STRANAMORE
di Massimiliano Mariani
E’ strano: è il giorno dopo la serata di presentazione del libro “Un mestiere impossibile” e mi trovo a riflettere su alcuni dei molti spunti che sono emersi. Scrivere per me è qualcosa di intenso e incredibilmente vivo: il desiderio che provo in questo momento di seguire il filo di queste riflessioni per scoprire dove mi porterà è davvero forte. Dico strano perché è una cosa che di solito fatico a trasformare in azione, proprio a causa di quanto sono portato ad investire facendolo, mentre ora… eccomi qui.
Il libro presentato offre spunti di riflessione preziosi ed estremamente ricchi: si tratta di una raccolta di interviste a 21 terapeuti molto esperti, i quali, ciascuno con le proprie modalità, pensiero e personalità, rispondono alle medesime domande. Questa premessa dà vita ad una sorta di tavola rotonda virtuale sul mestiere di Terapeuta in cui i professionisti coinvolti, alcuni tra i nomi più noti e prestigiosi del settore, ci svelano parte di sé, raccontandoci tra le altre cose, cosa li abbia spinti ad intraprendere questo percorso tra tutti quelli possibili. Una finestra preziosa che apre alle persone che stanno dietro al ruolo del Terapeuta, al loro percorso formativo ed ai loro maestri, ma anche a su cosa significhi per loro la terapia e cosa ritengano la renda efficace. Un tema tanto vivo non poteva che dare luogo a un momento molto profondo ed intenso.
L’occasione della presentazione ha permesso la rara opportunità di assistere all’incontro di quattro grandissimi personaggi del mondo psicanalitico, fatto che quasi per definizione non può che essere estremamente stimolante. Sergio Erba, Luigi Zoja, Alberto Lampignano e Luciano Cofano però si sono prestati a qualcosa in più. Hanno accettato di mostrare, a volte con brevi flash o battute, in altri momenti con interventi più articolati, qualcosa di quella scintilla che li ha resi grandi terapeuti, ma prima ancora grandi persone. Ecco. Questo è il fil-rouge che voglio seguire nella mia riflessione, quello che a mio parere ha dato vita ai momenti più ricchi ed emozionanti della serata, forse perché sono quelli che più si avvicinavano all’intimità della persona, a quel qualcosa che ci unisce nella professione, nell’incontro con i pazienti ma credo anche in ogni altro momento della vita.
A inizio serata si è accennato a quanto, per molti terapeuti, il lavoro diventi tanto ricco, tanto coinvolgente, tanto prezioso, da non poter essere abbandonato. Questo dice molto, forse tutto, della dedizione richiesta e di contro di quanta ricchezza di vita sappia dare questa “professione impossibile”. Le testimonianze ricevute, anche grazie ad alcuni stimoli da parte di un medico presente in sala, mi hanno mostrato o meglio ancora mi hanno fatto sentire quanta attenzione, quanto rispetto, quanto desiderio di incontro vero con l’altro sia presente in queste persone. Non mi addentrerò nella specificità dei singoli interventi, per quanto ricchi. Preferisco soffermarmi sulla testimonianza che posso dare della coralità delle posizioni, che per quanto affrontassero le questioni da punti di vista a volte differenti, risuonavano di sentimenti comuni. Un po’ come è stato più volte detto delle interviste presenti nel libro: voci diverse con approcci e metodi diversi, ma risultati e relazioni simili. In un passaggio molto intenso, il dottor Erba ha provato con molto rispetto, quasi timidamente ma nello stesso tempo con grande forza a proporre il termine “Amore” come attribuzione di senso comune a quanto accade con i pazienti e, mi pare, come elemento fondante della funzione terapeutica. Quanto successo in seguito mi ha molto colpito e, forse, è proprio questo che mi spinge a riflettere ora.
Ho avuto l’impressione che di fronte a un concetto tanto grande e tanto forte si sia creato un momento che definirei quasi di sospensione: come se il respiro della sala si fosse fermato. A me il passaggio era sembrato naturale, quasi inevitabile nella sua forza, però non per tutti era così. Mi ha colpito come si siano proposte definizioni più morbide, come “ascolto” o “relazione”, quasi a dire che il concetto di Amore fosse una sorta di tabù. Troppo grande per essere citato. Di contro non posso non sentire il passaggio a concetti differenti come una perdita… una perdita di ricchezza e di capacità descrittiva di qualcosa che sappiamo tutti accadere nella stanza e che per la sua forza mi pare trascenda il concetto di semplice ascolto. Una perdita di ricchezza di vita, forse.
Ho la sensazione che come per il concetto di “autorità” di cui tante volte abbiamo parlato in questi anni, parlando di “Amore” ci troviamo di fronte ad un termine vilipeso ed abusato dalla società attuale, che viene spesso connotato da pregiudizi impliciti che lo svuotano di quel senso assoluto e profondo che a mio parere lo costituisce. Parlo di quel senso di incontro con il vero racchiuso nell’altro che descrive così bene Roberto Mancini. Intriso di rispetto e curiosità, di empatia e di etica. Ed ecco che usare il termine “Amore” in qualche modo sembra irrigidire, quasi spaventare. Questo fatto mi colpisce profondamente: ogni aneddoto portato ieri mi è parso una grandissima testimonianza di amore. Amore per i pazienti, amore per la professione, amore per il proprio essere terapeuti e quindi sano amore per se stessi. Amore per la vita. Però, di nuovo, questo termine mi pare sia stato vissuto e accolto come troppo forte. Forse la mia limitata esperienza mi rende un po’ incosciente nell’espormi ma non posso non sentirmi profondamente d’accordo con il dottor Erba nel riconoscere l’Amore come elemento fondante della terapia. Mi spingerò oltre: come elemento fondante di ogni relazione ed interazione umana, che sia vitale e tendente alla crescita, al bene comune, all’etica.
Si è parlato anche di una forma di amore particolare, proprio della stanza di terapia. Non so se si tratti di una forma particolare di amore o solo di una delle sue infinite declinazioni… mi sento più portato a vedere il concetto di “Amore”come un assoluto, che per tanto non è raggiungibile nella sua totalità in questo mondo. Si può però continuare sempre, ogni giorno di più a tendere ad esso, passo dopo passo. Trovo si possano provare, vivere, esperire infinite forme di amore quante sono le persone che amano e gli oggetti dell’amore stesso. Questo, certo, fa si che capiti di vivere amori malati, dolorosi, patologici, che feriscono, talvolta che possono uccidere… quelli con cui così spesso ci confrontiamo nella stanza, forti del mantello del ruolo come nostra unica difesa. Questo li rende meno degni di tale nome? Il rispetto testimoniato dai partecipanti all’incontro di ieri sera mi porta a pensare di no: in fondo ogni genitore sa bene che la rabbia di un figlio che soffre, per quanto ferisca, spesso non è altro che una richiesta di aiuto. Lo sa ogni figlio sentendosi ferito dal comportamento di un padre o di una madre. Credo lo sappia ogni terapeuta, rispetto ai suoi pazienti ed al poterli incontrare nel loro dolore.
Mi viene in mente un brano di una canzone che mi pare testimoni alla perfezione questi sentimenti. è di Leonard Cohen e in una strofa parlando con Dio il cantautore dice: “C’è una scintilla di luce in ogni parola, non importa quale tu abbia sentito, se l’Hallelujah sacro o quello spezzato”. Cos’è in fondo una bestemmia, se non un’estrema, disperata preghiera? Un’assoluta richiesta di aiuto? L’essere disponibili ad ascoltare questa richiesta ed a mettersi in gioco per dare tutto l’aiuto possibile, che cos’è se non Amore?
In questo senso non posso non sentirmi orgoglioso di avere come Maestro chi non teme di usare questo termine in tutta la sua grandezza ed in tutta la sua forza e non posso esimermi dal testimoniare di aver sentito questo Amore trasparire nei racconti ascoltati ieri, anche da chi si è dichiarato più cauto sull’uso di questo concetto. Concluderò con le parole di Roberto Vecchioni, nel testo della meravigliosa canzone da cui ho preso in prestito il titolo di questo scritto, forse un po’ maldestro ma di sicuro per me profondamente vivo:
“forse non lo sai ma pure questo è amore”
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Stranamore
Nota dell’autore:
il brano precedente è stato scritto tempo fa, in una serata molto intensa, ascoltando quello che si muoveva dentro di me e che sembrava straordinariamente forte, tanto forte da farmi scegliere di provare a tradurlo in parole. Se ho vissuto quel momento e tanti altri analoghi nel corso della mia formazione è stato grazie all’incontro con Sergio Erba e con persone come lui. Oggi condividere questi pensieri mi pare un modo, molto personale, di salutare il Maestro e di dirgli grazie per quello che ha rappresentato per me l’incontro con lui e per avermi insegnato a cercare di diventare sempre un terapeuta e una persona migliore.