DAL DIARIO DI UNA VECCHIA PSICOANALISTA – LAURA SCHWARZ

UNA PREZIOSA LEZIONE

Molti anni fa, ma comunque in epoca in cui già da tempo praticavo la professione di psicologa, psicoanalista e psicoterapeuta, acquistai una casetta in campagna. Mi trovai come vicini, oltre a una mucca ed una capra, i relativi proprietari, cioè una coppia di contadini novantenni assai rozzi e semianalfabeti.
Lui era dolce e mite, lei più aspra, specie con lui. Mi aveva raccontato di averlo a suo tempo sposato per pietà, perché era povero e orfano, e ancora si rammaricava per non aver scelto ai tempi un partito migliore. Io, che la sentivo spesso rimbrottare il pover’uomo, ero indotta a pensare che gli avesse fatto pagare per tutta la vita quell’antico atto di compassione. Anche i compaesani parlavano di lei come di una persona non buona. Con me aveva comunque rapporti molto amichevoli, e anche io avevo simpatia per lei: chiacchieravamo insieme volentieri, e spesso lei bussava alla mia porta per regalarmi qualche prodotto della sua terra.
Un giorno bussò alla mia porta, ma questa volta non per regalarmi ortaggi: disse che voleva parlarmi. Io ero disposta a farlo subito, ma lei preferì prendere un appuntamento per più tardi; all’appuntamento, che si svolse sull’aia, si presentò poi dignitosa, insolitamente pettinata e rassettata, portando con sé la propria seggiola. Mi raccontò che la notte non dormiva, tormentata dalla paura di andare all’inferno dopo morta. Dapprima io mi informai su tale paura: perché temeva di andare all’inferno? “Perché sono cattiva”, mi rispose. Io cercai allora di liquidare un po’ scherzosamente tale cattiveria, banalizzandola, ma lei insistette assai seriamente di essere davvero molto cattiva. Passai allora a chiederle che cosa le diceva a questo proposito il confessore: oh, lui la metteva giù semplice, con le piccole penitenze, che però non la tranquillizzavano per niente; le sue notti erano proprio un inferno. Avrei potuto a questo punto commentare brillantemente che stava già scontando la sua pena, e quindi non doveva preoccuparsi per il dopo; invece presi ad occuparmi dell’insonnia: forse avrebbe potuto assumere un sonnifero, o bere la camomilla, o, al limite, provare a contare le pecorelle…
A questo punto Maria, spazientita, sbottò: “Ma cosa fa Lei coi suoi pazienti, visto che dice di curarli senza medicine?”. Riprese la sua seggiola e se ne andò cupa.

Questo episodio mi è tornato in mente spesso, e non sono certo fiera della parte che vi ho svolto: mi hanno sempre suscitato rammarico e la scarsissima disponibilità che avevo offerto a Maria, e il mio atteggiamento un po’ ipocrita (avevo finto di cadere dalle nuvole quando lei aveva parlato della propria “cattiveria”), e infine il risibile armamentario terapeutico che le avevo proposto. Inoltre, nella rabbiosa frase con cui Maria si era congedata, mi sembrava di intravedere non solo l’accusa di averla trattata con meno attenzione di quella che dedicavo ai “veri” pazienti, ma forse anche l’allusione a un “re nudo” che lei aveva per lo meno sospettato dietro la mia etichetta professionale.
Dentro di me ho in seguito riconosciuto le ragioni di Maria, e la sua protesta mi è sempre rimasta impressa come una fastidiosa pulce nell’orecchio, fonte di un disagio retrospettivo che oscillava fra il senso di colpa e la vergogna: insomma, dovetti ammettere con me stessa che in quella occasione non ero stata una buona psicologa, e quell’episodio ha assunto per me il valore e il significato esemplare, prototipico, di come “non” dovrebbe mai comportarsi uno psicologo, neppure quando è in vacanza.

Di questa assunzione di significato mi sono però resa conto solo vari anni dopo, quando, cercando di illustrare agli allievi di una scuola di psicoterapia le difficoltà emotive e gli errori difensivi in cui si può incorrere in un primo colloquio di consultazione, mi è venuto da citare proprio quell’esempio; provocando subito la vivace obiezione di un’allieva: “Ma Lei in quel momento non stava facendo la psicologa; io non faccio la psicologa quando vado in pizzeria con gli amici!”. L’obiezione mi aveva sorpresa e un poco spiazzata, perché l’allieva aveva indiscutibilmente ragione; ma, allora, come mai quell’episodio mi sembrava così appropriato a illustrare il punto che mi stava a cuore, tanto da farmi trascurare il “piccolo particolare” che in realtà non si trattava di un colloquio clinico ma di una semplice conversazione? L’allieva me lo aveva giustamente fatto notare, e forse con la sua obiezione intendeva anche dire che, visto che durante quel colloquio io non stavo “facendo la psicologa”, non c’era nulla da eccepire sul modo in cui mi ero comportata.

Non è un caso che il racconto dell’episodio e l’obiezione dell’allieva siano avvenuti mentre si parlava della fase iniziale del rapporto di uno psicologo con una persona che non si può ancora definire paziente, e forse non lo diventerà mai; una persona che forse ci ha cercato di propria iniziativa, ma forse invece ci è stata inviata con le più svariate modalità, spesso autoritarie se non addirittura velatamente coercitive; una persona di cui o non si sa ancora nulla, oppure si sa soltanto ciò che ce ne riferiscono frettolosamente gli invianti, con modalità spesso simili a quella con cui un medico deferisce un paziente a uno specialista. In questa situazione lo psicologo (spesso un principiante che aspira a divenire psicoterapeuta, ma il discorso può valere anche per psicoterapeuti più esperti) si trova esposto alla massima insicurezza e vaghezza; e non è quindi sorprendente che cerchi di aggrapparsi a un ruolo (donde l’espressione “fare lo psicologo”) che si ispira al modo di comportarsi di figure professionali affini ma meglio definite (lo psicoterapeuta, l’analista); un modo di operare con cui è venuto a contatto nel corso della sua formazione, attraverso l’analisi personale, o le lezioni, o l’attività di tirocinio. Ma fra l’analista (o lo psicoterapeuta) e il paziente, o fra il docente e l’allievo, vige già, nel bene o nel male, una relazione strutturata secondo una certa contrattualità), mentre nei primi contatti dello psicologo con una persona, che in questo stadio è preferibile chiamare “cliente”, non vigono ancora né regole né ruoli concordati; o meglio, ci può essere, nascosto, il ruolo che il cliente ci attribuisce, o si aspetta, o teme, o spera, che noi impersoniamo; un ruolo dunque tutto da scoprire, non solo da parte dello psicologo, ma anche del cliente stesso, che per lo più non ne è consapevole o lo è solo in parte (per non parlare del ruolo che ci attribuiscono gli invianti…). Di ciò dovrebbe preoccuparsi lo psicologo, di capire e scoprire, in questi primi contatti, il ruolo che in quel particolare contesto egli è sollecitato a svolgere; ma, quanto più il suo spazio mentale è occupato dallo sforzo di “fare lo psicologo”, tanto meno spazio gli resterà per occuparsi, interessarsi, interrogarsi su ciò che ha portato quella persona, in quel particolare momento e contesto, a rivolgersi a lui.
In queste prime fasi del contatto con un cliente le conoscenze e le tecniche acquisite servono poco, anche all’operatore che dispone già di una certa esperienza; lo psicologo non può che attingere al proprio patrimonio di esperienza personale accumulata nel corso degli anni, e alle impressioni e reazioni emotive che nascono in lui da questo nuovo contatto (meglio se un’analisi personale gliene permette già una certa elaborazione), per muoversi nel colloquio con il miglior possibile equilibrio fra attività e passività, spinto dall’interesse e dalla curiosità verso il cliente, e non da un proprio prematuro progetto terapeutico da attuare nei suoi confronti. Lo psicologo quindi in quel momento non potrà ispirarsi ad alcun modello esterno per trovare le risposte appropriate a ciò che l’altro gli comunica. Solo calandosi il più possibile nei panni del suo interlocutore, utilizzando le proprie conoscenze ed esperienze, e attingendo alle proprie risorse emotive e intellettive potrà favorire un fecondo svolgimento del colloquio, da cui in seguito potrebbero scaturire eventuali proposte operative. Le doti innate che favoriscono un tale atteggiamento sono presenti in molte persone, anche assai semplici e prive di cultura psicologica, che qualche volta abbiamo avuto la fortuna di incontrare: persone che svolgono attività di assistenza e di aiuto, o semplici e preziosi interlocutori di alcuni nostri particolari momenti; persone capaci di offrirci uno spazio mentale senza invadere il nostro, senza riempirci prematuramente e inopportunamente di pareri, critiche, proposte, standoci semplicemente accanto.
Gli insegnamenti e l’esperienza aiuteranno poi lo psicologo a sviluppare ed affinare in sé tali doti umane innate, di cui certamente è in qualche misura provvisto se si è orientato verso questa professione; e lo psicologo potrà molto imparare ed arricchirsi se riuscirà a utilizzare ciò che apprende dai docenti senza tuttavia mai privilegiare modelli teorici o operativi che oscurino la sua autenticità o le si sovrappongano, o che si sostituiscano al suo naturale modo di essere; l’imitazione di modelli esterni nello sforzo di impersonare un ruolo non potrà invece che inaridirlo e impoverirlo, impedendogli di accedere pienamente alle proprie risorse.
Nelle prime fasi di una consultazione lo psicologo si muove dunque in una specie di zona grigia, implicato com’è in una relazione ancora non strutturata, che non può direttamente ispirarsi né alle relazioni della vita corrente, né alla specificità di una vera e propria relazione professionale, ma che al tempo stesso contiene aspetti di entrambe; una situazione vaga e un poco ambigua, ma proprio per questo anche potenzialmente feconda di ricchi e variegati sviluppi. Anche chi pratica prevalentemente l’attività di analista o psicoterapeuta dovrà attraversare una simile zona grigia ogni volta che entrerà in contatto con un potenziale nuovo paziente. Attraversando ripetutamente questa zona grigia, accumulando esperienza e maturando attraverso l’analisi personale, la nostra originaria personalità subisce una trasformazione che ci porta ad “essere”, e non soltanto a “fare , lo psicologo, o lo psicoterapeuta, o l’analista.

Questa trasformazione non può non ripercuotersi anche nel nostro modo di essere e di relazionarci al di fuori delle situazioni professionali, e in ciò ci differenziamo da chi pratica altre professioni: una situazione per lo più non comoda, che ci espone a difficoltà emotive e talvolta a non facili scelte operative, e che quindi può indurci nella tentazione di spogliarci della identità acquisita, cioè a comportarci come se non fossimo psicologi, aggrappandoci alla razionalizzazione che non stiamo “facendo gli psicologi”, o addirittura ignorando momentaneamente, “in buona fede”, di esserlo. Ma se tale scissione produce impoverimento e artificiosità quando si percorre la zona grigia nella direzione di andata, dalla vita quotidiana alla professionalità, lo stesso accade quando la si percorre in senso inverso: non basta proporsi, come è giusto, di “non fare gli psicologi” fuori dal campo professionale; saremo sempre psicologi, seppure a volte artificiosi o sonnecchianti, sia quando lavoriamo, sia quando chiacchieriamo con gli amici, sia quando prepariamo una torta (e del resto neppure una torta potrà mai riconvertirsi negli originari ingredienti, crudi e separati fra loro). Non possiamo cioè più liberarci di quella sensibilità acquisita che ci permette a volte di percepire maggiormente i moti affettivi propri e dell’altro, e di leggere o intravedere anche significati più o meno nascosti dietro il contenuto esplicito delle sue comunicazioni, verbali e non. Si pone allora il problema di cosa farne di questa sensibilità, senza pretendere di “fare gli psicologi” al di fuori del contesto professionale, ma senza neppure fingere, soprattutto a noi stessi, di non esserlo. E se il nostro interlocutore, conoscendo la nostra professione, ci considera esperti della psiche, il problema diviene ancora un po’ più difficile.

La contadina Maria, pur sapendomi psicologa, non si rivolgeva a me in quanto tale quando mi regalava i pomodori. Quella particolare volta, invece, si aspettava che io fossi psicologa per lei, e me ne aveva dato segni che io, con la mia competenza psicologica, avrei potuto o dovuto intuirlo, data l’insolita solennità che lei aveva conferito all’incontro; se l’avessi intuito avrei potuto accoglierla con la consapevolezza che mi sarei trovata in zona più che mai grigia, una zona in cui non è comodo sostare, e da cui quindi ci si sente spinti a fuggire. Già solo tale consapevolezza mi avrebbe in un modo o nell’altro aiutata a gestire meglio il colloquio. Invece istintivamente ho “girato l’interruttore”, regredendo a un modo di funzionare che credevo di essermi lasciato da tempo alle spalle. Quando poi il contenuto della sua comunicazione si è rivelato attinente al conturbante tema universale della temuta irreparabilità della colpa, sono caduta in una grossolana insensibilità, assai poco compatibile con l’immagine che avevo di me come persona, prima ancora che come psicologa: il modo in cui l’avevo frettolosamente liquidata mi ricorda quell’anziana nobildonna che benevolmente ascoltava le pene dei suoi domestici, per poi commentare coi propri pari: “Anch’essi hanno i loro piccoli problemi!”.
In quel frangente sono stata così poco psicologa che non mi sono neppure posta il problema se fare o non fare la psicologa; e tuttavia quella mia infelice prestazione, di cui non mi sono mai più dimenticata, è divenuta per me il prototipo negativo di un cattivo colloquio professionale. Credo di averlo citato agli allievi perché la frattura creatasi in me, impedendomi l’accesso perfino alle mie naturali e generiche risorse umane, è simile alla scissione in cui rischia di incorrere un principiante nei primi colloqui, laddove l’inesperienza, in una situazione relazionale non ancora strutturata, spinge a indossare artificiosamente un ruolo anziché a utilizzare le proprie capacità identificative e le proprie risorse emotive. Nel mio incontro con Maria si è verificato il processo inverso: mi sono difesa senza accorgermene dalle complicazioni che il fatto di essere psicologa, ed essere riconosciuta come tale, potevano apportare a quella semplice e rilassante relazione di buon vicinato.

Maria ha presto superato la sua frustrazione, decidendo fra sé che io non ero una buona psicologa, o forse ero addirittura una falsa psicologa; il che non le ha impedito di continuare a regalarmi pomodori e cipolle. Invece la frustrazione che lei ha inflitto a me con la sua schietta protesta ha prodotto un lento e lungo lavorio che ha favorito il consolidamento della mia identità di psicologa, come attestano anche queste pagine. Sono grata a Maria per quell’antica lezione di cui è stata capace, e spero che, assieme al riconoscimento della propria cattiveria, essa le sia servita per ottenere uno sconto di pena in purgatorio.

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Una preziosa lezione