UN POMERIGGIO CON SIMONA MONTALI
Intervista raccolta da Flavia Achermann, Viviana Ingrà, Luca Licatalosi, Miriam Morici*
Simona Montali è medico pediatra neonatologo, psicoterapeuta infantile. Attualmente lavora a Parma, come psicoterapeuta libero professionista. È docente nel Master in Psicoterapia Infantile del Ruolo Terapeutico di Parma e docente della Scuola di Psicoterapia del Ruolo Terapeutico di Milano.
– Come si è avvicinata al mondo della psicoterapia?
Nasco come pediatra neonatologo, lavoro per 22 anni in terapia intensiva neonatale in ospedale. Ai tempi, la mia formazione medica organicistica (e indubbiamente il mio modo di essere di allora), mi faceva essere molto scettica su tutto quanto riguardava il mondo “psi”. Quasi mi stupisco nel ritrovarmi a essere psicoterapeuta, ma l’esperienza professionale e di vita, le persone che ho incontrato, mi hanno aiutato a superare i preconcetti e, credo, la paura dell’affacciarsi al mondo dello “psichico”, soprattutto al mio mondo interno. Così, mentre lavoravo in ospedale in neonatologia, ho iniziato dapprima un percorso personale di psicoterapia ed in seguito mi sono iscritta alla scuola di psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza “Istituto F. Bonaccorsi” a Milano. Era una scuola a indirizzo psicodinamico, freudiana-mahleriana, della durata di cinque anni, di cui quattro dedicati all’età evolutiva (infanzia e adolescenza) e uno agli adulti. Una delle due tesi di diploma che ho elaborato alla fine dei cinque anni, riguardava una bambina, la mia prima paziente, che ho seguito ambulatorialmente in ospedale, nel corso degli ultimi 4 anni di scuola; era una bimba con diagnosi di autismo. Quel percorso con lei e con la sua famiglia, supportato dalle supervisioni che facevo a scuola, mi ha molto affascinato.
Ho avuto la fortuna di avere un’insegnante e supervisore bravissima, la dottoressa Annovazzi, con una lunga esperienza e un particolare interesse per questo tipo di “patologia”. E l’interesse e il fascino per questo tipo di disturbo è rimasto.
– Cosa in particolare ha suscitato in lei questo interesse per l’autismo?
Mi appassiona, nel vero senso della parola. Sono convinta che l’autismo sia un disturbo a eziologia multipla, in cui il fattore determinante, nel bene e nel male, per così dire, stia in un disturbo nella relazione madre-ambiente/bambino. Lungi da me parlare di colpe. Non credo assolutamente che le madri siano le responsabili del disturbo autistico, tout court. Credo che qualsiasi cosa disturbi fortemente una buona relazione neonato/ambiente possa essere responsabile di un trauma e che a sua volta il trauma, o una serie di piccoli traumi ripetuti, possa favorire la comparsa di un disturbo difensivo da parte di un bambino più “fragile”. Una madre può essere adeguata e congruente per un bambino e invece non “sufficientemente buona” per un altro bambino, non necessariamente per sua carenza. In effetti non tutti i piccoli hanno la stessa competenza a vivere, anche psichicamente, e non tutti riescono a stimolare nella propria madre un adeguato “istinto materno” (non approfondiamo cosa si intende per istinto materno).
Visto che è evidente che la sofferenza è nella relazione, è quello il campo nel quale ci è possibile intervenire per aiutare questi bambini con i loro genitori a ritrovare un funzionamento più adeguato. In effetti non ci è dato, almeno per ora, di intervenire su eventuali problematiche genetiche o sistemi mirror difettosi. Se anche il bambino avesse una delle condizioni che lo rendono predisposto all’autismo, la predisposizione non è il destino. La relazione non può considerarsi statica, la relazione di per sé è dinamica. Bisogna quindi intervenire su quella.
L’esperienza e il lavoro di molti altri psicoterapeuti infantili relazionali mi portano a pensare che il bambino che presenta questo disturbo sia un bambino che ha messo in atto tutte le sue difese per preservarsi da un “ambiente” che considera pericoloso o troppo disturbante. È l’estrema ratio per proteggere un Io ancora non formato, in pericolo. Dentro la sua bolla autistica è protetto, ma estremamente isolato. Il nostro intervento di terapeuti infantili non può essere che quello di trovare il modo di entrare in comunicazione con lui, senza forzature, rispettando la sua difesa, aspettando, sapendo aspettare che sia lui a lasciarci entrare. È come se fossimo davanti ad un castello fortificato e avessimo due possibilità per entrarci: o arrivi con l’ariete per sfondare il muro, e come risultato non puoi che ricevere secchiate di olio bollente fino a che non riesci a sfondarlo, ma quello che trovi è poi un castello distrutto; oppure c’è un’altra strada, che è quella che seguo: stare fermi, una sorta di assedio pacifico fuori dalle mura, un esserci, saper aspettare, disarmati, in contatto con quella parte di sé nostro, molto arcaica, che si mette inevitabilmente a risuonare in queste occasioni, almeno a me succede così. Allora il bambino crea una piccola fessura nella sua fortificazione, non percepisce pericolo, fessura che pian piano poi si apre, si riesce a creare un piccolo ponte fino a permettere a te terapeuta di entrare. All’inizio entri tu, ma se ti arroghi l’idea di essere tu soltanto a entrare, il pericolo è che ti sostituisca alle persone che possono e devono veramente entrare in relazione col piccolo, i suoi genitori. La parte più importante del mio lavoro è per me quella con i genitori, è mio compito aiutarli a re-innamorarsi del proprio figlio, che ai loro occhi torni ad avere un senso quello che fa, perché gran parte della disperazione di mamma e papà è vedere il proprio bambino come un alieno. È terribile! Per fare questo, traduco il suo linguaggio incomprensibile costituito dalle cose apparentemente assurde che fa, in richieste di aiuto che lui urla nel solo modo che è in grado di usare. Uso la mia “fantasia”, ovvero le emozioni e le sensazioni che il bambino, in seduta con i suoi genitori, mi suscita, dando quindi un senso possibile ai comportamenti anomali. Specifico sempre ai genitori che non è la Verità quello che dico loro, è solo una traduzione che faccio, in contatto con la mia parte più arcaica e profonda. Possono imparare anche loro a farlo, questa è la strada per iniziare a comunicare di nuovo con lui. Per questo dico e affermo che sono i genitori che possono diventare i veri “terapeuti” del bambino; ed è per questo che la terapia va fatta coinvolgendo profondamente i genitori. In effetti, il paziente è la situazione, non il bambino. Anche mamma e papà sono “pazienti”, sono loro che hanno motivazione, tempo, feeling viscerale (non parlo mai di amore, perché in questi casi può esser davvero molto mascherato da tutte le difficoltà della situazione) ed è quindi su di loro che si lavora ancor più che sul piccolo. Una cosa importante: il bambino, anche molto piccolo, è una persona che capisce, per cui non parlo mai con i genitori davanti al bambino, se non per dire delle cose positive e dico ai genitori di tenere ben presente che il loro bambino capisce quello che sta succedendo, quindi di non parlare mai in senso negativo di lui in sua presenza, cosa che purtroppo accade molto spesso…
– Esistono bambini in cui, già a pochi mesi, si rileva la presenza di questa sindrome. Anche in questo caso lei parlerebbe di una forma di difesa da un mondo percepito senza sufficiente amore?
Assolutamente sì, perché la vita psichica inizia in età prenatale.
– A chi si trova a lavorare con bambini con questa sindrome, non potendo però avere contatti diretti col contesto familiare, cosa consiglierebbe?
Ci dovrebbe essere sempre la possibilità di un contatto con la famiglia, se la famiglia esiste. Ci sarà comunque sempre qualcuno che in un modo o nell’altro fa da adulto di riferimento per lui. Se si viene in contatto con questi bambini in un ruolo differente da quello terapeutico, importante è avere a che fare col terapeuta di riferimento e coordinare gli interventi in modo che non siano incongruenti fra loro. Sempre, comunque, credo sia importante mettersi in gioco. Ad esempio quando io ho un bambino in stanza e lui guarda da tutt’altra parte (lecca per terra, urla, butta per aria tutto ecc.), io normalmente mi metto in un angolo e basta, perché se quel bambino può mettersi in relazione soltanto con una “cosa”, perché l’umano lo spaventa, allora io devo diventare una “cosa”, ma una cosa che c’è. È il bambino che però da solo, di solito, lentamente, cerca un contatto quando intuisce la possibilità di un contatto non invasivo. Solo allora ci può essere da parte mia l’umano che riscalda lentamente la relazione. Si va a orecchio. Io credo molto nel bambino, credo che ci sia al di là di ogni apparenza. Se ad esempio fa un rumore, io prendo la palla al balzo e ripeto lo stesso rumore e vedo se questa cosa sembra avere un effetto; il bambino ripete il rumore e io lo ripeto uguale a mia volta. Mi è capitato quasi sempre che alla terza volta di una cosa del genere, quindi non più casuale, il bambino si blocchi. Non mi guarda, però credo che pensi “ah, c’è qualcuno che mi risponde”, e non risponde riempiendolo di domande e parole, che sarebbero per lui come macigni, ma resta lì mantenendo le distanze di sicurezza. Poi ogni bambino è diverso dall’altro; quindi bisogna prendere le giuste misure e questo è vero sia nell’intervento terapeutico, sia in altri contesti. Anzi, in un contesto educativo ancora di più. Se si ha rispetto del bambino e lo si considera persona, questo gli restituisce la responsabilità di sé e diventa possibile trovare la giusta distanza, il giusto modo di comunicare, di creare la relazione. Se il fine ultimo è creare la relazione con lui allora è importante rispettare anche i momenti in cui lui non desidera interagire, pur cercando di non farlo sentire abbandonato. Quando ad esempio il bambino autistico mette in atto le sue stereotipie, è importante rispettarlo, è una sorta di ricarica di cui ha bisogno. Le abbandonerà quando non ne avrà più bisogno.
– Anche se questi gesti ripetitivi coinvolgono altre persone? Ad esempio il bambino che ho in mente soffia sul viso delle persone.
Allora si può dire: “Eh, ma che vento che fai? Che vento forte… sembri Eolo”. Una cosa così… cioè sicuramente il divieto va bene per dare dei limiti ma devono essere limiti ampi, perché questi bambini ne hanno bisogno ma devono poterli rispettare. Il divieto va modulato a seconda dei diversi bambini con cui si ha a che fare, perché poi va fatto rispettare in tutto e per tutto. Non si può negare qualcosa e poi fargliela fare, ci dev’essere coerenza nel comportamento. Quando non si è sicuri che un limite possa essere rispettato allora è meglio utilizzarne uno meno rigido affinché il bambino non lo infranga.
– Che cosa è importante emerga nel corso del primo colloquio con i genitori?
Capire quale sia il problema e che domanda mi pongono, se me la pongono. Il primo colloquio è sempre con entrambi i genitori, appena è possibile. Li lascio parlare a ruota libera per poi dir loro la mia proposta di consultazione, una specie di percorso breve in cui vedrò i genitori per qualche colloquio e successivamente loro con il loro bambino in alcune sedute. Alla fine di questo percorso, ci sarà un incontro di restituzione, durante il quale raccoglierò le loro impressioni ed i loro pensieri sull’esperienza vissuta e dirò loro quali sono state le mie osservazioni e quale percorso proporrei per loro e il loro bambino. Se accettano (e non è detto), si inizia il percorso di consultazione. La prima cosa da fare è l’anamnesi. Non quella medica… è un’anamnesi molto approfondita che richiede almeno due sedute. Ai genitori chiedo dei loro genitori, parto dagli avi e dal rapporto che avevano con loro perché è probabile che questo influenzi in qualche misura il rapporto che avranno o hanno coi figli. Faccio domande sui loro eventuali fratelli, per lo stesso motivo. Parto dalla loro storia come coppia: come si sono conosciuti, come è nato questo figlio, com’è nato nella mente, che tipo di fecondazione è stata, perché l’hanno cercato, quali sono state le motivazioni profonde; domande che riguardano la gravidanza attuale, cioè del figlio in questione, ma anche eventuali gravidanze precedenti o aborti ecc. Indago l’esperienza della gravidanza dal punto di vista sia della mamma sia del papà.
Una delle domande che faccio sempre è “com’era suo figlio?” nel senso del temperamento e “cosa ha pensato la prima volta che l’ha visto?”. È importantissima per me l’anamnesi perché molto spesso vengono fuori cose che erano state dimenticate, perché è una sorta di ricostruzione in loro del bambino fin dall’inizio ed è la ricostruzione nella mente di un bambino sano, per cui riescono a rivederlo così, lo reintroducono dentro di loro modificato, ri-guardato e addirittura mamma e papà si raccontano dei vissuti che non si erano mai detti. A me interessa sia l’informazione sia il come me la danno. È un inizio di approccio con me e un rivivere il loro bambino con me. Sicuramente sono domande che suscitano pensieri, ricordi, emozioni.
Alla fine della consultazione, durante la restituzione, faccio la proposta eventuale di percorso terapeutico. A volte inizia e a volte no.
– Utilizza qualche strumento specifico per la raccolta dell’anamnesi?
No, utilizzo solo biro e quaderno ed è l’unico momento in cui scrivo davanti a loro, così che ci sia quella giusta distanza tra noi, dato che di solito io sono “molto calda”, viscerale, quindi soprattutto all’inizio c’è bisogno che mi tenga a bada. Segno tutto, oltre quello che mi dicono, anche i miei pensieri e le mie emozioni in quel momento, cosa sento mentre loro parlano, le cose che mi lasciano, le impressioni. Sono cose preziose.
– Ha notato delle differenze nel modo in cui le madri di oggi si relazionano con i loro figli rispetto al passato?
Non particolarmente. La cosa che ho notato è che negli ultimi anni intervengono molto anche i padri, mentre prima erano più distaccati. A volte capitano padri che si definiscono scettici, che tentano di banalizzare le difficoltà del figlio… però intanto sono lì. Preziosi. Sulle madri no, nel lungo periodo le problematiche sono sempre le stesse, le ansie pure, poi dipende sempre da individuo a individuo.
– La sua esperienza con bambini con sindrome autistica ha cambiato il modo in cui si relaziona coi bambini anche non autistici?
Sì moltissimo. Più che il metodo in sé e per sé è stata la possibilità di entrare in contatto con quella parte mia che va in risonanza rispetto a queste problematicità, mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con maggior tranquillità con i bambini, mi verrebbe da dire, “normali” o meglio con altri disturbi. Mi è capitato ad esempio di avere bambini con ADHD (Disturbo da deficit di attenzione/iperattività) – a me non piace dare etichette, ma serve per capirci – e vederli saltare ovunque, e proprio perché abituata ad aspettare coi bambini con sindrome autistica, anche con gli altri bambini aspetto, non ho urgenza. Se uno ha urgenza fa prima a cambiare mestiere e anche per quanto riguarda l’ottenere risultati, bisogna imparare a non avere urgenza.
– A proposito di diagnosi, negli ultimi anni ha riscontrato cambiamenti?
Direi, per la mia esperienza, che ci sono moltissimi bambini che vengono spacciati per autistici, Asperger o simili, quando non lo sono. È come se non fosse riconosciuta a noi esseri umani la possibilità di mettere in atto una serie di meccanismi di difesa, tra cui quelli autistici. Bisogna, invece, riconoscere che esistono delle difese e capire da che cosa sono scaturite e perché ci sono; per fortuna esiste il sintomo. Il sintomo alla fine non è nient’altro che il manifestarsi di una difesa e quindi onore al sintomo che ci dice che qualcosa non va, che bisogna fare qualcosa.
A noi terapeuti spetta fare diagnosi, ma nel senso di capire cosa sta dietro il sintomo, non nel senso di applicare un’etichetta. Due bambini possono avere la stessa etichetta, ad esempio di Asperger, ma sono due persone diverse, dietro all’etichetta che hanno, perché sono differenti. È come dire che hai due pazienti, entrambi con la polmonite; non posso curarli entrambi con lo stesso antibiotico perché, ad esempio, il germe che ha provocato la polmonite a uno è resistente all’antibiotico che è ideale per l’altro. C’è polmonite e polmonite. È una diagnosi quella che noi facciamo, dobbiamo chiederci da che cosa è determinato il problema. Poi c’è la questione del sintomo: non si deve eliminare il sintomo che ci ha aiutato a individuare quella diagnosi. Il sintomo andrà via quando il paziente non ne avrà più bisogno. La febbre se ne andrà quando il paziente non ne avrà più bisogno, basta contenerla perché non faccia troppi danni. Se si cerca di togliere la febbre senza chiedersi da dove viene, si rischia di fare grossi danni.
– Predilige qualche tipo di strumento nella terapia con i bambini?
Il gioco. Io gioco moltissimo. Vari tipi di gioco, a seconda di quello che i bambini richiedono, non lo propongo io. Nel mio studio ce ne sono molti a disposizione per età diverse. Ogni gioco ha il suo significato. Un esempio è il gioco dell’ ”Uno”, un gioco di carte. Apparentemente è un gioco poco sensato, di regole. Ho continuato a giocare a “Uno” per un anno intero; se giocassi a “Uno” con il mio nipotino per un anno intero gli direi di cambiare gioco, mi stuferei. Se invece gioco a “Uno” da terapeuta, il modo di stare è molto diverso, è un mettersi in gioco insieme, io e il paziente. Dipende sempre da come si usano le cose.
– Un esempio del cosa intende per “mettersi in gioco”?
Ho questo ragazzino che, se dovessi fare una diagnosi classica, direi Asperger. È un ragazzino che ha una problematicità enorme nel prendere contatto con le sue emozioni, questo gli ha comportato delle difficoltà importanti dal punto di vista relazionale. I genitori sono davvero i suoi terapeuti, nel senso che loro sono le uniche persone (non io) con cui lui verbalizza e mette in gioco le sue emozioni e i suoi pensieri più profondi.
Vedo sia i genitori sia il bambino. Con quest’ultimo gioco a carte, da una quantità di tempo immemorabile ormai, ed è passato dal “Sette e mezzo”, che è un gioco puramente di fortuna, a quello dell’”Uno”. Nel gioco dell’”Uno” puoi anche aggredire, e lui aggrediva moltissimo tramite la carta, allora io gli dicevo: “ah bella roba, me la vuoi fare pagare perché io prima ho tirato la carta giusta” e lui mi guardava e rideva. Io non davo la carta aggredente all’inizio, me la tenevo in mano e poi ho iniziato a rispondere all’aggressione con aggressione e vedevo la sua reazione, si infuriava allora io dicevo: “e beh, ci mancherebbe, mi arrabbio anch’io quando tu mi dai la carta, non è che ti arrabbi solo tu”. Ovvero: arrabbiarsi è possibile, non succede nulla.
Nonostante il gioco appaia solo come “gioco” in realtà rappresenta un mezzo per leggere, modulare, provocare le emozioni. Io lo lascio vincere fin quando non vedo che è assolutamente necessario per lui, successivamente, quando sento che gli è possibile affrontare la frustrazione, comincio a farlo perdere, e osservo se abbandona il gioco o meno. Nel primo caso commento dicendo: “ah, quando perdi allora non vuoi più continuare?”, “no mi sono stufato”, allora all’inizio prendo per buono quello che mi dice, poi aggiungo: “non è vero che è così perché secondo me ti sei un po’ arrabbiato e ti piace vincere”. Ed ecco arriva il tempo in cui c’è l’ammissione dall’altra parte: “sì, io voglio vincere sempre”, a cui rispondo chiedendo: “che paura c’è a perdere? Cosa succede se perdi?” e lui risponde: “per esempio con mio fratello mi arrabbio quando lui corre più veloce di me”. E mentre giochiamo, parliamo.
Lui a scuola è sempre andato benissimo, il rapporto con i compagni è migliorato nel tempo, non è un amicone e ha le sue bizzarrie, ma è un ragazzo integrato, soprattutto è sereno. Ha scelto che scuola superiore frequentare, è molto più autonomo e ben consapevole di quello che gli può piacere. Siamo arrivati a giocare a “Burraco”, passando per “Briscola”, “Scopa”, “Asso piglia tutto”, “Scala Quaranta”. Siamo andati avanti nella terapia, apparentemente passando da “Uno” a “Burraco”, con un continuo e progressivo rinforzo di consapevolezza e presenza di emozioni e sentimenti cui riesce a dare un nome, soprattutto con sua madre.
Il gioco delle carte è stato ed è un mezzo per visitare le sue profondità. Un ragazzino che tra le altre cose è estremamente goffo, con una manualità pessima ma che negli anni ha imparato anche a “smazzare” le carte, seppur all’inizio con estrema difficoltà, per questo non voleva mai farlo, poi si è messo in gioco e ha cominciato a provarci. Insomma piccoli passi, che poi rappresentano la terapia.
– Che frequenza hanno gli incontri con i genitori?
Adesso una volta al mese.
– E con il ragazzino?
Ogni 15 giorni.
– Che frequenza propone nei suoi incontri?
Di solito la cadenza è settimanale, propongo di vedere una volta i genitori con il bambino e una volta i genitori da soli, seguendo la stessa cadenza per gli incontri successivi.
– Il bambino da solo, mai?
Quando sono piccoli, età prescolare, mai. Questo vale anche il più delle volte per bambini inferiori ai 7-8 anni.
– Questo per dare la possibilità ai genitori di vedere cosa succede in terapia?
No, è perché io sono terapeuta della situazione e non solo del bambino.
– Crede che l’osservazione del movimento del bambino nella stanza sia ancora utile nella pratica terapeutica?
Fondamentale.
– Cosa ci può dire del supporto farmacologico?
In alcuni casi penso che sia utile, in quanto ci sono delle situazioni in cui il supporto farmacologico è una pezza momentanea, necessaria affinché la terapia possa avere un suo senso, invece in altri casi potrebbe non esserlo. Di solito il bambino piccolo è difficile che ne abbia necessità, a parte i più compromessi; se il bambino arriva da me con una terapia farmacologica già intrapresa, entro in contatto col neuropsichiatra per capire che pensiero ci sia dietro e per un confronto. Sono dell’idea che non serva il farmaco come mezzo risolutore, ma possa essere un aiuto talvolta perché la terapia psicologica abbia un effetto migliore.
– Le capita mai di contattare gli insegnanti e altre figure di riferimento, ossia figure che non siano i familiari?
Moltissimo, fa parte del mio modo di lavorare. Io normalmente contatto gli insegnanti, a prescindere dall’età del bambino, chiedendo prima il consenso ai genitori. Ci sono genitori che non hanno piacere che si sappia della terapia del bambino quindi, rispettando la loro scelta, non contatto gli insegnanti ma indago con i genitori le motivazioni sottostanti. Quando invece i genitori sono d’accordo tengo sempre informato anche il bambino del fatto che contatterò gli insegnanti perché credo sia sbagliato fare le cose sulla testa del bambino.
– E se il bambino non fosse d’accordo che lei veda gli insegnanti?
Non è mai successo, nel senso che di solito è una comunicazione, non è che chiedo il permesso, il permesso lo chiedo ai genitori, al bambino comunico che ci vado. Sono bambini che hanno talmente bisogno di essere considerati all’interno di una relazione, che è difficile che se qualcuno se ne interessa un po’ di più dicano di no.
– Quindi secondo lei esprimono una loro domanda di aiuto.
Si, credo che esprimano chiaramente la loro domanda d’aiuto venendo, o rifiutandosi di venire. Nel corso della terapia può accadere che a un certo punto il bambino dica “io non voglio più venire”. Questo rifiuto può avere due significati, entrambi da indagare: può essere vero che il bambino non voglia più venire, e allora si cerca di vedere cosa nella terapia è andato storto; è però possibile che il bambino ti voglia mettere alla prova, allora è sufficiente dire “ma davvero? Mi dispiace tanto che tu non venga, ma sai cosa faccio io? Ti aspetto lo stesso perché il nostro spazio è proprio in quel giorno a quell’ora, c’è qui la tua scatola che ti aspetta. Io sono qua, decidi tu”.
È difficile che non vengano se si è creata una relazione, potrebbe capitare che un bambino non voglia venire o perché all’inizio questa non si è creata o perché non c’è un feeling particolarmente positivo oppure ha paura.
– Precedentemente ha parlato di supervisione. Intendeva supervisioni in gruppo o individuali?
Sia in gruppo che individuali, più ce n’è meglio è. Ho 63 anni e ogni volta che vi partecipo mi rendo sempre più conto di tutte le cose che mi sfuggono e mi mettono in gioco come persona. Siamo dei pozzi senza fondo, dei meravigliosi pozzi senza fondo.
– E nel caso in cui il bambino non venisse in terapia?
Io aspetto un’altra volta, aspetto la volta successiva in cui vedo i genitori, e sento com’è andata. Il bambino sa che i genitori vengono da me, perché è tutto alla luce del sole. E quindi dico “beh, fate una bella cosa, dite ad Andrea che io l’ho aspettato e la prossima volta lo aspetto ancora”, io ho sempre molta fiducia che i semini messi prima o poi diano il loro frutto, dopo di che… sarà come sarà.
– Può accadere che la domanda d’aiuto dei genitori sia diversa da quella del bambino?
Certe volte succede che i genitori facciano una richiesta d’aiuto perché mettono davanti il bambino ma in realtà la richiesta d’aiuto è la loro. In tal caso vedo comunque il bambino, e nella restituzione decidiamo insieme il da farsi. Se lo reputo utile, nella restituzione faccio capire che c’è la necessità di agire sul bambino che effettivamente presenta dei disturbi, aiutando i genitori ad aiutarlo a star meglio con lui; quindi restituisco l’idea “aiutatevi voi, vedrete che poi voi sarete in grado di aiutare vostro figlio”.
– Diceva poco fa che il gesto del bambino autistico può avere un senso e poi diventare stereotipato perdendo un po’ di quel senso. A suo avviso come mai, per il bambino autistico, si perde il senso ma resta il gesto?
Perché il messaggio che quel gesto aveva non è stato colto; è come l’oca di Lorenz. Io non lo so se ha senso o non ha senso, diciamo che io sono un po’ totalitaria nel pensare che ci sia un perché a tutto; per qualcuno è più facile trovarlo per altri meno.
Vi faccio un esempio. Un bambino di tre anni aveva come stereotipia quella di correre avanti e indietro davanti a dei cancelli, alla velocità della luce, e poi in studio si metteva davanti agli occhi un cancelletto di plastica e correva avanti e indietro a questo, e la mamma si innervosiva moltissimo. Ecco, invece di dire “sa signora, queste qua sono stereotipie dovute al fatto che il bambino è autistico”, io le ho detto “signora, sa cosa mi fa venire in mente? Siccome è così curioso (vero!) suo figlio ha bisogno che tutto sia uguale, sempre uguale, magari lui corre avanti e indietro per vedere, attraverso le sbarre, se tutto è uguale. Lui guarda, controlla, deve controllare che tutto sia uguale, questo gli dà sicurezza”.
Ecco, questa spiegazione è chiaramente una mia fantasia, ma ci credo. Io dico sempre ai genitori: “Guardate che io non sono dentro la testa dei vostri figli, io non so la verità, io non so cosa pensano; vi posso dire quello che a me suscitano nella mia fantasia. Ed è così che voi potete imparare, perché neanche voi saprete mai cosa passa nella testa di vostro figlio, ma la vostra fantasia vi può guidare verso una strada che è probabilmente quella più giusta. È chiaro che se voi pensate che questo bambino vi sta dicendo qualcosa e lo vedete in questo senso, l’idea che lui stia controllando una sua paura, fa sì che voi la possiate accettare; se invece pensate che lui fa così perché è autistico non la potete accettare perché non ha alcun tipo di senso. Per cui a me dà questa idea qua ad esempio, magari a voi dà un’altra idea. Ed è per questo che io ci sto e non mi meraviglia, non mi infastidisce.” Credo sia fondamentale per noi terapeuti riuscire a cogliere al nostro interno, utilizzarci, riuscire ad essere in contatto con noi stessi, con quello che quell’azione apparentemente insensata ci fa sentire. È il pensiero intuitivo, quello che Ogden ha attribuito a Bion quando dice “senza memoria e senza desiderio”, che non significa che uno non si ricordi più della volta prima. Avere un pensiero intuitivo è tutt’altra cosa, cioè si intuisce come nella parte più profonda, che non è pensata ma è sentita, quella cosa lì si mette in contatto con quell’altra cosa lì e allora tu puoi intuire cosa vuol dire, se ti metti in quella dimensione. Faccio fatica a spiegarlo in maniera diversa. È un cogliere nella tua fantasia, sapendo che è la tua fantasia, restituendo anche ai genitori che è una fantasia tua, ma che anche loro possono usarla nello stesso modo, la loro.
Funziona. Ce la fanno. Sono bravi. Ho sempre avuto dei genitori molto bravi, perché vogliono credere, chiaramente, che il loro bambino non sia un alieno. Mi riempie di grandissima commozione questa cosa. È una cosa molto commovente, proprio la profondità a cui riescono ad arrivare, sono proprio bravi.
– Che idea si è fatta del mondo inconscio dei bambini che ha avuto in terapia? E di quello dei genitori?
Io sono convinta che gli inconsci si parlino, e ci metto anche quello del terapeuta, e farei un mix. Sono universi, misteriosi e inaspettati.
– Si riesce ad avvicinare l’inconscio in bambini con sindrome autistica?
Credo che loro siano molto più vicini al loro inconscio di chiunque altro; è il riuscire a mettersi in contatto proprio con quello che è difficile, il riuscire a entrare, come terapeuta, in comunicazione abbandonando il livello razionale. Con una mano bisogna tenere la maniglia del proprio ruolo di terapeuta e con l’altra bisogna fluttuare in quell’acqua lì, altrimenti non ci cavi un ragno dal buco, secondo me. Per cui ti devi sentire lì, con quella tua parte che funziona così, perché ce l’hai anche tu.
– Come, secondo lei, l’aspetto spirituale o il senso che un terapeuta dà alla vita influenza la terapia?
Per quanto mi riguarda come persona, oltre che come terapeuta, ricerco un senso rispetto al mio essere in questo mondo, al mio essere finita, alle scelte che ho fatto, alla mia nascita, alla mia morte e al tipo di lavoro che faccio. Io parlo molto spesso di anima, con i genitori, con i pazienti adulti e nelle cose che scrivo, la chiamo anche essenza. Che ci sia qualcosa di trascendente, che nella vita ci sia un mistero, è qualcosa che mi entusiasma e mi tranquillizza; nel senso che mi fa sentire con i miei limiti, me li fa accettare di più, mi fa accettare di più i miei errori e mi fa trovare di più un senso alle cose che faccio. Credo che sia fondamentale che esistano dei valori, degli ideali.
Con i genitori non parlo mai d’amore (che è una parola abusata in maniera terribile), perché credo che non esista un amore puro, credo non esista un amore completamente disinteressato, che è quello che noi andiamo cercando ed è quella nota di malinconia che caratterizza noi umani, perché noi tendiamo a quello, ricerchiamo quello: l’amore completamente disinteressato. Che non esiste, credo. Credo che quello del genitore nei confronti dei figli sia forse uno degli affetti più disinteressati, ma non è neanche vero perché ti aspetti sempre qualcosa dai figli, è difficile che non ci si aspetti niente da loro, è normale. Questo un figlio lo sente come negativo, se però uno ci pensa è normale, non esiste un amore disinteressato. Ci sono mamme che arrivano a dire “dottoressa, lo vorrei eliminare”, pensate che dolore. Per questo non parlo mai d’amore. È piuttosto la motivazione che li spinge a fare di tutto per vederlo star meglio, vederlo diventare più comprensibile, vederlo più sereno. Sì, sicuramente lo amano anche, altrimenti non lo porterebbero lì, non lo accudirebbero, ma ci sono dei momenti, credo, che l’eliminarlo sia un pensiero comprensibile.
– Ci sono dei limiti che il terapeuta si deve dare sulla durata di una terapia? In media quanto può durare?
Secondo me, una delle cose più difficili è quella di non avere aspettative e capire che cosa ci tocca fare e che non ci tocca guarire ma accompagnare il più possibile sulla strada della salute, rispettando quel determinato bambino, quei determinati genitori, quella determinata situazione. Per cui io dico sempre, prima di iniziare una terapia (soprattutto con bambini molto compromessi), “sappiate che è un percorso che non ha tempo. Io non vi dirò mai adesso basta, sarete voi a dire adesso basta. Non prometto niente se non di accompagnarvi tutti nel percorso finché lo desidererete, accompagnarvi comunque. È un percorso di lacrime e sangue che potrà durare una quantità di anni, a seconda di quello che vorrete, o che vorrà il bambino o il ragazzino”. Non do limiti. Son convinta che sia una scelta che spetta a loro e non a me.
– A loro genitori o loro bambini?
Tutt’e due. Dipende, perché il bambino diventa grande. Ho finito a settembre una terapia che è durata 23 anni, perché la ragazza ha detto “basta”. Io sono stata molto contenta che lei abbia potuto dire basta. Mi è dispiaciuto, però era una buona cosa.
– E come gestisce il dopo… quando la terapia finisce? Ci sono dei contatti?
Beh, ogni tanto mi contattano. Io dico sempre sia ai bambini sia agli adulti che hanno deciso di smettere: “Il cuore del terapeuta è un cuore grande e lì c’è un posticino con scritto un nome, che è il tuo nome, e ci sarà sempre fino a quando tu vorrai. Ci sarà sempre”. Ed è vero. Poi alcuni tornano, altri mi mandano foto con Whatsapp. Uno, ad esempio, da dieci anni tutte le feste della donna, Natale, Capodanno e Pasqua mi scrive un messaggio. Insomma sono disponibilissima a rivederli, qualcuno torna a fare una chiacchierata perché è in un momento difficile, soprattutto durante l’età puberale; quindi vengono, chiacchierano e vanno. Queste sono tutte sedute che non faccio pagare, e che, a dire il vero, mi fanno molto piacere.
– Ha da raccontarci qualche caso, magari emblematico, di una “riuscita” particolare? Qualche situazione in cui forse all’inizio aveva perso la speranza?
Io la speranza la perdo poco, non perché creda molto in me, ma perché credo molto in loro. Di aspettative ne ho poche, vedo molto le potenzialità, non sempre vengono fuori ma, anche se mi dispiace, non sono delusa. È chiaro che mi metto in gioco se le cose non vanno bene, faccio le supervisioni ecc. ma è difficile che abbia delusioni, nel senso che parto senza aspettative ma credendo in loro. E se vedo che le cose non funzionano guardo se da parte mia c’è qualcosa che mi impedisce di migliorare la relazione che ho con quel determinato bambino, perché la faccenda è tutta lì: cerco semplicemente una relazione e che lui abbia la possibilità di averne una sufficientemente sana con me, affinché sia lui sia i genitori possano prenderla come spunto da portare nel loro mondo. Cosa di per sé sciocca, semplice. Per fortuna i bambini molto compromessi che ho seguito fino ad ora sono sempre arrivati abbastanza presto, perché se arrivano a tre anni hai delle chances maggiori che se arrivano a cinque o sei. Ad esempio ho in mente questo bambino autistico, portato al Centro Autismo della sua città; nonostante abbia fatto logopedia, psicomotricità, tutte le cose solite che si fanno, questo bambino continuava a urlare, a non parlare, a isolarsi parecchio, e a non guardare. Sono venuti da me i genitori, giovanissimi e molto, davvero molto, disturbati. Quando vedo i genitori così, so che ci sarà da lavorare, da combattere un po’ di più, nel senso che devi instaurare un rapporto con loro e devi aiutarli a fare i genitori. Me lo hanno portato loro, continuando a fare psicomotricità e logopedia (per me possono fare tutte le cose insieme, se lo desiderano), poi pian piano le hanno abbandonate e hanno iniziato a darmi retta, a lasciar spazio a questo povero bambino che veniva subissato da stimolazioni, da parole, da litigi, e hanno cominciato a modificare il loro comportamento in seduta, così il bambino ha iniziato lentamente a cambiare ed è stato introdotto alla scuola elementare senza bisogno di sostegno. Questo bambino è uscito molto rapidamente dall’autismo; bastava che uno lo lasciasse respirare e gli permettesse di esprimersi. In questo caso era effettivamente una questione ambientale. È stata una terapia faticosa ma, se vogliamo, è stato un successone.
– Ricorda dei saggi o dei romanzi che hanno influenzato il suo modo di lavorare?
Mi sono piaciuti moltissimo i libri di Torey L. Hayden, Una bambina, I bambini di Torey Hayden, Il gatto meccanico. Credo che questi siano da prendere a mo’ di Vangelo per tutti gli operatori che lavorano nelle scuole o a domicilio con bambini difficili. Questa donna è davvero un genio, un genio come essenza. Poi un libro che mi è piaciuto moltissimo è Lo stralisco di Roberto Piumini. È bellissimo, è il racconto di un autismo e di un terapeuta suo malgrado, un pittore. Un altro che mi è piaciuto molto, estremamente intenso, è Lontano dal pianeta silenzioso, di Clive S. Lewis. Bellissimo!! È un libro di fantascienza.
Io ho un ambito letterario piuttosto poco classico, però questi sono libri che mi prendono, che mi hanno preso molto.
– Ha letto il libro Se ti abbraccio non aver paura?
Sì, l’ho letto. Ho letto anche La ragazza porcospino. Sono libri molto belli. Questi che vi ho detto sono quelli che “di pancia” mi hanno presa molto. Se ti abbraccio non aver paura mi ha lasciato un po’ perplessa, tanto perplessa. Un libro che ho molto apprezzato è Nati due volte. Poi sto leggendo Come respira una piuma, scritto da uno psicoterapeuta-padre che ha avuto due gemelli pretermine ricoverati in un reparto di terapia intensiva neonatale. Molto coinvolgente e doloroso.
* Tirocinanti post-lauream in Psicologia presso Il Ruolo Terapeutico di Milano
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