TERAPIA FUORI DALLA STANZA
Maria Micheloni
Da alcuni mesi collaboro con due case di riposo gestite dalla stessa cooperativa: ho l’incarico di occuparmi della supervisione degli OSS (operatori socio-sanitari), del sostegno ai familiari delle persone ricoverate e magari di qualche ospite, dai responsabili definito “particolare”. Quella della casa di riposo è una realtà a me poco conosciuta, è la prima volta che mi trovo a lavorare in questo contesto. Il mio interlocutore è la coordinatrice degli operatori, poi c’è la direttrice, il direttore sanitario e altre figure professionali (infermieri, fisioterapisti, ecc.) che si prendono cura di un considerevole numero di persone ormai non più in grado di occuparsi di sé in modo autonomo.
Mi vien detto che, indicativamente, si tratta di fare un incontro al mese con gli operatori e uno con i familiari. Un incontro al mese? Mi sembra una goccia nel mare, soprattutto per gli operatori che, lavorando su turni, rischierei di vedere ogni due o tre mesi. Ogni due o tre mesi ammettendo che vengano, visto che non hanno mai avuto esperienza di supervisione.
Si inizia. La partecipazione è varia, due persone al primo incontro, una media di cinque negli incontri successivi, quasi mai le stesse persone, sempre la stessa modalità e lo stesso tema: la convinzione più che radicata che non sia possibile parlare con la coordinatrice (referente e responsabile della preparazione dei loro turni di lavoro e unico “tramite” con la cooperativa “datrice di lavoro” che ha sede legale e amministrativa in un’altra Regione) perché non dà ascolto alle loro richieste e alle loro difficoltà e fa come meglio crede! Non c’è modo di spostare l’attenzione su altro; non credo che la quotidianità lavorativa in una casa di riposo, a stretto contatto con l’ultima fase della vita delle persone, non porti con sé quesiti e dinamiche che, poco o tanto, mettano in gioco i grandi temi dell’esistenza. Eppure ogni mio tentativo in questa direzione viene dirottato e riportato al punto di partenza. Mi accorgo che “non sto” su quello che mi portano, che cerco continuamente di dar loro indicazioni su come si fa una supervisione e questo alimenta ancor più il loro non sentirsi ascoltati! È come se mi avessero detto: “Ok, però prima abbiamo bisogno di affrontare una questione a monte”. E va bene, mi son detta, vediamo cosa succede, dove ci porta…
Li ascolto nel loro parlarsi sopra (alcuni, altri restano silenti e composti), nel lamentarsi dei turni troppo pesanti, dei riposi saltati, dei continui rientri dai pochi riposi rimasti, del non sentirsi considerati come persone, ma come semplici numeri: dei cognomi su un foglio turni stilato di mese in mese senza tener conto di “chi sono loro”… Chi sono loro? Loro sono persone, prima e al di là del fatto di essere degli operatori socio-sanitari all’interno di una casa di riposo. E allora partiamo da questo: sostengo come legittimo questo loro bisogno di riconoscimento, elemento centrale della vita di ogni individuo. Pian piano si placano gli animi più “caldi” e chi prima era silenziosamente in disparte si sente “autorizzato a dire la sua”. Ognuno si fa portatore della propria verità, sentendo finalmente possibile dar voce a tutto ciò. Era questa la “questione a monte” di cui mi parlavano all’inizio gli operatori? Credo di sì. Al termine di ogni incontro dei pochi fatti fino ad ora gli operatori mi ringraziano (non tutti, qualcuno resta schivo e diffidente) e io ringrazio loro: se qualcosa è avvenuto e continua ad avvenire di volta in volta è soprattutto grazie al loro “starci” e al loro sentir possibile un incontro tra persone.
C’è poi qualche operatore più in difficoltà. Ho visto Anita diverse volte. La coordinatrice le ha proposto di incontrarmi individualmente “per una chiacchierata” e lei ha accettato. Una chiacchierata che si è da subito rivelata come un incontro intenso e doloroso, preludio di un percorso terapeutico altrettanto intenso, seppur breve, che ha permesso ad Anita di affrontare e superare un periodo particolarmente tortuoso. È una signora sulla sessantina dagli occhi dolci e tristi, con un sorriso altrettanto triste. Al nostro primo incontro, dopo essersi seduta, scoppia in lacrime: “non so perché mi stanno tornando fuori tutte le cose vecchie, sepolte, dimenticate”. Mi racconta di esser stata via alcuni giorni con la figlia, in vacanza. “Lì è andata bene, ma appena tornata a casa, di nuovo lo stomaco chiuso… mi alzo, mi accendo una sigaretta, bevo a malapena il caffè, mi siedo in giardino e la testa inizia ad andare dove vuole…”. È stata dal suo medico, le ha dato delle pastiglie e le ha preparato un’impegnativa per una visita psichiatrica. “Conosco quella strada (si riferisce all’appuntamento con lo psichiatra) e non è quella che voglio per me… l’appuntamento comunque è tra un paio di mesi, ho ancora tempo”. Conosce quella strada… Cosa intende dire? Mi racconta del suo papà (emozionandosi molto), dei suoi numerosi ricoveri all’ospedale psichiatrico di una città del Sud dove lei ha trascorso la sua infanzia. Racconta di questo padre un po’ bizzarro, con una presenza intermittente, ma generoso e amorevole con la famiglia, tra un ricovero e l’altro. Ricorda sua madre, ora affetta da Alzheimer e ricoverata nella stessa casa di riposo dove Anita lavora come operatore socio-sanitario. Ricorda che la madre accompagnava lei e i suoi fratelli a trovare il papà, ricorda che si parlava naturalmente di ciò che aveva il papà, del fatto che fosse malato: le sue stranezze e i suoi nervosismi eccessivi erano dati dalla malattia. Non era un papà cattivo, ma un papà malato. Poi un giorno, lei e i suoi fratelli stavano giocando in strada e un tizio chiede a lei di chi sono figli. Orgogliosa lei dice nome e cognome del suo papà e quell’uomo commenta: “Chi? Il pazzo?”. Per lei una pugnalata al cuore, un dolore fortissimo: ancora oggi si ricorda la voce e il viso di quell’uomo (allora lei aveva sette anni). Lei credeva alla sua mamma, credeva al calore e all’affetto sentiti, credeva alle visite fatte in ospedale psichiatrico e al fatto che il papà era molto malato, ma quella frase… era come se fosse riuscita a spazzar via tutto, facendo male ancora oggi. “Poi la vita è andata come è andata…” . Racconta di essere emigrata al Nord in cerca di lavoro, di aver incontrato l’uomo che è poi diventato suo marito e padre di sua figlia, di essersi separata quando la sua bambina era molto piccola perché vittima di violenze e sevizie da parte del marito (che della figlia non ha mai voluto saperne) e di aver poi finalmente incontrato la persona che da più di vent’anni è il suo compagno (e marito) e che ha allevato con lei la sua bambina come se fosse sua figlia. “Un giorno però ho fatto una cazzata” e mi racconta questo episodio: si era recata con la figlia (che aveva all’epoca sette od otto anni) e un’amica in una città vicina per una visita medica e in stazione vede l’ex marito (lì perché in quel periodo ci lavorava). Istintivamente dice alla figlia: “Erika quello è il tuo papà” e subito si rende conto di aver esposto la figlia a un possibile nuovo rifiuto e si ferma. Chiede all’amica di portare la figlia a far colazione al bar lì vicino e si avvicina all’ex marito, ma questi non vuole saperne di vedere la figlia. Lei torna al bar scusandosi con la figlia e dicendole di essersi sbagliata, che era una persona che assomigliava al suo papà, ma non era lui. Nel viaggio fatto con la figlia la scorsa settimana le due donne hanno riparlato di questo episodio. Da quando era successo non ne avevano mai più fatto cenno: in macchina è stata la figlia che a un certo punto ha chiesto alla madre se quell’uomo incontrato in stazione quando lei era una bimba fosse suo padre. La madre annuisce, le racconta com’era andata veramente e la figlia le dice che lo aveva capito subito che era lui. In questi giorni c’è stato l’anniversario di nascita del padre di Anita e il compleanno di Erika. Le sorrido e commento che forse tutto quello che mi ha raccontato ci dice molto rispetto al fatto che “proprio in questo periodo” le stiano “tornando fuori tutte le cose vecchie”. Annuisce e mi dice, quasi sorpresa, che mi ha raccontato cose mai dette a nessuno e che già il solo fatto di averle dette la fa sentire meglio, più distesa. Abbiamo fissato un appuntamento per la settimana successiva e poi per quella successiva ancora.
E poi ci sono le persone ricoverate. Un giorno la coordinatrice mi contatta telefonicamente: a breve inseriranno una nuova ospite, un caso difficile che arriva da un’altra casa di riposo di un paese vicino. Difficile è anche gestire la madre, che staziona quotidianamente in casa di riposo. La coordinatrice vorrebbe che fossi presente al momento dell’inserimento per parlare sia con l’ospite sia con la madre. In realtà non mi è possibile garantire la presenza richiesta e fisso un appuntamento per il giorno seguente. Al mio arrivo nella sua stanza Lucia è nel letto, la madre le siede accanto. Sparse per la stanza borse e valigie, segni del recente inserimento in struttura. Esplicito il senso del mio esser lì quel giorno e la possibilità di usufruire della mia presenza anche in seguito, nel caso fosse eventualmente interessata. Inizia a parlare quasi subito: ha bisogno di raccontare la sua storia, ma soprattutto ha bisogno che questa storia sia ascoltata. E io sono lì per ascoltarla. Mi guarda dritto negli occhi e difficilmente distoglie lo sguardo. La sento viva, vitale, quasi in contrasto con quel corpo allettato. Non ha ancora sessant’anni, ma le gambe non la sorreggono più e un braccio le è stato amputato sopra al gomito. Indicandolo mi dice che “è il risultato della cazzata” che ha fatto (un tentato suicidio di qualche anno fa). Dopo essersi sposata si era trasferita in una località turistica nelle montagne svizzere, aprendo un ristorante che gestiva con il marito. Pochi anni dopo, con i due figli ancora molto piccoli, resta vedova e cerca, fin che le è possibile, di portare avanti la gestione di quell’attività di cui andava orgogliosa, nonostante la fatica di aver la propria famiglia in Italia. Da come prosegue nel suo racconto si intravede che pian piano uno stato di malessere ha iniziato a farsi strada, portandola in un tunnel di sofferenza e ripetuti ricoveri in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), avvenuti, a suo dire, “a tradimento”. “Lì è stata la fine…” e mi racconta di come sentiva modificarsi il suo modo di essere, la sua lucidità, la capacità di articolare bene le parole a causa dei farmaci che le somministravano. “Gli psicofarmaci ti tolgono la voglia di vivere e a me l’hanno tolta. Ma da quando ho smesso di prenderli sono tornata ad essere quella che lei vede ora. Ho voglia di vivere, di vivere per raccontare la mia storia”. Fatico a star dietro a tutto quello che mi dice: mi parla di complotti, di gelosie, di piani messi in atto da una sorella con dei medici compiacenti. Mi sento tirata dentro in un vortice dove distinguere tra realtà e pensieri persecutori mi sembra una grande impresa e quindi desisto, continuando ad ascoltarla e tenendo viva quella frase che mi è parsa come contenente anche una grande verità: “Gli psicofarmaci ti tolgono la voglia di vivere”. Più volte mi chiede se le credo: certo che le credo! Credo all’enorme dolore e al senso di prevaricazione provato, credo che abbia molto da dire rispetto alle sofferenze passate e credo sia importante che ci sia qualcuno a cui poter dire tutto questo. Non è bastato un incontro per ascoltare la sua triste storia. Ci siamo viste diverse volte e la madre non è mai stata così “onnipresente” come temevano inizialmente i responsabili della struttura. Spesso mi ha letto delle poesie scritte da lei (ne ha raccolte ormai un centinaio e saltuariamente alcune vengono pubblicate da un giornale locale), degli spaccati di vita, di gioie e dolori, di emozioni che spesso mi hanno emozionato. È una donna che ha molto da dire e da dare, nonostante le stranezze e i muri che negli anni ha alzato attorno a sé. Continuo a incontrarla, ogni volta che vado in casa di riposo. Un giorno mi ha detto: “Sa perché ho raccontato a lei la mia storia? Perché lei è l’unica che mi ha creduto”.
Ho illustrato tre situazioni molto diverse tra loro, tre diversi percorsi possibili all’interno di una casa di riposo: il gruppo degli operatori socio-sanitari, un operatore in una difficile fase della propria vita, un’ospite ricoverata. Nessuna delle tre situazioni aveva chiesto esplicitamente il mio intervento, ma tutte hanno sentito, credo grazie al mio modo di essere presente, la possibilità di un incontro, un incontro tra persone, e ci sono state. Un incontro che, legittimando il bisogno di essere accolti e ascoltati, diventa terapeutico nel momento in cui accoglie e ascolta ciò che l’altro porta, quale testimone della propria verità.
Mentre andavo ultimando queste mie riflessioni, mi è tornato in mente Sergio Erba che, nelle “supervisioni del venerdì” al Ruolo Terapeutico, spesso accennava al “fattore umano” come elemento determinante e fondamentale del nostro lavoro. Le esperienze poco sopra riportate mi sembra che possano testimoniare qualcosa a riguardo.
_________________________________________________________________________________
SCARICA L’ARTICOLO IN FORMATO PDF: