Adriana Bolzan

Corro. Mi piace. In questi anni, circa dieci, la domenica mattina faccio il giro di un laghetto, dodici chilometri in mezzo al verde, ormai conosco anche i sassi.
Dalle primissime volte, anno dopo anno, quasi tutte le domeniche faccio un incontro particolare, particolare per quello che scatena dentro di me. Dopo pochi chilometri incrocio o sorpasso una coppia: padre e figlio. Li vedo mentre scrivo e mi viene da sorridere pensando che loro nemmeno immaginano che sto scrivendo di loro.
Il padre avrà circa settantacinque anni, il figlio una cinquantina. Sono alti, il padre è magro, ha dei capelli bianchissimi e il volto segnato da solchi profondi di vita. Il figlio porta un berretto calato sugli occhi e non vedo il volto, forse perché nel breve tempo dell’incontro sono concentrata sul viso del padre. Il figlio è più pesante e cammina tutto storto, appoggiato al braccio del padre che lo conduce e a cui si affida con una fiducia che si legge nel gesto. Sono silenziosi, cerco da sempre di cogliere una parola nel loro discorso di silenzio, ma non ne ho mai sentita una. Eppure si dicono, ne sono sicura.
“Buongiorno” e un sorriso il padre a me; “Buongiorno” e un sorriso grande grande io al padre: il saluto di sempre.
Ormai quando la domenica non li vedo mi preoccupo. Non so niente di loro. Penso una tetraplegia abbia ferito il figlio. Penso una testimonianza di amore quel padre instancabile.
Domenica scorsa sul percorso di quello che mi piace chiamare ormai il “mio laghetto” è stata organizzata una gara di beneficenza, vuoi non partecipare Adriana? Ho una tendinite che mi affligge da qualche mese e mentre corro mi lamento, brontolo con il mio corpo che rallenta la mia andatura e che mi fa sentire vecchia e acciaccata. Ma poi eccoli, compaiono davanti a me a circa cinquanta metri, il padre mi sorride e io “allungo”, lui schiocca un sorriso ancora più grande e mi dice “ciao”, io sono emozionata e poco prima di rispondere per fortuna, mi rendo conto che il suo sguardo mica si posa su di me, è diretto al ragazzo dietro di me. Scambiano due parole e una risata. Poi tutto è alle mie spalle, lontano. Io sorrido, quasi rido. Che sciocca! Penso al mio desiderio di essere riconosciuta da quel padre. Penso a tutte le volte che avrei voluto fermarmi di correre e passeggiare con loro a farmi raccontare della forza e del coraggio da questo padre che, tutte le domeniche, accompagna il figlio in questa passeggiata silenziosa. Mi vengono in mente tante domande che vorrei fargli; vorrei sapere del suo amore e di quella fiducia che ha trasmesso al figlio dal passo ammalato. Vorrei persino chiedergli se qualche volta posso fargli compagnia. Forse la verità è che vorrei chiedergli se posso stare in sua compagnia. In quella coppia c’è il mistero di un amore che non chiede perfezione.
So che sto dipingendo un quadro tutto mio, la cosa curiosa è che mi è venuto da intitolarlo così: La terapia.
Non so proprio il perché, ne tanto meno chi sono io in questa rappresentazione. Ma so che è il titolo giusto. Chissà, magari qualcuno che legge può interpretarlo per me.