Desidero iniziare questo articolo, con cui mi propongo di scrivere qualche riflessione sull’attività di sportello psicologico svolta l’anno scorso in un liceo scientifico di Milano, andando a recuperare l’etimologia della parola scuola. L’origine del nome significa agio, riposo, tempo libero. Quindi in completa opposizione, francamente, all’idea che ne hanno tantissimi studenti nelle scuole di ogni ordine e grado, ma anche all’idea di chi nella scuola ci lavora. Davvero un paradosso! O forse no?
Il modello di educazione della Grecia antica, la paidèia, che ha lasciato il nome all’istituzione, l’aveva concepita come un luogo dove si potesse pensare con libertà, occuparsi delle cose importanti e comuni, quindi formarsi a esercitare la propria responsabilità. Un laboratorio di idee, valori, cultura.
Il liceo in questione ha voluto proporre lo sportello in questi termini, pensando a uno spazio autonomo e protetto, a cui gli studenti in primis, ma non solo, potessero rivolgersi per acquisire una maggiore consapevolezza di sé e migliorare vissuti di disagio che emergevano nelle varie classi, agìti e quindi non trattabili. Ho potuto così incontrare e conoscere tanti ragazzi e ragazze quasi tutti accomunati dal fatto di rivolgersi allo psicologo per la prima volta nella loro vita. Qualcuno mi ha chiesto un appuntamento mosso dalla semplice curiosità di avere un parere ”diverso dal solito” su un problema “particolare”, mentre altri hanno chiesto aiuto su aspetti decisamente più urgenti. Sono rimasta colpita tante volte dall’atteggiamento iniziale con cui si presentavano, quel timore che leggevo nei loro occhi al primo incontro ma al tempo stesso l’adultità riconoscibile proprio nell’atto di riuscire a chiedere aiuto. All’inizio era necessario sgombrare il campo dalla diffidenza, altrimenti sarebbe stata un terzo incomodo nel nostro setting di lavoro; adoperavo tutta l’autorevolezza di cui ero capace per tranquillizzarli sulla libertà di esprimersi, lontano dal pericolo di una qualsiasi fuga di informazioni fuori dai nostri incontri. Specificavo che anche se il loro problema fosse stato “con la scuola”, mi sarei fatta garante di una mediazione che li tutelasse. Era come se una delle caratteristiche del mio ruolo per cui venivo evidentemente contattata, cioè accogliere un disagio, dovesse essere ribadita ancora con più forza, proprio perché quel ruolo veniva esercitato dentro un posto che per i più svariati motivi aveva messo in evidenza le difficoltà che mi portavano. Non in tutti i casi sono riuscita però evidentemente a essere convincente come avrei voluto e come sapevo di potermi spingere a essere, proprio perché fiduciosa e sicura delle condizioni di lavoro che mi erano state proposte e che avevo accettato. Ricordo in particolare l’incontro con un genitore; si era rivolto a me per una forte chiusura del figlio a cui non riusciva a far fronte e che lo angosciava da diverso tempo. Lui stesso mi apparve molto diffidente rispetto alla possibilità di ricevere aiuto dal servizio di psicologia scolastica, un aiuto che pure stava chiedendo ma che al tempo stesso appariva ostacolato alla base. La sensazione che mi lasciò fu quella di una domanda impossibile proprio perché posta in un luogo che sentivo essere impossibile per lui.
I ragazzi che si sono fidati dello spazio d’ascolto lo hanno invece usato appieno proprio per la sua duplice valenza: lì dove avevano sperimentato malessere, sofferenza, inquietudine potevano anche occuparsi di loro stessi, pensare senza paura, esercitare una libertà nuova. Nel dirlo so di correre il rischio di usare espressioni che possono apparire enfatiche, ma mi preme sottolineare l’idea sana e formativa che nasce dentro l’istituzione scolastica quando decide di creare progetti in linea con il suo mandato originale, come ricordavo all’inizio della mia riflessione e a cui rimanda il nome che porta.
Quando, a quel punto, entrambe le caratteristiche del mio ruolo venivano accettate e comprese, psicologa nella scuola e non della scuola o per la scuola, il lavoro vero poteva iniziare portando con sé tutti gli altri protagonisti della vita dei ragazzi: le loro famiglie, i coetanei, i sogni, le aspettative deluse, la ricerca quotidiana e profonda di sé stessi. Mi piace pensare che ognuno di loro abbia potuto trovare un’occasione per riprendere un dialogo interrotto, trasformando proprio quel malessere sperimentato lì dentro in una possibilità di crescita e quindi in una richiesta di formazione più sana in tutti gli ambiti della vita. A confortarmi in questo pensiero ci sono chiaramente le volte in cui mi è stato rimandato da loro stessi che stavano meglio e che erano contenti del percorso fatto; mentre per tutti coloro che forse avrebbero voluto chiedere aiuto ma sono stati fermati magari proprio dalla sfiducia di farlo dentro una scuola, mi aiuta il pensiero che almeno fin tanto che rimarranno all’interno di un vero “luogo di agio e riposo” potranno trovare le risorse per formulare le loro richieste migliori. Magari grazie all’amore per un grande filosofo o alla magia rivelatrice dei numeri, alla bellezza della storia dell’arte o alla potenza di una teoria scientifica, al senso d’infinito della poesia o alla disarmante attualità della storia.
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