Una parabola in ricordo di Sergio Erba
Erica Klein
Laureata in Lingua e Letteratura Russa. Traduttrice dal russo di classici. Saggista e autrice di numerosi lavori di critica letteraria.
C’è un racconto di Tolstoj che piaceva molto a Sergio Erba, l’aveva scovato chissà come, non è nemmeno di quelli noti, ma l’aveva colpito più di altri per la lettura simbolica cui si prestava sotto un’apparenza di lineare realismo. Lo commuoveva la testardaggine con cui il protagonista lottava per congiungersi con la sua anima e al contempo lottava per tenersene lontano. Ci vedeva una metafora del suo lavoro con i pazienti. È con questa parabola che voglio oggi ricordarlo.
Si sa che nella vecchia Russia i servi, essendo proprietà di qualcuno, non avevano coscienza di sé come individui, vivevano di riflesso e in simbiosi con l’inconscio dei padroni di cui spesso sentivano mancanze e impedimenti e sapevano anche all’occorrenza avvantaggiarsene. I padroni dal canto loro e del tutto inconsapevolmente delegavano ai servi parti di sé che non accettavano o non erano in grado di affrontare. Si creavano così strane coppie celatamente complementari di cui la letteratura ha dato ampia testimonianza. Una per tutte la mitica coppia Oblomov-Zachar del celebre romanzo di Gončarov, chiusa in legami cocciuti, inestricabili, indissolubili. Anche in questo nostro racconto del tardo Tolstoj, scritto negli anni 1894-1895, intitolato Padrone e servitore, c’è uno scorcio di tale interazione che permette all’uno di diventare involontario strumento di salvezza spirituale dell’altro. È la storia di un dannato viaggio notturno attraverso la gelida steppa invernale, perché Vasilij Andreič, il padrone, vuole a tutti i costi raggiungere un certo posto per comprare a prezzo vantaggioso un boschetto da aggiungere ai suoi numerosi possedimenti. Arriva la tormenta e la sera decide di fermarsi insieme al servo Nikita che l’accompagna, a un villaggio per scaldarsi con tè e vodka, potrebbe restare anche a dormire, l’ospitalità che gli offrono è calorosa e insistente, ma la smania lo spinge a ripartire malgrado tutto e a sfidare la tormenta di neve. Vuole arrivare all’alba, prima degli altri per concludere l’affare nonostante le previsioni minacciose. Nikita naturalmente è scontento, non aveva alcuna voglia di abbandonare il calduccio, né di continuare quell’avventura sconsiderata, ma era abituato a non avere alcuna volontà propria e ad accettare di buon grado quello che accadeva. La situazione ben presto precipita, com’era prevedibile, la strada sparisce sommersa di neve, il cavallo della slitta sprofonda fino al collo, intorno solo buio, dirupi e assenza di direzione, una vera mappa dell’inconscio. Impossibile proseguire, impossibile tornare indietro. Forse era qui che Vasilij Andreič doveva arrivare perché tutto si rimescolasse, perché i vecchi schemi saltassero e affiorassero le vere ragioni della chiamata. E infatti tutto si rovescia, anche le competenze, Vasilij Andreič perde la sua solita sicurezza e sicumera, qui non aiuta; il comando della situazione scivola lentamente a Nikita che, col buon senso di chi ha confidenza con la natura e con l’ignoto prende le decisioni giuste, rincuora il cavallo e alla fine annuncia: “Dovremo dormire qui stanotte” – “Ma qui finiremo gelati” – replica Vasilij Andreič. – “E se anche fosse – se devi congelare, mica gli puoi dire che non ti va”. È chiaro che nell’universo di Nikita è contemplata anche la morte, nell’universo di Vasilij Andreič non esiste, come non esiste tutto ciò che non controlla. Vasilij Andreič con le sue due pellicce non sentiva affatto il freddo, ma un brivido gli corse lo stesso lungo la schiena, quando comprese che bisognava passare la notte lì; per calmarsi si mise a cercare sigarette e fiammiferi. Nikita invece non smetteva di parlare al cavallo incoraggiandolo. Sapeva per istinto che occuparsi degli altri in momenti di pericolo aiuta a superare la paura, poi si preoccupò di mettere un segno in alto sulla stanga in modo che se la neve avesse coperto tutto, qualcuno l’indomani avrebbe capito dove cercare, quindi si scavò una buca per dormire, si avvolse tutto nel suo lacero caffettano e si preparò ad ogni evento. Vasilij Andreič per trovare pace tentò rifugio nel pensiero dei suoi denari, gli piaceva perdersi in cifre e somme, gli dava benessere e sicurezza, ma poi l’impatto del vento lo costringeva a guardarsi intorno: dovunque bianca oscurità ondeggiante e la paura quatta quatta gli si infilava sotto le pellicce; si addormentò per dieci minuti, al risveglio credette di aver superato la notte e di udire il canto del gallo, si sbagliava, era l’ululato del lupo in lontananza che si univa a quello del vento. Gli venne in mente San Nicola, provò a implorare di salvarlo, gli promise candele, ma poi si accorse che tutte quelle cose, icone, santi, cere, messe funzionavano in chiesa, nella vita normale, ma non qui. Anche Nikita pregava: “Batiuška, Padre celeste…”, mentre già stava perdendo conoscenza e non sapeva se stesse morendo o addormentandosi, ma si sentiva pronto all’una o all’altra cosa. Vasilij Andreič non ancora domato continuava a darsi da fare, gli parve a un certo punto di vedere qualcosa di nero, una casa, si accorse che era un cespuglio di artemisia, poi forzò il cavallo a inseguire delle tracce, salvo scoprire che erano le sue, che aveva girato in tondo. Fantasie, allucinazioni, astuzie dell’inconscio per rimandarlo a se stesso. Le sue peripezie non erano altro che gli strati della sua resistenza. Si ritrovò buttato a terra accanto alla slitta dov’era rannicchiato Nikita coperto di neve. Non dava segni di vita, forse era morto, il terrore s’impadronì di Vasilij Andreič. Com’è che fino allora non si era accorto di lui? Non ci aveva proprio pensato. Di colpo fu strappato ai soliti pensieri centrati su di sé e con la stessa decisione e passione con cui batteva le mani quando gli riusciva di fare un acquisto vantaggioso fece un passo indietro, si rimboccò le maniche della pelliccia e con entrambe le mani cominciò a scavare via la neve da Nikita, poi si sdraiò completamente su di lui. All’improvviso sentì che di una sola cosa aveva bisogno: che Nikita restasse vivo, tutto il resto, il boschetto, gli affari, i denari che andassero al diavolo. Aveva scoperto che la sua parte umana era depositata in Nikita e non poteva lasciarsela scappare. Si mise in ascolto, ma non del fischio della bufera, né dell’urlo dei lupi, solo del respiro di Nikita gli importava. Eccolo il punto dove doveva arrivare, quello che mancava alla sua vita e che cercava con tanta ostinazione, il legame caldo, incondizionato, commosso con un altro essere umano, quello per cui vale la pena essere sulla terra. Alla fine ci era arrivato, ma si sa che la natura è estremamente riluttante a divenire conscia. Fu preso da una strana debolezza che non aveva ancora mai provato, ma non gli era sgradita, anzi, lo faceva star bene e più gli scendevano le lacrime, più si sentiva fragile, ma anche saldo, protetto, felice e grato. Rimase tutta la notte sdraiato sul corpo di Nikita che rinveniva, non si accorgeva del tempo che passava e della paura della morte non c’era più traccia. Nemmeno ci pensava più alla morte, cioè sì, ci pensava a tratti, ma non c’era niente di spaventoso in lei, era una faccenda del tutto secondaria, l’importante era aver trovato quel tesoro della sua anima, sepolto, trascurato, sconosciuto di cui sentiva una gran nostalgia. La ricerca affannosa della ricchezza, ora lo capiva, era stata una falsa pista, il sintomo distorto di un altro bisogno. Quello che lui cercava stava in realtà cercando lui e Nikita, senza saperlo, l’aveva messo sulla strada giusta. Sognò di essere a casa sua e di stare aspettando qualcuno e non sapeva chi fosse. Era qualcuno che non conosceva e che lo chiamava. “Vengo!” Gridò nel sonno e questo grido lo svegliò. Voleva alzarsi, ma non gli riusciva e non gli dispiaceva di non riuscirci, anzi, si sentì libero, senza più nulla che lo tratteneva. E Nikita? La mattina dopo alcuni mužiki videro il fazzoletto issato in alto sopra una stanga e disseppellirono la slitta. Vasilij Andreič era morto, Nikita vivo, benché tutto gelato. Quando lo svegliarono era sicuro di essere già morto e si stupì molto che anche all’altro mondo ci fossero dei mužiki e che gridassero allo stesso modo di quaggiù. Visse altri vent’anni.
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