenio Borgna, Einaudi ed., 2015, pagg.100, € 11
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