DAL DIARIO DI UNA VECCHIA PSICOANALISTA – LAURA SCHWARZ

UNA VICENDA CHE DURA DA MEZZO SECOLO

Sedici anni fa ho traslocato nel luogo in cui abito tuttora e dove fino a pochi mesi fa ho anche esercitato la professione. La prima volta che misi piede fuori di casa, a pochi metri dal mio portone, fui fermata da un passante a me sconosciuto che, dopo avermi chiesto se fossi la dott.ssa Schwarz, mi chiese anche se mi ricordassi di lui, Giulio, che da bambino veniva da me in via Costanza. Certo che me ne ricordavo: un bambino gracile, delicato e sempre un po’ trasognato; un bambino che faceva disegni e discorsi strani che io perlopiù non capivo e che mi ripeteva all’infinito sempre una stessa domanda: “Com’è l’estate a Milano?”. Io ero alle prime armi della professione privata e, a quel tempo, non ero in grado di dargli la risposta che probabilmente gli avrei dato oggi: “Vorresti sapere che cosa faccio io quando tu sei lontano, in vacanza?”. Invece continuavo a chiedergli invano cosa intendesse dire con quella domanda, non ottenendo naturalmente alcuna risposta sensata, ma mi sentivo anche profondamente toccata, perché a quel tempo la parte di estate che trascorrevo a Milano era per me un periodo affascinante ed eccitante; questo però lo sentivo come un mio segreto, ed ero stupita e anche un po’ turbata che Giulio insistesse proprio su quella domanda.

La terapia di Giulio (durante la quale uno dei suoi due fratelli maggiori era tragicamente morto in un incidente stradale causato dal padre) era durata poco, perché dopo l’estate i genitori avevano bruscamente interrotto il trattamento senza preavvertire né Giulio né me. A me, nei trent’anni successivi, erano tornati più volte in mente quello strano ragazzino e quella sua strana domanda, ma mai avrei potuto riconoscerlo in quell’uomo di mezza età, bolso e gonfio come chi assume da lungo tempo psicofarmaci, che invece mi aveva immediatamente riconosciuta, nonostante i trent’anni passati, accanto al mio portone.

Pur gratificata e commossa da questo riconoscimento, quando, subito dopo aver appreso che io ora abitavo lì, Giulio mi aveva chiesto se lavorassi ancora, di getto, mentendo, gli avevo risposto che no, non lavoravo più. Da quel momento, cioè sedici anni fa, Giulio è entrato nuovamente a far parte della mia vita, quasi della mia quotidianità, dato che lavorava a pochi metri da casa mia; era però un Giulio nuovo, quasi un rottame umano, che mi stava di fronte e mi faceva pena, ben diverso dal misterioso e anche affascinante ragazzino di trent’anni prima. Giulio invece sembrava felice di avermi ritrovata e, nei frequenti incontri casuali nei dintorni, ignorando quanto gli avessi detto la prima volta, cominciò a chiedermi insistentemente di tornare a essere mio paziente. In questa ripetitiva richiesta di Giulio l’atteggiamento filiale e idealizzante che, comunemente gli ex pazienti nutrono nei confronti dell’ex terapeuta, coesisteva con un’irrealistica speranza, anzi una quasi certezza: Giulio dava come per scontato che, a differenza dei genitori, io non sarei mai invecchiata e non sarei morta e che quindi, prima o poi, avrei potuto prendermi cura di lui come di un figlio.

Desidero tuttavia sottolineare che sia i più o meno casuali incontri per strada, sia le sempre più frequenti telefonate perfino in ore notturne, sia i rari e timidi squilli al mio citofono, mi coglievano sempre alla sprovvista: perlopiù, dopo ognuno di questi contatti, io ero scontenta di me e avevo l’impressione di non aver risposto a Giulio nel modo che sarebbe stato “giusto”.

Pur non essendo mai riuscita a relazionarmi con lui sul piano della realtà, come è avvenuto con i pochi pazienti che hanno mantenuto un certo contatto con me dopo la fine del trattamento, nel corso di tutti questi contatti, mi ero fatta gradualmente un’idea di come si era svolta la sua storia nei trent’anni successivi all’interruzione della terapia. Ultimo di tre fratelli, uno dei quali, come già scritto sopra, morto tragicamente, fino al momento in cui ci siamo rincontrati, Giulio ha sempre convissuto coi genitori. Non è riuscito a terminare la scuola media superiore, passando per le mani di vari psichiatri e psicoterapeuti, di nessuno dei quali ha conservato un buon ricordo. Gode di una pensione di invalidità che non gli ha tuttavia impedito di conseguire la patente di guida, e da un numero imprecisato di anni lavora come fattorino presso la piccola ditta del fratello superstite e di sua moglie. Svolge le sue mansioni in maniera sufficiente e amministra autonomamente il suo piccolo budget. Gira in città con la sua vecchia auto; non mi risulta abbia avuto incidenti di rilievo. È in carico presso un CPS, dove riceve esclusivamente cure farmacologiche. Durante il lungo periodo di declino del padre, nonostante la presenza di badanti, si era spesso comportato da capofamiglia, chiamando quando necessario l’ambulanza, accompagnando lui stesso il padre in ospedale e discutendo poi coi medici.

Confesso che avevo mentalmente ricostruito la storia e le condizioni di vita di Giulio per difendermi dal disagio che provavo ogni volta che lo incontravo o che lui cercava un contatto con me: se lo intravedevo da lontano cercavo di scantonare e, quando mi raggiungeva al telefono, cercavo di sbrigarmela il prima possibile. Fra le poche persone a cui avevo confidato questa specie di assedio, con l’aria di dire “guarda cosa mi capita!”, coloro che avevano una formazione “psico” apparivano disinteressate, alzando le spalle come di fronte a una cosa della quale non aveva senso occuparsi e preoccuparsi; mentre le altre mi raccomandavano di stare attenta, cioè di difendermi dalla potenziale pericolosità di Giulio. Io non lo percepivo come pericoloso, piuttosto come fastidioso, e non mi sentivo capita dai miei interlocutori. Speravo invano che qualcuno capisse il mio disagio, da cui ero tentata di difendermi, dicendomi “se conduce una vita abbastanza normale, in fondo non dovrebbe farmi tanta pena, ed è un po’ matto solo nella pretesa che io ricominci a curarmi di lui come facevo in via Costanza”.

Ma proprio rileggendo la mia ricostruzione della sua storia e delle sue attuali condizioni di vita, mi sono finalmente resa conto che da sempre gli è mancato qualcosa di essenziale: nella sua storia e nella sua vita attuale non c’è traccia di rapporti sociali, di amicizie, di attività artistiche o ricreative; fin da quando era piccolo sembra che tutti abbiano sempre cercato di cambiargli la testa anziché cercare di capire cosa ci fosse dentro. Ed io che a suo tempo avevo provato vero interesse per lui, ora lo vivevo come uno scocciatore da evitare, un mite e inoffensivo stalker, un mendicante da cui cercavo di liberarmi con qualche spicciolo di pseudo-attenzione.

Se tutte le comunicazioni di Giulio non fossero state sottese dalla richiesta – per me soggettivamente inaccettabile – di riprenderlo in cura e dall’idealizzazione del periodo in cui era stato mio paziente, trent’anni prima, se Giulio insomma fosse stato semplicemente un mio vicino di casa che attaccava spesso bottone con me, raccontandomi le penose vicende legate al lunghissimo declino della sua famiglia, conclusosi con la morte prima della madre e poi del padre, avrei probabilmente tollerato con maggiore pazienza e indulgenza questi tristi sfoghi, considerandoli “normali”.

Purtroppo invece, nei nostri fugaci contatti Giulio e io ci muovevamo su due piani assolutamente diversi: io mi mostravo interessata alla sua realtà attuale e passata, mentre per lui la cosa veramente reale era quel passato idealizzato che non era possibile far rivivere. Dalla mia ricostruzione era emersa la vita di una persona dal destino sfortunato che soffriva di ansie tenute a bada dagli psicofarmaci e che svolgeva “alla bell’e meglio” i compiti che il mondo gli richiedeva. Ma ho dovuto riconoscere che anche io facevo parte di quel mondo: delegavo agli psicofarmaci la soluzione delle sue angosce, esortandolo a non fare troppe storie per quelle che sono le normali vicende della vita.

Ma ero scontenta di me. Sentivo di tradire la mia identità di analista che ritenevo si fosse ben fusa con la mia identità personale, illudendomi che tale fusione potesse pienamente permeare anche le mie relazioni extraprofessionali.

Con Giulio, però, la cosa era particolarmente difficile. Ad esempio, quando avevo letto il necrologio di sua madre mi ero sentita in dovere di mettere, per la prima volta, il piede nel piccolo ufficio in cui lavorava, a pochi metri dalla mia abitazione, per fargli le condoglianze come avrei fatto con un conoscente o un vicino di casa. Mi era parso tuttavia che Giulio non avesse gradito quel mio intervento nella sua vita reale, a cui aveva reagito con grande imbarazzo; similmente, quando mi vedeva per strada in compagnia di qualcuno oppure in un negozio, faceva in modo di farsi notare, ma poi non rispondeva al mio esplicito saluto: sembrava dunque desiderare che il fatto che noi due ci conoscevamo rimanesse segreto fra noi.

Durante l’ultimo periodo di vita del padre e subito dopo la sua morte, avvenuta pochi mesi fa, gli approcci di Giulio si sono intensificati e hanno anche assunto una nuova tonalità. Ora non avevo più a che fare con il mendicante che mi supplicava di accoglierlo in un immaginario paradiso: avevo di fronte un uomo furibondo perché la sorte non gli aveva donato neppure “un momento felice” nella sua vita; quest’uomo mi bombardava con tali proteste come se ne fossi in qualche modo io la responsabile.
Io tuttavia non mi sentivo per nulla offesa da questa tonalità accusatoria: anzi dentro di me infatti gli davo ragione; tacevo, ma comprendevo la sua delusione e la sua rabbia; non cercavo di addomesticarlo e ammansirlo con frasi convenzionali. La cosa buffa è che il mio disagio nel rapportarmi a lui si era come dissolto: ora mi sentivo autentica, non scissa fra accettazione e rifiuto come era avvenuto per anni; specularmente in Giulio cominciava a profilarsi un’integrazione fra il bambino che sperava di ritornare all’immaginario paradiso perduto e lo pseudo-adulto costretto a barcamenarsi fra le difficoltà e le crudezze della vita.

Non so se si possa dire che nel rapportarmi a Giulio ero diventata più buona, ma certamente ero diventata più vera: per esempio, a un certo punto, non ne potevo proprio più dei suoi sfoghi rabbiosi e bruscamente chiudevo la conversazione telefonica, augurandogli la buonanotte, oppure, quando mi sembrava che esagerasse nelle accuse al fratello (l’unico superstite della famiglia e datore di lavoro, secondo lui, avaro e poco comprensivo), ho trovato infine l’espediente di definirlo bonariamente un brontolone. Giulio se l’è lasciato dire, e da quel momento è stato a volte lui stesso a definirsi così. Similmente alla sua lamentela di “avere le ansie”, mi accadeva di rispondere che le ansie ce le abbiamo un po’ tutti, e lui sembrava accettare questa sdrammatizzazione.

Ora non mi preoccupo più di cercare la “giusta” risposta e, se alle sue invadenti domande sulla mia vita personale mi capita a volte di rispondere irritata “sono fatti miei”, non me ne faccio un gran problema. Ho imparato a scantonare con una certa eleganza le domande che mi danno più fastidio perché mi fanno sentire assediata: Giulio vorrebbe sempre sapere se e quando sono uscita nel corso della giornata o quando prevedo di farlo, ma non se la prende troppo per il mio rifiuto di rispondergli.

Oggi per Giulio io sono una persona in carne e ossa anziché una mitica fata, quasi un’apparizione: così mi aveva percepita la prima volta che ci siamo rincontrati sedici anni fa. E anche il mio modo di percepire Giulio è molto cambiato in questi sedici anni. In un primo momento ero stata delusa per aver ritrovato, non il bambino misterioso e affascinante di trent’anni prima, bensì un povero diavolo, un quasi deficiente mentale; in seguito è stato per lungo tempo un blando molestatore che pretendeva cose per me inaccettabili. Questo “molestatore” è riuscito però a suscitare in me, dapprima una certa curiosità nei suoi confronti, in seguito un’intensa curiosità nei confronti di me stessa e del mio modo di relazionarmi non solo con lui, ma con le persone con cui ho abitualmente a che fare, pazienti o meno che fossero.

Pur rifiutando la sua richiesta di tornare a essere mio paziente, mi sembra che l’evoluzione del nostro rapporto abbia certe caratteristiche proprie di una relazione psicoterapeutica, una relazione cioè che favorisce un progresso maturativo di entrambi i protagonisti. Oggi i contatti tra Giulio e me si svolgono quasi esclusivamente attraverso telefonate in cui mi racconta episodi della sua vita quotidiana e anche ricordi del passato, tutte cose che mi interessano veramente. Mi rendo quindi conto che mi comporto con lui come con le varie persone a cui sono in qualche misura legata e interessata e che non sono mai state mie pazienti; persone con le quali non ho una vera e propria intimità e che a volte mi sono magari di peso, ma di cui ogni tanto mi chiedo che cosa ne è di loro se non ne ho notizie da un certo tempo.

Oggi Giulio vive da solo nella vecchia casa di famiglia, che io immagino grande e triste; solo la sera rispondo alle sue telefonate, in una delle quali gli ho consigliato di provare a leggere uno dei pochi libri presenti in casa, tutti, a quanto pare, di argomento religioso. Mi è scappata di bocca la promessa di regalargli un libro un poco più divertente, e mi chiedo cosa sono oggi io per lui.

Chissà come sarebbe Giulio oggi se un giorno non ci fossimo casualmente rincontrati. Passando in rassegna ciò che è successo fra noi nel corso di questi sedici anni, constato che, dopo il rifiuto di tornare ad essere la sua terapeuta (cioè, nella sua percezione, la sua fata benefica) ho svolto successivamente i ruoli di psicologa di strada e poi di vittima, per assestarmi infine in una funzione di tipo parentale/educativo; ciò mi permette di continuare a crescere nonostante abbia chiuso l’attività professionale e nonostante la mia veneranda età.

Laura Schwarz

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Una vicenda che dura da mezzo secolo